XXIV

Il maresciallo Gargiulo pensava seriamente che avrebbe preferito aspettare fuori. Con le persone come De Luca si era sempre sentito in difficoltà.

Era originario di un paese della provincia, di fatto un’area urbana senza soluzione di continuità con gli altri comuni alle pendici della montagna assassina, una zona teoricamente rossa che invece era brulicante di persone, con una densità di popolazione che raggiungeva vertici nipponici; e tuttavia le identità erano fortissime, il campanilismo pure e sfociavano spesso e volentieri in risse sanguinose o almeno in partite di calcio identicamente sanguinose. Da quelle parti i maschi erano maschi e le femmine erano femmine, e chi era indeciso se ne andava in città dove tutto era consentito.

Gargiulo non era certo omofobo, anzi se avesse proprio dovuto essere sincero vi era stato un momento, attorno ai quattordici anni, in cui frequentava un compagno di classe sui cui pantaloni stretti soffermava un po’ troppo lo sguardo. Quei turbamenti, sepolti nella memoria, erano stati ammortizzati con un lavoro intensivo su se stesso e con scelte professionali che non lasciassero spazio a discussioni. Quando però, e gli accadeva raramente ma gli accadeva, si trovava al cospetto di chi aveva fatto scelte identitarie diverse, in lui succedevano cose incomprensibili: si sentiva in colpa, e questo lo rendeva inutilmente ostile.

Fissava quindi il tavolo e le sedie della sala da pranzo senza distrarsi, in posizione di attenti, facendo in modo di non guardare l’uomo che, seduto sul divano addossato alla parete opposta, non smetteva di piangere in un fazzoletto ormai intriso, con un suono simile allo sfiato di una pentola a pressione intervallato da rumorose soffiate di naso.

Il dottor De Carolis non sembrava invece mostrare alcun disagio, piuttosto un blando disinteresse. Si aggirava lento per la stanza, continuando ad annuire come rispondendo a segrete domande, le mani intrecciate dietro la schiena, assolutamente inespressivo sotto le spesse lenti.

«E allora, De Luca, ricapitoliamo così vediamo se ho capito tutto. Va bene?».

Soffiata di naso affermativa.

«Dunque, lei conosceva il Morra da due anni circa. Vi siete conosciuti al Merlo Maschio, il locale gay sulla Domiziana, verso Mondragone. Giusto?».

Il sibilo si interruppe per un attimo:

«Non lo definirei locale gay, dottore. È un posto discreto, dove si può andare a bere qualcosa e chiacchierare con persone dello stesso sesso senza correre il rischio di essere picchiati, come purtroppo può succedere altrove in città. Senza offesa, sia chiaro».

Gargiulo mormorò piccato, senza voltarsi verso l’uomo:

«Noi e la polizia interveniamo immediatamente quando veniamo chiamati. Non possiamo certo fare il picchetto ai bar omo della città».

De Carolis lo fissò sorpreso, ma non gli rispose. Riprese invece:

«Come che sia, avete cominciato a frequentarvi. Vi siete visti sempre più spesso, compatibilmente con le vostre attività, voi siete un bancario, no?».

De Luca drizzò quasi impercettibilmente le spalle.

«Sono un vicedirettore di agenzia. Un quadro direttivo, come grado».

De Carolis fece un cenno vago con la mano.

«Sì. Morra invece che faceva, Gargiu’?».

Gargiulo batté i tacchi in tono affermativo e recitò al tavolo:

«Morra Gabriele, scenografo, disegnatore e stilista, cinquant’anni il mese prossimo. La casa è di proprietà. Molto noto nell’ambiente artistico, allestiva spettacoli e mostre d’arte oltre naturalmente a lavorare per il teatro».

De Luca interruppe il sibilo per dire:

«Era il più bravo, dottore. Mostre e spettacoli non erano il suo vero lavoro: lui era soprattutto uno scenografo. Non c’è compagnia, in tutto il paese, che non cercasse di averlo, non potete credere quanto fosse bravo».

De Carolis annuì, e fece cenno a Gargiulo di continuare.

«Viene descritto come un uomo estroverso, allegro e brillante, molto colto e un po’ trasgressivo».

Lanciò un’occhiata in tralice a De Luca, ma fermò lo sguardo a metà strada per riportarlo sul tavolo, schiarendosi la voce.

«Celibe» concluse in un soffio.

De Carolis sospirò, stanco.

«Va bene, De Luca, la conversazione telefonica me l’ha riferita passo passo: adesso mi dica ancora del rumore».

Il sibilo si interruppe di nuovo.

«Dottore, io non mi perdonerò mai di averlo liquidato così frettolosamente. Era il mio... eravamo molto intimi, mi era carissimo. Il nostro rapporto si era andato stringendo e stavamo addirittura pensando di cominciare a vivere insieme, qui perché io sono in fitto. E finalmente... oggi...».

Il sibilo riprese, interrompendo il discorso. Gargiulo sospirò impercettibilmente, De Carolis si mise due dita alla radice del naso alzandosi gli occhiali.

«De Lu’, per favore, cerchiamo di arrivare al punto. Il rumore. La prego».

Il sibilo calò di un’ottava e culminò in un altro barrito nel fazzoletto.

«Chiedo scusa, dottore, ma capirà il mio stato d’animo. L’uomo che... la persona per te più importante ti chiama per dire qualcosa che aspetti da almeno un anno e mezzo, e ti ritrovi con due clienti davanti che peraltro nemmeno hanno sottoscritto l’operazione, c’è gente che ti fa perdere solo tempo, e non lo ascolti. E adesso lui non potrà... non potrà più...».

Accennò a riprendere il sibilo, e De Carolis picchiò il pugno sul tavolo facendo sobbalzare un paio di soprammobili che tintinnarono. Gargiulo e De Luca sussultarono in modo sorprendentemente simile.

«De Luca, maledizione! Continui, cazzo!».

L’uomo lo fissò, vagamente offeso, e riprese:

«Mi ha detto delle rose, cosa di cui non sapevo niente. Poi si è interrotto, come se si fosse offeso. Dopo qualche momento ha messo giù il telefono, e...».

«No, no, De Luca, questo lo so. Volevo sapere del rumore».

«Sembrava un... come un battito di mani. Sul momento ho pensato di averlo fatto arrabbiare, che avesse picchiato il palmo su qualcosa come ha fatto lei adesso. Appena mi sono finalmente liberato l’ho richiamato, ma non ha più risposto. Quando sono uscito sono corso qui, io ho le chiavi naturalmente, e l’ho... l’ho trovato... così».

Gargiulo rivide l’ometto vestito con colori sgargianti riverso vicino al tavolino col telefono, il colpo visibile sulla nuca tra i radi capelli. Possibile che stesse parlando al telefono mentre l’assassino colpiva? Chi parlerebbe amabilmente col suo amante, sollecitandogli scherzosamente risposte che non poteva dare, mentre alle sue spalle qualcuno stava per sparargli alla testa?

De Carolis annuì, come trovando conferma a chissà quale silente teoria.

«Va bene. Quindi, se pensiamo al fatto che possano avergli sparato mentre parlava con lei, dobbiamo ipotizzare che qualcuno abbia successivamente riposto la cornetta. Altrimenti Morra sarebbe l’uomo che ha resistito più a lungo con una pallottola nel cervello che si sia mai sentito. Ora la domanda è: chi poteva trovarsi qui?».

De Luca si soffiò il naso, scuotendo le spalle.

«Nessuno, dottore. Gabri non riceveva nessuno qui a casa, aveva lo studio, andava lui stesso nei teatri. Non aveva senso far venire qui persone».

Gargiulo disse, malignamente:

«Magari riceveva qualcuno e lei non lo sapeva, vicedirettore».

Il titolo professionale era stato marcato ironicamente, e ancora una volta De Carolis fissò sorpreso il sottoposto.

De Luca scosse il capo con forza.

«No, lo escludo. A parte il discorso sentimentale, e della fedeltà di Gabri non ho mai dubitato, perché avrebbe dovuto telefonarmi mentre era con qualcuno?».

Gargiulo, lo sguardo sempre fisso in avanti, fece un mezzo sorriso feroce.

«Magari lo divertiva. Magari lo eccitava, e...».

De Carolis intervenne, brusco:

«Gargiu’, ma che le prende oggi? Ha ragione De Luca, non ha senso. Serve invece capire chi diavolo c’era con Morra, e per quale dannato motivo».

Sembrò seguire il filo di un pensiero, come se qualcuno gli stesse suggerendo qualcosa all’orecchio.

«Senta un po’, De Luca, com’era Morra in relazione all’ordine e alla pulizia?».

De Luca lo fissò sorpreso, interrompendo il sibilo a metà.

«Fissato, dottore. Era fissato. Non era mai contento, divorava le persone di servizio. Un filippino, una volta, gli ha detto che avrebbe dovuto pagarlo tre volte tanto, per quello che pretendeva. Era fissato».

«E recentemente chi aveva a servizio?».

De Luca si grattò la testa.

«Mi aveva parlato di una straniera, ma al solito non era contento. Aveva qualcuno in prova, mi ha detto che forse aveva trovato chi era davvero soddisfacente. Ma non ha avuto il tempo di dirmi altro».

Il magistrato restò in silenzio per un po’, passando il dito sul piano del tavolo. Il polpastrello era immacolato.

«Capisco. E qui non c’è portiere, né telecamere di sorveglianza. Manco a dirlo. Ma parliamo delle rose, De Luca».

«Sì, dottore. Le ripeto, io non ne sapevo niente. Mi ha detto che non potevo che essere io a mandargliene una al giorno, e che ero stato dolcissimo a ricordarmi che... ha detto una cosa che non ho capito, ero con quei due davanti che mi guardavano storto e...».

De Carolis si fece più attento.

«Cerchi di ricordare, per favore. Può essere importantissimo».

L’uomo guardava nel vuoto, scuotendo la testa.

«Ha detto qualcosa circa i suoi esordi, una storia molto vecchia di cui mi sarei ricordato rendendolo felice. Ma io proprio non...».

«Le ha parlato mai di rose, in rapporto al suo lavoro? Che so, una mostra, uno spettacolo...».

De Luca schioccò le dita. «Ma certo, uno spettacolo! Una cosa di quando era giovanissimo, Le dodici rose! La prima volta che fece una scenografia, ma come ho fatto a non pensarci? All’epoca voleva fare l’attore, mi raccontò, con una filodrammatica o qualcosa del genere, ma poi capì che doveva occuparsi di cose diverse. E fu quella volta che prese in pugno la situazione, e realizzò lui la scena. Un lavoraccio, mi disse, ma di grande soddisfazione».

Le sue parole crearono un’immediata palpabile attenzione nella stanza. Perfino Gargiulo si voltò, a bocca aperta, verso il divano. De Luca li fissò alternativamente, con evidente sorpresa.

«Che ho detto? Che c’è che non va...».

De Carolis, a voce bassa, lo interruppe.

«Adesso la prego, De Luca, è importantissimo, cerchi di ricordare: che le ha detto Morra di quello spettacolo? Dove è stato fatto, in che anno? Chi c’era, quanto è durato? Chi ha pagato, qual era il teatro?».

De Luca sbatté le palpebre, scuotendo la testa.

«Dottore, io non so altro se non quello che le ho detto. Una filodrammatica, credo qui in città perché Gabri è andato a Milano a lavorare molto tempo dopo, per poi tornare qua. Ma le assicuro, non so altro. Quello che ricordo con certezza è che fu una fatica enorme, per lui, perché doveva recitare e seguire la scena, finché non fu finalmente sostituito come attore e allora si occupò della regia e della scenografia. In più, ricordo che tutti dovevano fare due parti perché il testo prevedeva che portassero due rose a testa».

De Carolis e Gargiulo si guardarono. Il carabiniere mosse piano le dita di una mano, arrivando a cinque. L’altra mano vibrò ma non si mosse.

Il magistrato chiese:

«Le ha detto di chi fosse il testo, per caso? Se ha fatto lui la scena il teatro doveva essere piccolo, altrimenti non credo glielo avrebbero consentito, no?».

De Luca si strinse nelle spalle.

«Non saprei proprio, dottore. Se era una filodrammatica penso a una parrocchia, o a un posto del genere. Magari non era nemmeno un teatro».

De Carolis annuì.

«Sì. È vero. Magari non lo era».

Fece un cenno a Gargiulo.

«Andiamo, Gargiu’. Teniamo da fare. De Luca, per cortesia resti a disposizione. Potrebbe esserci stato di grande aiuto».

Uscì. Il carabiniere lo seguì, ma d’impulso si fermò vicino a De Luca e senza guardarlo in faccia gli disse, piano:

«Mi dispiace per la sua perdita. Mi dispiace molto. Per tutto».

E uscì anche lui.