In via Damasco 7 è consuetudine che, nelle serate di gioco, si porti qualcosa da stuzzicare per condire la fortuna. Nonostante i suoi problemi col diabete, Nunzia è deputata ai dolci: questo venerdì ha servito dei bignè alla crema. Mafalda invece è la specialista degli assaggini a buon mercato, che riesce sempre a spacciare per prelibatezze, come adesso che esibisce la sua portata chiamandola crudité in salsa girasole: i due sedani che le ha regalato Wilma con un tuorlo sbattuto.
«Ecco le crudité della Sultana più tirchia del reame» spettegola Nunzia sottovoce a Wilma, che ridacchia. Sedute al tavolo, al centro un portacenere verdone di alabastro, il mazzo di carte come scettro, le tre Sultane stanno per dare il via alle danze di scala quaranta. Wilma con le spalle alla finestra, leggermente socchiusa, Nunzia di fronte e Mafalda di fianco. È proprio quest’ultima che, dopo aver sentito Zebidù abbaiare, intavola la conversazione, mentre scoperchia verso ciascuna amica una carta: cederà il mazzo al primo asso.
«Wilma, ma... c’è tua figlia?».
C’è un motivo per cui Mafalda chiede di Melania. Se le cose fossero andate come le due avevano desiderato, ora sarebbero consuocere. Anni addietro Melania e suo figlio Mathias erano stati fidanzati, poi tutto era finito, niente colpi di scena: la storia si era sgonfiata, lui era partito per l’America, lei per la sua dannazione.
«Sì, non sta tanto bene». Chissà perché si sente sempre in dovere di giustificarsi, Wilma, quando ospita Melania.
«Cos’ha?».
«Niente di grave, un po’ di mal di testa. Mi ha chiesto di restare e non ho saputo dirle di no».
Esce un asso proprio sotto il naso di Mafalda, che comincia a mescolare mentre Nunzia si introduce: «Ma adesso cosa fa? Ha trovato lavoro o sta ancora con quei... con quei... come si chiamano?».
«Si chiamano Soldati Luciferi». Wilma ha il sospetto che Nunzia lo ricordi benissimo, quel nome. Si porta alla bocca una delle sue sottilissime sigarette e subito la bagna col rossetto scarlatto acceso. Delle volte ne parla male, di quella figlia irresponsabile. Però poi finisce sempre per difenderla: «Sapete, dopo quello che è successo... a Juri, intendo: da allora è come se lei avesse chiuso col mondo».
Le altre due annuiscono, concentrate sulle proprie carte, mentre lei si sistema gli occhiali. Ce li hanno tutti e tre: Mafalda spesse lenti a fondo di bottiglia e una bacchetta aggiustata con lo scotch, Nunzia occhialetti neri da nonna, e Wilma lorgnette d’argento fino, ma il tocco originale è la stanghetta di brillantini, eccezion fatta per alcune zone più rovinate in cui le pietruzze si sono perse.
«E cosa fanno questi Soldati Luciferi?» insiste Nunzia.
«Mah, riunioni. Celebrano messe nere. Una gran messinscena».
«Non hai paura che le facciano del male? Non ti ricordi dei... come si chiamano? Le Bestie di Satana, avevano anche ucciso una ragazza».
Mafalda subito la corregge: «Ne avevano uccise più di una. Qui a Bologna erano diventati famosi i Bambini di Satana, ricordate Dimitri?».
Wilma ci tiene a precisare: «Sì, signore mie, ma le Bestie di Satana, quelle di Varese, erano assassini che si drogavano. I Bambini di Satana, invece, qui a Bologna... tanto baccano e alla fine cosa combinavano? Cose sporche tra di loro. Non credo che i Soldati Luciferi siano pericolosi. Certo, non faccio i salti per la contentezza sapendo che mia figlia è con quei depravati. Però non ci vedo sangue. Melania ama gli animali, se ci fosse scappato anche solo un sacrificio, sarebbe andata giù di testa».
«Sicura?».
Come amano infilare il coltello nella piaga, le sue amiche. Certo che quella volta che Melania ha salvato un nido di rondinini dalla quercia del giardino, nessuna che si sia complimentata con me. Gli amici li riconosci nei momenti del successo. I nemici anche. No, non che siano mie nemiche, lo so che in fondo mi vogliono bene. Però... pensa Wilma.
«Abbastanza, e vi prego di non privarmi anche di questa certezza».
In quel momento compare dalla zona notte Melania e tutte si girano a salutarla. Indossa l’accappatoio rosa di Wilma, ci si perde dentro da quanto il panno è grande, per adattarlo al suo corpo mingherlino ha dovuto risvoltarlo sotto la cintura. Ha i capelli bagnati e il viso leggermente ristorato. Dietro di lei sbuca il muso di Zebidù.
Wilma le va incontro col vassoio di bignè in mano: «Non ti asciughi i capelli?».
«Senti, io son venuta qui per farmi una bella dormita. Ma qualcuno sta facendo di tutto per rovinarmi la serata...». Si avvicina alla madre, prende un dolcetto e domanda: «Non sentite questo cazzo di fracasso?».
Le tre affinano l’udito ed effettivamente percepiscono un trrr sordo e lontano, qualcosa di simile a un trapano, prima erano troppo assorte nel gioco per sentirlo. Si alzano e si dirigono in camera di Melania – chiamarla camera è un eufemismo, Wilma ha riadattato la stanza a grande magazzino, un multi-contenitore di ogni sorta di materiale: un pacco da vendere colmo di lenzuola, salami penzolanti, un asse da stiro, una credenza ricettacolo di oggetti inutili, una gabbia in disuso, un cestino da cucito, una bambola senza un braccio col vestito da spagnola, una tv degli anni Settanta, il bastone che usava suo padre per camminare – in cima la testa di un labrador bianco – e molto, molto altro. Dell’antica cameretta di Melania è rimasto solo il letto addossato a una parete; ecco: lì il frastuono è assordante.
«Deve essere Bubi. Fa sempre questi lavori a orari impensati» ipotizza Wilma.
«Mio marito Giorgio si sarà svegliato con questo baccano...» si preoccupa Mafalda. «Vado a vedere come è messo».
Corre indaffarata giù per i gradini, lì il rumore rimbomba nell’interno del palazzo, le scale sono tappezzate con una squallida plastica nera. Al secondo piano il trapano le bersaglia più forte le orecchie e lei affretta il passo. Se Giorgio si sveglia... È ormai da otto anni che è ridotto così, ma negli ultimi tempi si è aggravato. Mafalda non l’ha detto alle amiche: prima di coricarlo a letto, per essere sicura che dorma ininterrottamente, gli versa in un bicchiere di latte tre pastiglie di Tavor da 1 mg. Poi gli avvolge attorno al torace una benda spessa e la fissa al materasso saldandolo: se cadesse sarebbe un guaio, gliel’hanno detto anche i dottori che qualsiasi trauma potrebbe rivelarsi deleterio. Del resto questa tribolazione è cominciata proprio per colpa di una botta, Mafalda non scorderà mai quel venerdì pomeriggio in cui girovagavano per il centro e Giorgio si era incamminato verso un negozio di ferramenta con tanta foga che non aveva visto il vetro d’ingresso – così pulito che effettivamente non si notava – e l’urto provocato dal suo capoccione sulla lastra trasparente aveva ottenuto due effetti: la vetrina era andata in pezzi e, insieme a essa, anche qualcosa nel cervello dell’anziano. Giorgio aveva barcollato per qualche passo ed era rovinato a pancia in su, sbattendo nuovamente la testa. Giaceva sotto un ombrello di gente curiosa, qualcuno chiedeva se fosse morto, qualcun altro gli aveva appoggiato i polpastrelli sulla gola e aveva risposto che era vivo. Mafalda si era chinata su di lui e lo aveva chiamato ripetutamente per nome. Fatto sta che, nella calca di spettatori indesiderati, un commesso si era fatto strada e aveva avvisato che stava giungendo l’ambulanza. Al che Mafalda si era alzata e aveva chiesto: «Scusi, ma... il vetro?».
Il commesso in tuta verde non aveva capito. Così lei aveva riformulato la domanda: «Il vetro, intendo... non dobbiamo mica ripagarlo, vero?».
«Cazzo, io vado giù e gli trapano il culo!». Melania attraversa il salotto a grandi falcate, il cane la segue eccitato, scodinzolando.
«Melania, puoi evitare di dire parolacce davanti a Nunzia? Sai che lei ci tiene...». Wilma accende la televisione per smorzare la tensione. La conosce bene sua figlia: non si placherà finché Bubi non la smetterà. Melania prende un bignè e lo lancia a Zebidù, Nunzia cambia posizione sulla sedia, in segno di disapprovazione. Ci ha lavorato dalle sedici alle diciotto, a quei dolcetti, se avesse saputo che sarebbero finiti tra le fauci di un cane si sarebbe presentata anche lei con del sedano. Wilma intuisce i pensieri dell’amica: «Me lania, puoi smetterla di sprecare i bignè col cane?».
La ragazza si siede scocciata su un bracciolo del divano col telecomando in mano. Dopo un minuto di zapping nevrotico, si ferma su un’emittente locale che trasmette un Tg regionale: Orafo ucciso ieri nella centralissima via Marsala, a Bologna. Si chiamava Antonio Polpi ed era il titolare dell’attività. Due persone con passamontagna, probabilmente un uomo e una donna, hanno rapinato la gioielleria. Una volta fatta irruzione, i delinquenti hanno oscurato le telecamere coprendole con della schiuma. Polpi era solo, i due l’hanno minacciato con una pistola da cui poi è partito il colpo che ha provocato il decesso. Il bottino rubato ammonta a circa trecentomila euro tra preziosi e soldi sottratti alla cassa. In particolare è stata trafugata una partita di diamanti.
Nunzia, angustiata, si slaccia un bottoncino della camicetta e bacia la punta del crocefisso.
«Una volta si avevano più valori. Saranno stati i soliti rumeni» chiosa Nunzia.
«Perché proprio rumeni?» ribatte Melania con aria di sfida.
«Rumeni o albanesi, non fa differenza... non che siano cattivi, non voglio parlare male di loro: è la povertà che li spinge a rubare» filosofeggia Nunzia.
«Veramente tanti italiani commettono le più turpi nefandezze, anche senza stare a scomodare la povertà. Padri che violentano le figlie, mariti che uccidono le mogli...».
Nunzia guarda quella ragazza magra che nuota dentro all’accappatoio extra large color maialino di Wilma: rispetto a lei è quasi di spalle, testa rasata da una parte fino alle orecchie, e su quel lato, sul collo, campeggia il tatuaggio di una svastica. I capelli le scendono ancora umidi su un braccio, aggrovigliati in ciocche, non vedono una spazzola da mesi. Nunzia ringrazia il cielo per non aver ricevuto la disgrazia toccata a Wilma, una figlia così. Che sporcizia, poi, quel cagnaccio. La sua Betta sì che è una cara figliola, obbediente, ordinata, certo: non è ancora accompagnata, ma prima o poi troverà un uomo come si deve che la sposi. Va bene tutto, purché sia italiano e cattolico e non sfaccendato o drogato. Nel frattempo è concentrata sul lavoro, fa la segretaria di direzione, mica un posto da poco, con la penuria di lavoro che c’è in giro. Povera Wilma, conclude Nunzia, che brutta punizione la perdita del figlio, prima, e la croce di Melania, poi. Il pensiero di Betta la rincuora così tanto che Nunzia sente la necessità di parlarne, ma non sa in che ginepraio si andrà a invischiare. «Allora, Wilma, dico a Betta di passare qua da te domani, così le dai quel regalino...».
Melania taglia sua madre con uno sguardo di odio. «Quale regalo?».
«Niente, è un pensierino: un completo intimo che le piaceva...».
Un completo mutande e reggiseno è una spesa irrisoria, per Wilma, Melania lo sa benissimo. È il gesto che le dà fastidio, per questo cominciano a battibeccare. La gelosia di Melania è antica quanto il palazzo. Pur senza aver mai estorto una confessione alla madre, la giovane vede confermata la certezza che, se un dio onnipotente concedesse a Wilma la possibilità di tornare indietro nel tempo e di scegliere una figlia tra lei e Betta, sua madre indicherebbe senz’altro quest’ultima.