Mafalda è la donna più spilorcia sulla faccia della Terra. Per lei la tirchieria non si limita a condizione esistenziale: slitta a vocazione intimissima e sport agonistico. Nonostante la sua istruzione si sia fermata alla quinta elementare, ha affinato la capacità di calcolo tanto da stabilire all’istante percentuali, somme e sottrazioni: una calcolatrice umana di settantacinque anni. In casa sua scorre tutto all’insegna del risparmio, dai tovagliolini di carta, spezzettati in quattro parti e riutilizzati finché non si sciolgono, al detersivo per piatti diluito nell’acqua. Idem il sapone liquido, che la donna centellina facendosi il bidet un giorno sì, due no. La sua maestria nel riciclare l’acqua è diventata leggenda, in zona. Si mormora infatti che “l’acqua di Mafalda resuscita sette volte”: dapprima la impiega per bollirci i maccheroni, quindi la scola e ci cuoce le patate o le uova. Poi la fa intiepidire per mondarci le verdure. Metà la recupera nel lavello e vi aggiunge detersivo per i piatti da lavare, metà la versa in una catinella per i panni a mano: quella rimasta la impiega nel secchio dello straccio per i pavimenti. Il residuo finale è destinato allo sciacquone del water, il cui fondo giace perennemente torbido.
Trascorre le mattine nei supermercati scegliendoli sulla base dei dépliant ricevuti in buchetta – dépliant che diventano straccetti per pulire i vetri o, quando sono molto colorati, ricicla come carta regalo per gli unici doni che si trova costretta a fare almeno due volte all’anno ai nipotini: per Natale e per il compleanno. È capace di turbinare come un’invasata tra le corsie e alla fine magari di acquistare solo un prodotto, perché ha capito che, per economizzare sul serio, non ha senso votarsi a un unico market. Il trucco sta nel visitarli tutti e carpire gli sconti. La suddetta mania le rende Wilma particolarmente cara, perché, quando quella rincasa dai suoi giri per i contadi, non si presenta mai a mani vuote. Spesso le clienti le elargiscono regali campagnoli – uova, un cespo di insalata, uva fragola, aglio fresco e altre primizie dell’orto – e, per Mafalda, ogni euro salvato è una benedizione. Conteggia in un quaderno l’incasso totale di anni consumati a rincorrere saldi, omaggi, tre per due: un gruzzoletto di 25.000 euro, di cui almeno 5000 dovuti alle cibarie offerte dalla sua vicina di piano – anche Mafalda abita al terzo del palazzo, ma nel condominio di fianco, così che la sua camera da letto e quella di Wilma sono separate dalla stessa parete.
Ecco perché quest’ultima le sta tanto a cuore, e quando, come succede ora, suona al citofono, Mafalda corre euforica giù dalle scale, pregustando le sorprese che arriveranno. Apre il portone e se la trova davanti, la sua amica pienotta, in un tripudio di verde. Sotto al braccio un mazzo di sedani ancora sporchi di terra, tra le mani due sporte straripanti di foglie. Nella borsa di finta pelle nera ormai lisa, Wilma nasconde una melagrana pesante come una roccia.
«Sali, Wilma, che ti verso un goccetto».
«Non ce la faccio. È tutto il pomeriggio che guido». Una buona scusa per evitare il vino annacquato di Mafalda. «Senti mo’, qui ci sono degli spinaci freschissimi. Prendi anche un po’ di cicoria».
Mafalda abbranca con una mano i ciuffi che già aveva adocchiato come i più grandi. Wilma stacca dal mazzetto due sedani.
«Tieni anche questi, dai, che poi scappo. Ti aspetto stasera per la partita».
Wilma si allontana colma e tondetta, il grosso frutto pesa in borsa, se Mafalda l’avesse saputo gliene avrebbe chiesto un pezzo, ecco perché la vicina non gliel’ha mostrato: non vuole dividerlo. Perché stasera, forse, suonerà alla sua porta Melania e lei va matta per le melagrane.
Mafalda salta le scale a grandi falcate rimirandosi la verdura fresca tra le mani, una nuova cena gratis. Bollirà spinaci e cicoria per farne una frittata. I sedani li utilizzerà per il ragù col macinato che le passa la macelleria. L’aveva messa in piedi suo marito Giorgio insieme al fratello, in una strada abbastanza trafficata. Uno sposo con una tale attività le era sembrato un ottimo partito, se non fosse che il negozio risultava, alle carte, di proprietà del fratello di lui, il vero nababbo della situazione, mentre lo stipendio di Giorgio era pari a quello di un commesso. Avevano continuato a rimboccarsi le maniche, il consorte lavorando sodo, lei risparmiando come un’ossessa. I quattrini accantonati in più di quarant’anni erano stati, per decisione irremovibile di lui, destinati ai figli: cento milioni di vecchie lire a Ugo, che ci aveva pagato la prima metà dell’anticipo per l’acquisto di una villetta a San Lazzaro, e cento a Mathias, emigrato negli States dopo aver vinto la cittadinanza alla lotteria. Mathias telefonava a casa una volta ogni quattro mesi circa, e la prima domanda che le rivolgeva era sempre la stessa: «Come sta papà?».
Mafalda pensava: Potresti anche degnarti di prendere l’aereo e venire a trovarlo, è da anni che manchi. Con tutti i soldi che ci avete spillato, te e tuo fratello. Ma si limitava a rispondere: «Un po’ peggio».
Questo aveva capito dalle salmodie dei dottori: nessuna speranza, la situazione per Giorgio poteva solo deteriorarsi. Aveva sposato un uomo di tredici anni più vecchio di lei senza calcolare che avrebbe potuto manifestarsi quella malattia degenerativa di cui tanto aveva sentito parlare: credeva che certe infermità insorgessero solo negli individui poco svegli. Invece si era dovuta ricredere, la memoria di suo marito si dissolveva come neve al sole e lei a rincorrere per casa i brandelli del loro passato. All’inizio erano azioni di vita quotidiana, poi erano diventati oggetti minimi: No, Giorgio. Non è la sveglia questa. È il telefono. Ripeti: te-le-fo-no. Quindi parenti e luoghi: Ti ricordi che Mathias è in America? Sì, l’America, dove c’è la Statua della Libertà.
Quando suo marito l’aveva chiamata per la prima volta mamma, lei aveva sentito una mano invisibile entrarle in gola e tapparle la trachea. Dopo aveva ripreso a respirare con la coscienza ineluttabile delle cose cambiate. Un anno intero le aveva fiatato sul collo la disperazione del tempo che passa, portando venti di sfacelo. Un altro anno era seguita la catabasi, quindi il precipizio le aveva bussato alla porta: si era presentato con un assegno di accompagnamento per l’Alzheimer.
Annunziata, come tutte le omonime del mondo, viene chiamata Nunzia. Vive al primo piano di via Damasco 7: lei è la sventurata cui è stata assegnata l’abitazione sotto Carmela. Era giunta in città, parecchi anni prima, dall’entroterra di Caltanissetta, con il marito ferroviere e la figlia Elisabetta, felice di essersi guadagnata in graduatoria l’accesso a quell’appartamento appena imbiancato, case Iacp da un mese inaugurate dal comune, bianche accecanti, antisismiche, con affitti a prezzi stracciati, dotate di garage esterno e saletta condivisibile previo appuntamento col caposcala, incarico che era poi stato affidato a suo marito. Come sono mutati i palazzi, ora che hanno attraversato il nuovo millennio: la vernice vira al grigio, le crepe disegnano i muri come ragnatele bislacche, gli angoli più freddi sono infestati di muffe.
Nunzia prega, presenzia in chiesa e recita il rosario. Si fa il segno della croce prima di coricarsi a letto, prima di addormentarsi, ogni volta che sua figlia la viene a trovare e ogni volta che se ne va. Queste invocazioni al Signore non erano state sufficienti a proteggerla: suo marito era morto d’infarto e lei si era ritrovata sola in casa con Casimiro, il fratello alcolista, che in cambio le versava trecento euro al mese. Pochissimo, rispetto a quanto le costava in vitto e sopportazione.