XXXI
Domenico lanciò un’occhiata preoccupata alla porta e disse:
«Non abbiamo molto tempo, Ofelia. Deve decidere in fretta».
La donna, con le labbra strette, scuoteva piano la testa fissando il vuoto. Negli occhi neri c’erano tanta paura, incertezza, diffidenza: ma anche un disperato desiderio.
Mina decise di fare leva su quello.
«Casa, Ofelia. Casa. Là ci sono i suoi genitori, i suoi spazi, le sue cose. E anche Flor potrebbe essere felice, quando ci ha parlato dei nonni peruviani le brillavano gli occhi. Cosa lascerebbe qui?».
Ofelia sollevò lo sguardo su di lei. Su questo non c’erano dubbi.
«Niente. Io non lascerei niente. Non c’è nessun amore, se un uomo fa questo a una donna. Non mi ammazza perché c’è Flor, altrimenti lo avrebbe già fatto».
Domenico disse, tagliente:
«E per quanto tempo basterà Flor, me lo dice? Quando succederà che la caduta per le scale le farà rompere una vertebra e la ucciderà, o peggio la lascerà su una sedia a rotelle?».
Mina rincarò la dose.
«E di Flor allora cosa accadrà? Magari andrà in mano a uno uguale al padre, e avrà una vita di sofferenze. Se non altro, deve farlo per lei!».
Suonò il campanello, e tutti e tre trattennero il fiato. Dal corridoio arrivò un breve scambio di battute tra il suocero e un fornitore, poi la porta d’ingresso si chiuse e poterono tornare a respirare.
Ofelia disse:
«A volte rientra all’improvviso. E c’è sempre qualcosa che non va. Se è nervoso per il lavoro, se la prende con me. Sempre».
Domenico sussurrò:
«Non si può vivere, così. La prego, Ofelia. La prego».
La donna tacque. Stava lottando con l’ultima barriera. Allungò le dita tremanti verso il livido che aveva sul collo, ma non arrivò a toccarsi.
Alzò lo sguardo e fissò gli occhi calmi in quelli di Mina.
«Va bene. Sì. Fatemi tornare a casa».
Mina sorrise, e per il sollievo allungò una mano verso Domenico che gliela strinse. Si fissarono per un attimo che durò una vita.
«Bene. Allora, facciamo così: deve prendere solo i passaporti, nient’altro. Nessuno deve pensare che state partendo, compreremo tutto fuori. Non portate nulla, nemmeno una mutandina, niente. Mi ha capito bene?».
Ofelia fece cenno di sì.
«Il passaporto lo tengono nascosto, Flor è sul mio perché gli hanno detto che non deve risultare con figli per questioni di... di lavoro. Ma so dove lo tiene mio suocero, posso riuscire a prenderlo, credo. Dirò che c’è un incontro a scuola. Non sono cattivi, loro. Hanno paura del figlio. Come me. Come tutti».
Mina comprese che non doveva lasciare che in Ofelia prevalesse il terrore sull’istinto di salvarsi.
«Non lo vedrà mai più. Non lasceremo che le faccia del male. Mai più».
Domenico annuì.
«Facciamo presto».
Mina riprese:
«Noi aspetteremo all’angolo della piazza per tutto il tempo che ci vorrà, faccia le cose con calma per non dare nell’occhio. Siamo con una Panda del servizio sanitario, con la sirena e la scritta Trasporto sangue. Mi raccomando, non portate niente con voi. Solo il passaporto».
Fecero entrare Flor insieme alla nonna, Domenico la visitò con attenzione e le disse sorridendole:
«Tutto a posto, signorina. Avrai una vita lunga e felice, te lo assicuro».
Lo disse fissandola negli occhi, e la bambina annuì seria.
Dopo di che salutarono affabilmente, si fecero firmare dal vecchio un finto documento e se ne andarono.
Rudy attendeva in piedi al fianco della macchina, indifferente ai dileggi di un gruppetto di bambini che si sbellicava per il fatto che il cappello gli copriva la testa fino al naso.
Se ne andarono e si piazzarono all’angolo della grande piazza, disponendosi all’attesa. Il portinaio disse:
«Secondo me, dottore’, siamo troppo vicini. Se qualcuno di quelli là sorveglia la casa di Caputo...».
Mina scosse il capo.
«È un rischio che dobbiamo correre, Trapane’. Se facciamo fare a quelle due troppa strada c’è il rischio che qualcuno le fermi, o che ci ripensino per la paura. Se le stanno sorvegliando, poi, ragione di più: una strada diversa dalle solite li metterebbe sull’avviso».
Domenico annuì, deciso.
«Certamente. Senza sottovalutare i due vecchi, che hanno la funzione di carcerieri. Se Ofelia o Flor fanno o dicono qualcosa di non abituale magari alzano il telefono e chiamano il figlio. Dobbiamo caricarle in fretta e portarle in aeroporto. Ma, a proposito, le formalità, i biglietti, il check-in...».
Mina, inaspettatamente, gli sorrise. Sorprendendo anche se stessa.
«Tranquillo. Ho un’amica che... che sa come muoversi, diciamo. È tutto pronto, ci sono già le carte d’imbarco. Loro poi non hanno bagaglio. Dobbiamo solo arrivare sani e salvi all’aeroporto».
Rudy sorrise, voltandosi per ammirare il profilo di Mina (non quello del volto, ovviamente):
«State serena, dottore’. A quello ci penso io. Ho già preso confidenza col mezzo meccanico. Non ci stanno problemi».
Attesero qualche minuto, con crescente tensione. A un certo punto squillò il telefono di Mina, provocando un tentativo di record di salto da seduti a squadre. Domenico picchiò addirittura la testa sul tettuccio, con una simpatica imprecazione in molisano.
Mina si scusò e uscì dall’auto per rispondere. Era il Problema Uno, che al solito senza salutare urlò:
«A che ora hai intenzione di tornare dalla perdita di tempo, oggi?».
«Ciao, mamma, buon pomeriggio anche a te. Non lo so, ho una faccenda abbastanza seria da sbrigare e...».
«Non ci può essere niente di serio, se non ti pagano. Una vale per quanto le danno, è un principio semplice».
Mina teneva il telefono a una certa distanza dall’orecchio per salvaguardare la sanità del padiglione, permettendo ai passanti di ascoltare tutto. Una signora commentò l’ultima asserzione annuendo vivacemente.
«Mamma, questa è una sciocchezza: ci sono delle azioni che si fanno per questioni di sensibilità sociale, e...».
«Stronzate. Abbi sensibilità sociale nei confronti di tua madre e di te stessa, invece che per quattro negri di merda che era meglio se restavano a casa loro e non venivano a rompere i coglioni qua da noi».
Una ragazza tatuata le strinse brevemente il braccio passando, e mimò con la bocca: uguale a mia nonna. Un ragazzo di colore le sorrise, e ringraziò con la testa. Mina sospirò, continuando a tenere d’occhio l’imboccatura del vicolo dalla quale dovevano uscire Ofelia e Flor.
«Vabbè. Che volevi, mammina cara? Posso fare qualcosa per te?».
«Non prendermi per il culo» urlò Concetta diffidando dall’operazione un paio di chilometri di circondario. «Primo, ti confermo che quella cosa è stata puntualmente recapitata anche oggi: vedi come devi fare, questo insiste. E poi ti volevo dire di tornare presto, perché ti ricordo che viene la signora in prova a servizio. È italiana, quindi sicuramente assai migliore di tutte queste troie dell’est, e non voglio fare brutta figura».
Due donne bionde la fissarono vacue. Mina chiese scusa con lo sguardo.
«Mamma, ma non è necessario che ci sia io, no? In fondo deve pulire la casa, mica è un cardiochirurgo che mi deve visitare...».
Concetta ribatté decisa:
«È stata categorica, ha detto che la prima pulizia a fondo è gratuita ma che devono esserci tutti gli abitanti della casa nel loro ambiente. Dice che tu puoi tranquillamente fare le cose tue, leggere, lavorare, studiare: lei ha solo bisogno di averti in camera tua. Gratis, capisci? Una professionalità meravigliosa, non come queste zoc...».
Mina l’interruppe, guardandosi attorno preoccupata.
«Va bene, va bene, mamma, tanto in un modo o nell’altro alle otto sarò a casa, l’aereo parte alle sette quindi...».
«Che aereo? Che c’entra l’aereo, adesso?».
Mina ritenne eccessivo lanciarsi in spiegazioni, quindi finse il solito tono sincopato da fine comunicazione:
«Mam... non ti sent... scusa, ma... non c’è campo...».
Chiuse con un sospiro di sollievo. Dopo un attimo il cellulare squillò di nuovo: succedeva sempre, quando Concetta non riteneva soddisfacente la conclusione della conversazione.
Intenzionata a non rispondere lanciò un’occhiata distratta al display e corrugò la fronte.
Era Claudio, per la seconda volta nella stessa giornata.