XXXII

Restò a fissare lo schermo del cellulare per almeno tre squilli, riflettendo se rispondere o meno; non le andava di sostenere un’altra discussione. Da dove si trovava avrebbe visto immediatamente Ofelia e Flor, ma non fu l’opportunità di interrompere eventualmente la conversazione in caso di necessità a convincerla a rispondere: l’aiuto di Claudio poteva rivelarsi fondamentale, e non voleva che per vendicarsi della mancata risposta non le avrebbe risposto a sua volta. Una signora, passando svelta, la squadrò e disse:

«Signori’, rispondete, sentite a me. Se no vi richiamano in continuazione, con queste offerte commerciali. Io dico solo vaffanculo, e chiudo: vi assicuro che imparano subito la lezione».

Tirò un profondo respiro, fece cenno a Domenico di aspettare ancora e disse:

«Oh, Claudio, ciao. Come va?».

Il tono dell’ex marito era neutro.

«Ciao, Mina. Ce l’hai un minuto? Ti devo chiedere una cosa che ti sembrerà strana, ma è importante. Non ti disturberei, ma tu sei l’unica che può aiutarmi».

«Sì, se è una cosa veloce, sto aspettando delle persone e quando arrivano dovrò interrompere. A proposito, sarai reperibile fino a stasera, sì? Perché potrei aver bisogno di te».

«Certo, certo. Allora, ascoltami bene: noi ci frequentavamo già quando eravamo al primo anno di università, giusto? Io giurisprudenza, tu psicologia. Ci siamo conosciuti a un’occupazione, di quelle che si facevano all’epoca. È così, no?».

«Claudio, ma sei scemo? Che è, una rievocazione storica? O hai l’Alzheimer e non ti ricordi più quello che...».

Dall’altro lato l’uomo scattò, tradendo un nervosismo che non gli era congeniale.

«Ti prego, cazzo, per una volta rispondi senza fare domande! È così, sì o no?».

Mina tacque per un attimo, poi disse:

«Claudio, mi stai spaventando. Sì, certo, è così. E allora?».

Sentì il respiro profondo dall’altra parte.

«Scusami. È che è veramente importante. Che ti viene alla memoria se ti dico “dodici rose”?».

Mina si mise a ridere.

«Guarda, io ho apprezzato davvero questo tuo modo tenero di ricordare una cosa di tantissimi anni fa, della quale un po’ mi vergogno. Però ci divertimmo, e allora...».

Claudio disse, con la voce un po’ malferma:

«Quindi è così, vero? Era quella cosa, quella bruttissima commedia che coi ragazzi del collettivo metteste in scena?».

Mina rispose un po’ offesa:

«Bruttissima adesso mi pare esagerato, ammetto che il testo non era tale da passare alla storia della drammaturgia, ma per l’epoca non era brutto, aveva un significato. Ognuno di noi portava due rose e ricordava il sacrificio di gente uccisa per la libertà, all’epoca eravamo molto comunisti».

Il respiro di Claudio era decisamente affannoso.

«Quante volte e dove fu rappresentata? In quale teatro?».

«La facemmo un’unica volta nell’aula della mia facoltà, mi ricordo che uno degli assistenti, uno che poi ha fatto carriera nel settore, un po’ più grande di noi, allestì una scena molto bella. Poi però l’occupazione finì, e non la rappresentammo più. Ma posso sapere per quale motivo mi chiedi questo?».

Claudio, come parlando tra sé, disse:

«Ecco perché non ce n’è traccia. Porca puttana. Senti, Mina, ti ricordi i nomi di quelli che parteciparono?».

Mina teneva d’occhio l’ingresso del vicolo, e rispondeva con poca concentrazione.

«No, ma come vuoi che mi ricordi, sono passati centocinquant’anni! Mi ricordo che non era gente che mi piaceva più di tanto, non andai nemmeno alla festa di fine rappresentazione e non li vidi più, nessuno di loro. Mi pare ci fosse una certa Titina, una ragazza bellissima, molto elegante; e un ragazzo che sapeva suonare bene, ma non mi ricordo il nome. Claudio, ma che c’è? È successo qualcosa?».

Claudio abbassò la voce, con un lieve tremito.

«Sei sicura di non ricordare, Mina? È successo qualcosa, recentemente, che...».

Mina scoppiò a ridere.

«Ah, ecco! Allora sei tu! Claudio, sei gentilissimo e molto tenero e io ti ringrazio, ma non vedo il senso di celebrare in questo modo una cosa tanto lontana nel tempo. Abbiamo ben altri ricordi e assai più recenti, no? Comunque sono bellissime».

Le sue parole caddero in un silenzio di tomba, tanto da farle pensare che la comunicazione fosse caduta.

«Pronto? Claudio, ci sei?».

L’uomo disse, piano:

«Cosa, sono bellissime? Di che stai parlando, Mina?».

«Di che sto parlando? Delle rose, Claudio. Immaginavo fossi tu, ma questa costanza, una al giorno per dodici giorni, mi pare davvero eccessiva. Intendiamoci, non che non mi faccia piacere, ma...».

«Dodici. Dodici. Hai detto dodici. Questo significa che i dodici giorni sono finiti? Quando?».

Mina sorrise al telefono. «Ma che è, un test? Se non lo sai tu, che le hai mandate... Oggi è arrivata l’ultima. Ma io a casa non sono ancora tornata, quindi se c’è un biglietto io non l’ho visto».

Claudio cominciò a parlare in tono frenetico:

«Mina, non tornare a casa fin quando non te lo dico io, e non ricevere nessuno, per carità, di’ a tua madre di non aprire a...».

Fu esattamente in quel momento che Mina vide uscire dal vicolo Ofelia e Flor. La madre camminava a passo svelto nonostante la zoppia, gli occhi terrorizzati; la bambina cercava di starle dietro, aggiungendo un passo ogni due di lei.

Mina velocemente disse:

«Scusa Claudio, ti devo lasciare. Se hai qualcosa da dire a mia madre chiamala. Noi forse ci sentiamo più tardi».

E spense il telefono.