XXV
Mina resistette alla tentazione di precipitarsi nella stanza di Domenico, per metterlo a parte dell’esigenza di trovare una strategia di aiuto a Ofelia e a Flor. Rifletté e pensò che magari era un’ossessione solo sua, che il medico aveva altro a cui pensare o da fare, lui che aveva una fidanzata e quindi una vita personale.
Perché lei una vita personale non ce l’aveva. Concetta, quando arrivava col suo accompagnamento musicale a dirle senza tatto e con violenza le sue esecrabili opinioni, in realtà aveva ragione.
Certo, c’erano le tre amiche: ma parliamoci chiaro, avrebbe detto a se stessa, non erano squilibrate anche loro? In quattro non avevano un figlio, un marito, una famiglia propriamente detta. Greta aveva divorziato da dieci anni, Delfina aveva avuto seimila fidanzati, Luciana si portava a letto chi capitava e la mattina dopo non ne ricordava nemmeno il nome. Lei aveva sprecato la sua occasione con Claudio, e adesso viveva una storia onirica con uno che era identico al Redford di Come eravamo, il suo film preferito, ma al quale non riusciva nemmeno a sorridere e che comunque era l’uomo di un’altra.
Se ne andò in ufficio, piazzò il cellulare sul davanzale e subito lo sentì vibrare. Era Claudio.
«Ciao, tutto bene?».
Lei si chiese il perché della telefonata, così presto.
«Certo, bene. Perché mi chiami, Claudio?».
«Mica ci deve essere un perché. Mi andava di sapere come stavi, tutto qui. Quella storia che mi dicevi l’altra sera, quella della denuncia che non c’era, com’è andata a finire?».
«È andata a finire senza denuncia. Con un passaggio al pronto soccorso, l’ennesimo, col poliziotto che faceva domande e lei che rispondeva di essere caduta dalle scale. Come sempre».
«Senti, Mina, se la legge...».
«Claudio, ho capito. Ti prego, risparmiami le menate stamattina. Non è giornata».
«Con te non è mai giornata, questa è la verità. Mai un sorriso, mai un po’ d’allegria. Sempre qualcosa di più importante da risolvere e qualcosa di più duro da combattere».
«E allora che accidenti vuoi da me? Non hai ormai chi ti fa divertire, e che sa anche montare un servizio?».
«Che vuoi dire, montare un servizio? Che c’entra, adesso?».
«Lo so io, non ti preoccupare. E comunque adesso ho da fare, scusami. Ci sentiamo un’altra volta».
«Anche no, Mina. Anche no».
Sentendo la linea muta, a Mina venne da piangere. Si sentì una specie di re Mida, con la merda al posto dell’oro.
La porta si aprì senza che nessuno avesse bussato, ed entrò Domenico. Spettinato come sempre, il camice aperto su un brutto maglione con il disegno di un orso, una penna che aveva perso inchiostro nel taschino lasciando una macchia blu sul cotone bianco. La mandibola serrata, gli occhi cerchiati dal sonno con dentro la nuova durezza che aveva seguito il loro incontro ravvicinato, al posto dell’abituale impaccio tenero e imbarazzato. A Mina che aveva gli occhi lucidi e il labbro tremante al posto dell’abituale tetragona ostinazione, ricordò immediatamente il Redford di Il temerario, film che adorava.
Lui si accorse delle lacrime di lei, ma non si intenerì affatto.
«Non sei l’unica che ci mette il cuore, sai. Non sei l’unica che non ci dorme la notte, o che prende tutto come una cosa propria. Non sei l’unica che ha il copyright della condivisione, sappilo, accidenti».
Mina raccattò qualche frammento di dignità.
«Punto primo, chi ti ha insegnato a entrare nelle stanze della gente senza bussare? Punto secondo, che accidenti ne sai del perché sto come sto? Punto terzo, di che cacchio stai parlando, si può sapere?».
Il dottore arretrò di un passo, come colpito da un pugno, sbatté le palpebre e sembrò per un attimo il vecchio Domenico, quello che veniva colto alla sprovvista dalla gratuita ostinazione di lei. Ma non era il vecchio Domenico. Non più, dopo quel bacio mancato.
«Senti, sai benissimo di che cosa sto parlando, non fingere di non capire, parlo di Ofelia. Io sono un medico, maledizione, e se vedo soffrire qualcuno devo darmi da fare. O pensi che sia un medico solo chi indossa un cazzo di zaino e se ne va dall’altra parte del mondo, in mezzo alla peste bubbonica e alle bombe? Se uno è medico è medico, e lo è dovunque, sai? E non è che una donna, in quanto donna, è capace di soffrire e un uomo non lo è».
Fu il turno di Mina di battere le palpebre confusa:
«Ma... ma di chi parli? A chi ti riferisci?».
Lui agitò la mano.
«Lo so io, lo so. Adesso però per favore, invece di piagnucolare o parlare di come sarebbe bello un mondo perfetto, la vogliamo trovare una soluzione per quelle due, sì? Perché io stanotte non ho chiuso occhio, e ho bisogno di dormire almeno sette ore altrimenti non valgo niente».
Mina gli raccontò guardinga del passaggio a scuola di quella mattina.
«Mi hanno vista tutte e due, mi hanno scrutata e se ne sono andate entrambe per la loro strada. E noi, a meno che non troviamo un modo, senza la loro denuncia o una testimonianza abbiamo le mani legate. Tutto qui».
Prima che Domenico potesse rispondere la porta si aprì di nuovo e ancora più bruscamente, battendo sullo stipite e scuotendo l’intonaco.
Mina urlò:
«Ma nessuno bussa più in questo consultorio?».
Rudy ansimò cercando di riprendere fiato, e nella concitazione la guardò perfino in faccia anziché venti centimetri più sotto.
«Scusatemi, dottore’, è che ho appena saputo... Posso sedermi, sì? Ho fatto una corsa, e ho un’età».
Senza aspettare il permesso si lasciò cadere su una sedia, sventolandosi. Domenico chiuse la porta e si sedette a sua volta, curioso. Dopo aver regolarizzato il respiro, il portinaio disse:
«Si tratta della negra e della bambina, dottore’. La situazione è più grave di come mi aveva detto Samantha con l’acca, che però poverina che ne poteva sapere, quella mica vede tutto, abita solo al piano di sotto, e invece per sapere certe cose bisogna chiedere in altri ambienti che...».
Mina giunse le mani come per una supplica.
«Trapane’, la prego, parli con coerenza: soggetto, predicato, complemento, punto. Soggetto, predicato, complemento, punto. E così via, una frase alla volta. Per piacere, sì?».
L’uomo la fissò come se avesse parlato in armeno.
«Soggetto e che? Dottore’, fatemi parlare come so io, che a scuola non ci sono andato!».
Domenico intervenne:
«Tranquillo, Rudy. Tranquillo. Dica quello che vuole dire, noi capiremo».
L’uomo annuì grato.
«Allora, ieri mi era rimasto uno scrupolo. Il fatto che questo Caputo Alfonso partiva e tornava, anche per una mezza giornata, mi pareva assai curioso. E allora sono passato da una mia nipote che sta con uno che, insomma, fa certi traffici. Lei, mi dovete credere, è una bravissima ragazza, tutta la famiglia sta malissimo per questo fidanzamento, però lui appartiene a una famiglia che... Non è cattivo nemmeno lui, una volta ci ho parlato al matrimonio di una cugina, e...».
Mina si agitò sulla sedia ma Domenico, senza voltarsi, alzò una mano verso di lei zittendola. Questa nuova autorità che il medico credeva di esercitare su di lei da un lato l’irritava enormemente e dall’altro le faceva uno stranissimo e piacevole effetto.
Rudy continuò, rassicurato dallo sguardo del ginecologo.
«Insomma, ci sono andato a parlare. Gli ho chiesto se Caputo... se queste partenze in qualche modo riguardano la famiglia sua, del fidanzato di mia nipote. Io lo so, dottore’, che a voi non vi fa piacere questa cosa. E so pure che è sbagliata, e nemmeno io ci voglio avere a che fare. Però pensare a quelle due povere negre in quella situazione non mi ha fatto dormire, e...».
Mina brontolò.
«Se le chiama negre un’altra volta, io...».
Domenico si voltò e la fulminò con lo sguardo.
«Intanto Rudy, qui, è l’unico che si è dato da fare sul serio mentre noi riflettevamo sui massimi sistemi. Non mi pare poco, in qualunque modo voglia chiamare quelle due poverette. Allora, Rudy? Che ha saputo?».
«Non è buono, dotto’. Non è buono. Si muove per... va a prendere armi, e porta soldi. È abbastanza in alto, uno importante. Se decide di farla a pezzi, la moglie, non prende nemmeno una multa perché fanno sparire i pezzi uno a uno, e sistemano pure i documenti come se non fosse mai esistita. Si deve fare qualcosa, dottore’, e pure subito: per questo la bambina è venuta qua, non diceva per dire. L’ammazza veramente».
Le parole piombarono nel silenzio come una catasta di legna scaricata male. Mina e Domenico si guardarono sconcertati.
Rudy riprese.
«Per di più mi ha detto il fidanzato di mia nipote che questo signore tiene una fidanzata nuova, una della Serbia, bionda e con gli occhi azzurri. È per questo che la tratta sempre peggio alla moglie, ma non ha il coraggio di mandarla via perché ci tiene troppo per la figlia. E questo è».
Mina sentiva il cuore batterle nelle orecchie.
«E adesso che facciamo?».
Domenico si alzò.
«Adesso le vado a prendere e le porto in salvo. Poi vediamo».
Rudy esclamò:
«E quanto è bello il dottore, vuole fare l’eroe, è così? Non vi fanno nemmeno arrivare in piazza, credetemi. Il suocero della negra, il padre di Caputo insomma, è in contatto diretto con quella gente là. Alza il telefono e vi trovate in un androne con un coltello nella pancia, ve lo dico io».
Mina si girò a guardare il telefonino sul davanzale.
Rudy seguì i suoi occhi e disse, scuotendo il capo e contemporaneamente facendo cenno di no con l’indice:
«No, no, no, dottore’, non ci dovete pensare nemmeno. Se fate tanto così di chiamare chi state immaginando di chiamare, spariscono madre e figlia e non ne sentite parlare più. Forse non mi sono spiegato, questo Caputo è un pezzo grosso. Ma grosso assai».
Domenico si passò la mano nei capelli, sconfortato.
«E allora non possiamo fare niente. Proprio niente».
Mina strinse le labbra.
«Non è vero. Qualcosa la possiamo fare. Trapanese, lei ce l’ha sempre quell’amico ai servizi sanitari?».