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De Carolis chiuse la porta dell’ufficio e si avviò all’uscita. A vederlo non sembrava stanco, piuttosto concentrato su qualcosa.
Salutò distrattamente la guardia, che gli rivolse a sua volta uno stanco cenno. Il rumore dei passi nell’androne, e poi in strada, sembrava conciliare i pensieri.
Non era di quelli che voleva la scorta, anche per questo aveva scelto di evitare un certo tipo di indagini. Preferiva occuparsi dei delitti passionali, gli scoppi d’ira, le violenze morali, le schiavitù domestiche. Erano quelli, i crimini del pianerottolo, gli accoltellamenti in cucina, le furibonde liti familiari, a sconvolgerlo davvero.
Perché De Carolis era alieno dalle grandi passioni. Provava al massimo un po’ di irritazione, pur non essendo particolarmente portato alle reazioni silenziose: ma gli scoppi di ira come pure i grandi slanci no, quelli non facevano per lui.
La donna che stava frequentando gli diceva sempre che amava la sua ironia, il sarcasmo, i sorrisi molto più delle risate o degli abbracci che stritolavano. L’aveva conosciuta durante un’indagine per un caso di stalking, con un tizio che la soffocava di passione fin quando aveva cominciato a soffocarla di attenzioni, e alla fine aveva tentato di soffocarla e basta usando un cuscino da divano di un ristorante. Una così, che i sentimenti forti li aveva visti da vicino e ne era rimasta quasi uccisa, doveva per forza essere affascinata da uno come De Carolis, che andava da meno zero virgola uno a più zero virgola uno. Si definiva un equilibratore.
Stavolta però, pensava mentre percorreva con le mani intrecciate dietro la schiena la via principale del Centro Direzionale verso i parcheggi sotterranei, la questione era strana. Assai strana.
Perché se era vero che sentiva forte e chiara la passione in ogni delitto, rabbia cieca, furia vendicatrice e assenza di pietà, era altrettanto vero che la pianificazione degli assassini era follemente lucida, assolutamente premeditata e accuratamente predisposta.
Non sopportava nemmeno l’idea del serial killer, De Carolis. La riteneva un’astrazione, un’americanata fatta per vendere romanzi, film e telefilm. Uno può ammazzare più persone, certo, ma come fosse una sola, secondo un unico principio. Non aveva mai creduto al tizio che sventra tutte le puttane coi capelli rossi perché da piccolo una maestra coi capelli rossi gli dava le totò sul culetto. Roba da invenzioni narrative.
E invece stavolta, pensò De Carolis, sembrava proprio qualcosa del genere. I morti slegati completamente tra loro, nessun contatto, avevano passato al setaccio conti correnti, rapporti sociali, frequentazioni. Un avvocato ricco e stakanovista, una casalinga sfatta e malinconica, un musicista con un grande futuro dietro le spalle, uno scenografo gay e di successo. In comune solo più o meno l’età, e con lo scenografo che era più grande nemmeno quella.
La faccenda delle rose, poi, era ciò che lo inquietava di più. Gli risuonavano nelle orecchie le parole di Gargiulo, una rosa al giorno e a distanza di poco tempo una nuova serie con un altro obiettivo. Chissà se aveva finito, o se c’era qualcuno da qualche parte che si chiedeva chi fosse il misterioso ammiratore che gli regalava un fiore ogni santa giornata.
Fino a dodici.
Perché dodici, si può sapere? Perché dodici, maledetto? I mesi dell’anno? Si era messo a smanettare, e aveva scoperto che dodici erano gli apostoli, dodici i cavalieri della dannata tavola rotonda, dodici gli dèi maggiori dell’Olimpo. Dodici le fatiche di Ercole, dodici i Titani; perfino il numero sacro della trasformazione alchemica era dodici.
Quindi, mi spieghi che dodici è? Dodici rose, perché?
Sembrava a De Carolis che in qualche maniera l’assassino, con questa storia del dodici, volesse essere scoperto. Non credeva alle sfide, ma solo alla volontà di firmare in un modo molto originale la propria opera. E chi firma qualcosa, lo fa perché si conosca il suo nome.
Il magistrato arrivò all’auto e aprì lo sportello.
Poi c’era quella fastidiosa questione personale, naturalmente. C’era da capire per quale arcano motivo quelle parole, «le dodici rose», gli suonavano familiari.
Perché gli ricordava qualcosa di antico e sopito, che giaceva sotto la coltre di molti cambiamenti? Per quale ragione fin dall’inizio, quando le aveva viste nel vaso dell’avvocato De Pasca, gli avevano dato un po’ di fastidio, come una vecchia cicatrice?
Accese il motore, e sospirò.
Forse era il caso di fare una telefonata.