Casimiro spalanca l’uscio e sfodera un sorriso da casanova, pochi denti gialli oltre i quali spiffera un’essenza di mosto. Odio la sua voce roca da seduttore: «Buonasera, Wilma. Accomodati che Nunzia arriva».
Lo saluto, lascio i pesi a terra mentre lui sposta galantemente la sedia. La casa di Nunzia è sempre così linda che si potrebbe leccare il pavimento. Estraggo dalla borsa il pacchetto di sigarette, ne imbocco una – marca Multifilter, sottile e lunga come quelle delle attrici degli anni Cinquanta – e l’accendo tenendola ferma con le labbra contratte.
Casimiro prepara i bicchieri e si avvicina al tavolo con un fiaschetto di rosso in mano, mentre parliamo del più e del meno, finché giunge in sala Nunzia con passo mastodontico. Non è solo grassa, ma inguainata in una struttura a imbuto capovolto: dai fianchi la sua massa si apre a cono fino al pavimento, sostenuta da due gambe affette da un’elefantiasi pazzesca. Mi sforzo sempre di non guardarli, quei colossi di gambe con risvolti di ciccia e paludi bluastre, ma non ce la faccio, mi casca l’occhio e mi incanto.
«Wilma, che faccia c’hai! Ti cucino qualcosa?».
«No, grazie, non vedo l’ora di andare su. Senti mo’, ti lascio questi...», e stacco dal mazzetto qualche sedano, un bel fascio di spinaci e di cicoria, voglio essere equa rispetto a Mafalda.
«Grazie, Wilma».
«Quando torna Betta dille che venga a trovarmi, ho una cosina per lei». Betta, che brava ragazza. Incredibile che sia venuta su così bene, con quel degenerato dello zio in casa. Bevo un goccio e torno alla mia sigaretta, mentre un lungo urlo di piacere proveniente dal piano di sopra ci fa alzare gli occhi al soffitto. Carmela sta comunicando all’intero rione che ha raggiunto di nuovo l’apice del piacere.
Nunzia scuote la testa: «Anche stanotte... non ha ritegno».
«Nunzia, ma non hai chiamato lo Iacp per lamentarti?».
«Come no».
«E cosa ti hanno detto?».
«Che il loro dovere l’han fatto: scrivere il regolamento condominiale e affiggerlo dentro a ciascun portone».
«Quindi?».
«Quindi adesso sono problemi nostri».
Ogni volta che entro in casa, la Solitudine mi attende e mi prende per mano. Regina acquea, trasparenza liquida con sembianze da inferma, la Solitudine ha il potere di moltiplicarsi per le stanze, invaderle come se ogni uscio le facesse una riverenza spalancandosi: è una grande accentratrice, lei. Riempie gli spazi, mi ci fa affogare dentro. Mi punge con delicatezza costringendomi a perdonarle di essere ripetitiva. Ossessiva, maniacale. Di parlarmi solo di Juri e Melania. Raramente accenna anche al loro padre, e sempre ricomincia la nenia, facendosi accompagnare da una tetra eco.
Juri è morto. Morto.
Melania se ne sta andando via, un po’ è come se fosse morta anche lei.
Possibile che tu non possa fare niente per strapparla a quei folli? mi domanda infida la Solitudine.
Delle volte le trovano spirate, le ragazze come lei.
Io sento la bocca inarcarsi all’ingiù, le lacrime bussano. Dio santo, come ha potuto finire in una di quelle sette?
La Solitudine mi graffia con la dolcezza amara delle cattive ambasce. Mi blandisce a bassa voce, mi ricorda che non esisto più. Perché non si sopravvive a un figlio, si sopravvive alla guerra, si sopravvive a un amore perduto, a un uomo che ti abbandona disonorandoti, ai fantasmi. A un tentato suicidio, perfino. Ma a un figlio no.
Se metti al mondo una creatura, è sciocco non calcolare che prima o poi morirà, fa parte del gioco. La nascita di Juri mi aveva portato una strana malinconia che non era depressione post-partum. Come se – con il batuffolo vorace attaccato per la prima volta al seno – già prevedessi che se ne sarebbe andato presto lasciandomi così ogni giorno, sola al centro del salotto, con le braccia distese alle ginocchia e la bocca aperta.
Quella notte.
Erano le tre, fuori buio pesto, il campanello mi aveva svegliata di soprassalto.
Avevo aperto la porta già investita dal presagio, non mi ero mai fidata di quella moto, ma a Juri non sapevo dire di no. Uno dei due carabinieri mi guardava mesto: «Il semaforo era verde, non è stata colpa sua».
Era sopraggiunta Melania alle mie spalle e non c’aveva più visto. Aveva spaccato la casa vecchia a furia di urla, la notte si era assordata. Si dice così per dire, ma due giorni dopo si era staccato dell’intonaco dai muri. Non gliene fregava niente che Juri avesse rispettato il codice stradale e l’autotrasportatore l’avesse travolto passando col rosso, il risultato non cambiava: suo fratello non c’era più.
Il giorno delle esequie si era presentata coi jeans sporchi infilati dentro gli stivali neri e in bocca le maledizioni a Dio che non erano mai state lanciate, non così disperatamente, nella storia dei funerali. Era corsa al cospetto di quel corpo spento, l’aveva baciato e accarezzato a lungo. Aveva distrutto le corone di fiori disfacendole e gli aveva sparso dentro la bara i petali di rosa, prima che la chiudessero.
Alla fine, quando io ero rimasta asciutta di lacrime, quando tutti rincasavano col cuore pesante di chi prende coscienza che si muore anche giovani, Melania era andata dal proprietario del camion e si era scagliata contro il muso del veicolo, mentre le urla frustavano il cielo. L’avevano poi bloccata in quattro – quattro uomini – e l’avevano tenuta ferma a forza, e anche così, immobilizzata, lei continuava a latrare, tanto che dopo, quando l’ambulanza l’aveva portata via, due dei quattro tipi avevano attaccato a piangere.
Da allora era cambiato tutto per noi. Non che lei fosse mai stata una figlia modello, no. Testarda, volubile, intrattabile alla mattina, poteva però vantare alcuni grandi pregi: la generosità, un ammirevole disprezzo della fatica e una risata coinvolgente da scaricatore di porto, se si beccava il momento giusto. Da quella notte era stato spazzato via ciò che di buono lei aveva preservato in ventiquattro anni di vita. Aveva lasciato il posto di lavoro – posto fisso di grafica – e si era votata alla setta. Ecco perché, ora che sono passati diversi anni e lei è sempre più selvatica, io dimentico ogni sgarbatezza. Non è tutta colpa sua se è così sguaiata.
Panta neri fino ai polpacci, gli stessi stivali che indossava al funerale come a voler fermare il tempo, capelli – rasati da un lato e lunghi dall’altro – raccolti per forza di sudiciume in tante ciocche scure, Melania ora entra in casa preceduta dal suo possente pastore imbastardito con un mastino e io subito lo redarguisco: «Sciò, in terrazzo!».
«Ciao mamma». Butta a terra lo zainetto di stoffa logora.
«Ciao cara, mettilo in terrazza, Zebù, dai».
«Mettilo tu», e si siede.
Sgambetto dietro al cane, lo indirizzo verso il terrazzo con altri sciò e gli chiudo sul muso il vetro della porta. Mi dispiace, ma in casa sparge troppi peli.
«Ti ho detto mille volte che si chiama Zebidù, non Zebù».
«Vabbe’, è lo stesso».
«No, non è lo stesso, è diverso. Fai tanta fatica a impararlo? Ze-bi-dù».
Ecco, è già seccata. Apro il frigo senza ribattere. «Guarda cosa ti ho tenuto», e faccio ruotare la melagrana cremisi, ma Melania è bravissima a smorzare l’entusiasmo: «Mamma, è ora di cena, non mangio da ieri sera e tu cosa mi presenti? Una mela».
«Non è una mela, è una melagrana, so che ti piace tanto...». Sento che la voce subisce un’intonazione patetica, colpa della depressione che mi bagna gli occhi per un nonnulla.
«Ma non hai qualcosa di più consistente di una mela?». Ricaccio indietro il pianto e ingoio, bevendoci dietro dell’acqua e una pastiglia di Mutabon. Tanti soldi per antidepressivi e calmanti, eppure non mi sembra che servano a molto, cammino sempre in bilico su una linea sottile, spartiacque tra ordinario e abisso. Apro il forno, estraggo una vaschetta di tagliatelle al ragù di prosciutto, le servo fumanti in un bel piatto di porcellana – è il servizio dei giorni di festa.
«Vieni, è pronto».
«E te? È apparecchiato per due, qui».
«Io non ho più voglia di mangiare».
«Mamma, che palle. Non fare la permalosa, ho anche mal di testa».
«Non sono permalosa, è che tu... tu...». Vorrei proseguire assecondando il vero pensiero. È che tu rovini ogni cosa, quando arrivi. Io ti aspetto a braccia aperte e tu me le spezzi ogni volta. Ma rimango amareggiata e interrotta, e, mentre m’incammino in corridoio, mi inseguono le parole di mia figlia: «Dai mamma, non litighiamo anche stavolta. Ceno, vado a letto e tolgo il disturbo».
Torno indietro e mi affaccio alla soglia della cucina:
«Come vado a letto? Dormi qui? Stasera ci sono le mie amiche...».
«Cazzo, mamma. Non vi disturbo, voglio solo un letto comodo dove dormire, ho la fronte aperta in due dall’emicrania».
«Ma...».
«Cosa vi cambia, a voi tre Sultane, se io me ne sto di là?».
Ci chiama le Sultane quando vuole canzonarci, perché dice che siamo le signore indiscusse di questo palazzotto di via Damasco. In Siria c’è stato il sultanato, mi aveva spiegato un giorno di buonumore, e il nome della via è un segno del destino. In effetti un po’ regine siamo, ma regine dei poveri.
«Posso restare, allora, mamma?».
«E Zibibù?».
«Zebidù, cazzo, è tanto difficile?!».
«Va bene, quel coso lì... dove lo metti?».
«Sta in camera con me, non vi disturberà».
La osservo con occhio più analitico. Ha una faccia sfatta velata da un pallore malato, i capelli raddensati dal sudiciume, le labbra screpolate, e chissà se ha perso l’abitudine di lavarsi i denti tre volte al giorno: non sono più bianchi come una volta. So che vive in un casale dopo Cadriano, frazione di Granarolo, con altri. Dormono in promiscuità, si cibano mendicando alle fattorie attorno e celebrano liturgie mistiche. Melania puzza. Quel tanfo sgradevole dei vestiti sporchi di settimane, un misto di sudori imbrattati di strada, pattume di qualche giorno, frutta marcia. Qualcosa che, in fondo in fondo, seppur in misura ridotta, è semplicemente l’anticipazione del tanfo cadaverico. Sospiro rassegnata: «Va bene, restate pure, tu e il tuo animale. Però prima di andare a letto ti fai un bel bagno».