XIX
La porta si aprì stancamente, con un cigolio. Se qualcuno avesse ascoltato dalla stanza in fondo al corridoio, avrebbe sentito dei passi che si avviavano anch’essi stancamente dall’ingresso. Ma nessuno ascoltava.
La sera era ormai subentrata al pomeriggio, e dalla tapparella semichiusa filtrava la luce dei lampioni al posto di quella del sole morente.
Rumori dall’esterno: urla in dialetto di ragazzini impegnati nella fine della partita. Il pallone che risuonava ritmico su una saracinesca chiusa da tempo immemorabile, diventata ormai una porta da calcio in servizio permanente effettivo. Il richiamo delle donne dai balconi, che urlavano invettive e minacce all’indirizzo dei figli attesi a cena. Una gara di scooter dal motore fraudolentemente potenziato e dalle marmitte private dei diaframmi. Televisori blateranti e cantanti e lamentanti, da ogni direzione. Un neonato che urlava come se lo stessero scannando.
Rumori dall’interno: nessuno, salvo un respiro profondo e rasposo, umido e catarroso.
Odori dall’esterno: molti tipi di cucina, anche speziata ed esotica, di molte origini e molte nazioni. Gas di scarico. Un tanfo di decomposizione, che restava nella gola come un presagio di sventura.
Odori dall’interno: urina, soprattutto. Cipolle del giorno precedente, un detersivo per pavimenti di basso costo.
I passi stanchi arrivarono davanti all’ingresso della stanza, illuminata dal bagliore azzurrino di un televisore acceso col volume azzerato. L’attimo si prolungò per un tempo che né alla persona all’interno né a quella all’esterno apparve in qualche modo quantificabile. Una sospensione infinita al di fuori di ogni parametro di confronto, un’ora, due, un minuto o dieci secondi.
Poi il passo riprese, e le due persone finirono per essere nella stessa stanza. Quella che era già dentro non disse niente. L’altra, arrivata dall’esterno, invece parlò.
«Eccoti qui. Ancora respiri, chissà se puoi sentirmi. Com’è andata la giornata? Già, non ha molto senso chiedertelo, immagino. Come le altre, no? Come tutte le altre».
Andò al comodino, prese un bicchiere e lo riempì. Poi si avvicinò alla poltrona e con attenzione estrema fece bere all’altra persona dell’acqua, aggiungendo una compressa blu e successivamente una rossa. Dalla poltrona vennero due cavernosi colpi di tosse. Ci fu un’ulteriore sospensione del tempo, stavolta la stessa aria viziata della stanza sembrò tremare di terrore. La figura in poltrona deglutì, e il respiro profondo riprese il suo ritmo.
L’altra ripose il bicchiere sul comodino, come temendo di romperlo. Il vetro tintinnò brevemente, tradendo un tremito. Poi si avvicinò alla poltrona e cominciò una lenta operazione di svestizione e di rimozione di un pannolone intriso di escrementi e urina. L’aria si impregnò ancora di più di quel miasma, ma chi si occupava di quel compito apparentemente ingrato non sembrava provare alcun disgusto.
Cominciò invece a parlare, come se stesse raccontando una favola.
«Sai, oggi ne ho ammazzato un altro. Il musicista, ricordi? Santoni, era così bravo, tutti trattenevano il fiato quando suonava. Che meraviglia. Adesso invece il fiato lo trattiene lui, sai? E lo tratterrà per sempre. Non è buffo?».
Cominciò a ridacchiare, e non c’era suono o rumore all’esterno o all’interno, dai balconi della piazzetta o in strada, negli androni in cui si spacciava la morte o dietro le mura dove se la iniettavano nelle vene, nei vicoli dove brillavano i coltelli o negli appartamenti ai primi piani dove si vendeva sesso: non c’era suono che fosse più agghiacciante della risata sorda dell’assassino nella stanza dal respiro profondo.
«È stato facile, sai. Niente di che, non si ha idea di cosa è capace la gente per risparmiare due euro. E ti lasciano fare, senza nemmeno immaginare. Una ventina d’anni fa, prima di permettere a uno sconosciuto di entrare in casa ci si pensava mille volte, non una. Adesso ti spalancano la porta, a titolo gratuito».
Il respiro profondo si bloccò per un istante, poi riprese. La voce ricominciò a sua volta, suadente, quasi salmodiante.
«Certo c’è la questione delle rose, quella in teoria è pericolosa. È anche una fatica, accertarsi che le ricevano, una al giorno e a distanza di pochi giorni tra una vittima e l’altra, per darmi il tempo di fare quello che devo fare. Ma senza le rose non significherebbe niente, ti pare? Le rose sono fondamentali. Erano la tua parte, qualcosa di indimenticabile. Le rose dicono tutto».
Dalla bocca del respiro profondo sfuggì un lento, lungo lamento. La voce si interruppe, una mano preoccupata nella penombra si affrettò a toccare la fronte davanti a sé, la trovò sudata e ghermì un ampio asciugamani.
«Allora io preparo le rose come ti ho raccontato. Do qualche moneta a un passante, un bambino, una ragazza, un nero, e la faccio consegnare, mai dalla stessa persona, in genere al portiere, e se non c’è la faccio infilare nella buca della cassetta della posta. Oh, non lascio la cosa al caso, come si dice. Mi metto là e aspetto che venga ritirata dalle mani del destinatario. Dodici rose, non una di più, non una di meno. Rosse, gambo lungo. Una spesa, sì, ma ti ripeto: non si possono evitare, le rose».
Il pannolone sporco fu appoggiato sul foglio di un giornale, aperto precedentemente sul pavimento vicino alla poltrona. La persona dalla voce suadente si alzò con un po’ di fatica, andò in bagno e riempì una bacinella d’acqua. Poi tornò nella stanza e iniziò a pulire con estrema delicatezza le parti intime della figura accomodata in poltrona, che non diede segni di gradimento né di fastidio.
La voce riprese.
«Con l’avvocato è stato complicato. Io nemmeno me lo ricordavo bene, sai? Eppure avrei dovuto, aveva anche la funzione di organizzare, di dare i ruoli. Non ho ben capito perché abbia scelto di fare quel mestiere, in maniera tanto ossessiva, dalla mattina presto alla sera tardi. Temevo non accettasse, con tutti i soldi che faceva e che non spendeva, e invece ovviamente quelli così sono i più tirchi, quindi ha detto subito di sì. E le rose, chissà chi pensava gliele mandasse».
Ridacchiò, con un suono che sarebbe stato agghiacciante per chiunque l’avesse udito.
«E la Capano? Lo so, te l’ho già detto, ma mi devi credere: un degrado pazzesco. Ti ricordi quant’era bella? Un’eleganza naturale, una classe, un modo di muoversi che ricordava una principessa. E invece era diventata uno straccio, secca e rugosa, pochi capelli, irriconoscibile. E zero cura di se stessa, nessuna attenzione. Ma già, con un marito che fa il tassista e un figlio che si fuma l’impossibile ogni sera, non c’è certo da sperare in un futuro».
Finita la pulizia, cominciò l’asciugatura. Lenta, attenta, coscienziosa.
«Devo asciugarti bene, se no ti infiammi. Ti succede sempre».
Un pannolone nuovo, preso da una confezione aperta e riposta sotto il letto.
«Tanta cacca e tanta pipì, amore mio. Sai come diceva mia nonna? Finché si fa tanta cacca e tanta pipì, si sta bene. Ci si deve preoccupare quando non si va più di corpo. È allora che è finita».
L’adesivo attaccato, la stabilità saggiata. La voce riprese:
«E nel suo caso le rose sono state accettate in un altro modo. Secondo me sperava di avere un corteggiatore, qualcuno che prima o poi sarebbe arrivato da lei per portarla via, e tanti saluti al tassista. Invece le è arrivato un colpo di pistola dietro la nuca. Come agli altri. Come al musicista, anche lui ridotto maluccio per la verità, nonostante fosse convinto di essere un grande artista, destinato a un futuro luminoso».
Alzarsi, andare all’armadio, aprirlo, tirare fuori dal cassetto un pigiama pulito.
«La cosa sorprendente comunque non sono le rose, tutte là in bella mostra, né il fatto che mi facciano entrare tranquillamente. La cosa sorprendente è il colpo. Il rumore che fa. Quella dannata pistola antica fa un frastuono bestiale, mi aspettavo fin dalla prima volta che, tempo tre secondi, una dozzina di vicini avrebbe cominciato a bussare alla porta, ehi, là dentro, ma che sta succedendo?».
Infilò il pantalone del pigiama, la giacca sbottonata era sul letto.
«E invece, amore, niente. Niente di niente. Ma che mondo è, quello in cui ognuno si fa gli affaracci suoi senza nemmeno chiedersi che succede se sente sparare sul pianerottolo? Avrei potuto usare una mitragliatrice e sicuramente nessuno avrebbe messo il naso fuori dalla porta. Incredibile».
La giacca venne fatta indossare con qualche intoppo, una manica incastrata tra la spalla e lo schienale della poltrona. Un altro lamento sordo.
«Comunque abbiamo quasi finito, come sai. Ne mancano due. Una dopodomani, credo, e poi l’ultima. Mi dà pensiero, è una persona curiosa. L’unica alla quale non ho visto ritirare le rose, ma con certezza le ha ricevute. Non c’è dubbio. Chissà chi pensa che gliele abbia mandate. La gente, alla fine, non ricorda. Non ricorda mai».
La televisione spenta. Il corpo gracile sollevato dalla poltrona e steso sul letto. Il lenzuolo a coprire. La voce riprese dall’altro cuscino, con tenerezza infinita, mentre una mano accarezzava un volto seguendo la linea di naso e di fronte. Il respiro profondo diventò ancora più profondo.
«Riposa, amore mio. Riposa. Tra poco tutto sarà finito».
Uno sportello da qualche parte si chiuse, e un’automobile partì, quasi coprendo l’ultima frase prima degli incubi.
«Anche la vendetta».