Wilma

Quanto ci intendiamo io e Betta. Entrambe beviamo il caffè con l’aggiunta di un dito di latte freddo e ascoltiamo l’oroscopo trasmesso ogni mattina alle sette sul quinto canale. Mi riempie di moine, le piacciono le mie guance, assicura che ho una pelle bellissima – quelle radiose pelli tirate tipiche delle facce piene –, ammorbidita da maschere, pozioni e da una crema che uso da un quarto di secolo, il cui nome basta a promettere prodigiose lotte contro il tempo: Eterna27.

Esulta per il completino regalato, poi ci sediamo, mi accendo una sigaretta.

«Novità?». Ammicco con gli occhi.

«Mi raccomando, non dirlo alla mamma che ho una storia con lui».

«Che Dio mi fulmini se ho mai detto niente...».

«Scusa, Wilma: lo so che posso contare su di te. È che sono terrorizzata all’idea che mia madre scopra che sono l’amante del mio capo».

«Se un giorno ti metterai con lui seriamente, dovrai presentarglielo». Batto sulla sigaretta rimirandomi il dito: adoro questo smalto rosso fuoco. La cenere rotola sul portacenere alabastro.

«Non accadrà. Non lascerà mai sua moglie, me l’hai detto anche tu».

«No, io ho detto che è molto difficile: non impossibile». Non vorrei illuderla, però non deve nemmeno disperare in un lieto fine. Non può sempre andare male. Delle volte potremmo anche uscirne vincenti, nella vita, porca miseria.

«Quindi, mettiamo che accada davvero... te la immagini mia madre, alla notizia? Mamma, ti ho nascosto una cosa: sono stata per anni l’amante del mio capo. Lui giura di amarmi e, quando otterrà il divorzio, ci sposeremo. Ma in comune, senza preti. Ti rendi conto? In questa dichiarazione ci sono almeno due passaggi che la farebbero andar giù di testa. Primo: la sua integerrima figlia è stata l’amante di un uomo più grande e impegnato, quindi è una rovina-famiglie. Due: sua figlia non le regalerà mai l’emozione di un matrimonio in chiesa».

«Apriti cielo».

«Appunto. Tanto non si porrà il problem...». L’ultima parola si spezza per colpa di un sommesso bussare alla porta, vado ad aprire. È Casimiro che ci sorride sornione.

«Ciao Wilma. Ci sei anche tu, Betta?».

Il sì freddo della nipote congela l’aria. Betta mi ha raccontato le molestie subite, pregandomi di fingere di non sapere. Io posso anche fingere, ma so. Risultato? Non sopporto quest’uomo. I pochi capelli grigi sono concentrati in una corona che congiunge a semicerchio orecchio con orecchio e sono raccolti, dietro, in un codino che si restringe miseramente, di cui lui è estremamente orgoglioso. «Ho disturbato le più belle del palazzo?».

«Avevi bisogno?» taglio corto.

«Sì, hai un cacciavite a esagono? Devo riparare le ante di un mobiletto».

«Ti porto quello che ho». Mi avvio nel corridoio.

Casimiro non si è mai sposato perché, come tutti i dongiovanni, le donne non le conosce a fondo, ne è terrorizzato e le vuole solo a tempo determinato. È un cacciatore, di quelli squallidi e irriducibili; i suoi trucchi sono semplici e riassumibili nel principio secondo cui più si semina più si raccoglierà. Adesso, ad esempio, ha adocchiato il completino intimo abbandonato sullo schienale della sedia. Torno col cacciavite a brugola e registro schifata la scena. Lui si avvicina al reggiseno grigio perlato, saetta l’occhio dalla stoffa al volto della nipote, mugugna un mmmh e carezza le coppe del reggiseno, mentre domanda: «È tuo, questo?».

Mi intrometto con prepotenza, gli schiaffo in mano il giravite e gli volto le spalle verso la porta: «Ecco l’arnese che cercavi. A presto, Casimiro».

Finalmente è giunto il mio momento. Ora che Betta se n’è andata, non permetterò a nessuno di disturbarmi. Non risponderò nemmeno al telefono, cascasse il mondo mi dedicherò al mio svago preferito: agghindarmi davanti allo specchio, la tapparella socchiusa al punto che filtra solo un filo di luce. Incurante del rudere che ora sono, mi pascerò del dettaglio: un paio di scarpe, un’unghia smaltata, un rossetto che si spande nelle rughette labiali. Oh, al diavolo le rughe. Se Romolo tornasse, anche lui sarebbe pieno di grinze. Mi aveva mollata quando ero incinta di Juri, in tempi in cui agli uomini era lecito farsi di nebbia senza preavviso e nessun avvocato li inseguiva per genufletterli ai loro doveri. Con la preoccupazione di crescere due bimbi da sola, delle volte in questi anni mi sono gingillata col desiderio che lui potesse ricomparire così, da un momento all’altro. Se tornasse oggi e chiedesse notizie dei nostri figli, saprei bene come aggiornarlo. Una è persa. Gli direi. L’altro è in Certosa, ti ci porto se vuoi. È un bel cimitero, sai? Ti accompagno a visitare anche la tomba di Carducci.

Ma cosa me ne frega di Romolo.

Il mio film, ora, e fermo gli orologi.

È strano come noi Sultane giochiamo tre volte col tempo: ieri, oggi, domani.

Il tempo abbarbicato al passato è dilatato nello spazio a fisarmonica dei ricordi e noi ci trastulliamo rievocandoli perfino quando ci lacerano: è sempre lo stesso tempo, si ripete come una moviola in bianco e nero di cui conosciamo la trama a memoria e, anche se volessimo, non potremmo cedere mai alla debolezza di sperare che cambi qualcosa all’ultimo.

Il futuro è ristretto come una biscia in ritirata e chissà dove si rifugerà, se calpesterà altra polvere o verrà schiacciata da un sasso scagliato per distrazione: ma intanto ci mostra la schiena infida e ci approssima alla morte.

Il presente ristagna qui, immobile, ora gassoso, altrove impantanato nella noia, rimpinguato nell’attesa. E mi accorgo che, in fondo, il tempo è solo il vuoto che ci resta in mano quando tentiamo di catturare la vita. Ecco cos’è, alla fine: una fregatura.

In questa stanza la Solitudine ha ceduto il posto alla Vanità, suo ministro è lo specchio. La Vanità mi condurrà nelle sfere ovattate dello stordimento. Qui mi sento a mio agio, così tonda, ridondante, l’aspetto fisico con cui mi ero misurata da piccola prevedeva parametri ben più seri di giovinezza e magrezza. Ricordo benissimo le malattie della pelle, le brutture della povertà, le ossa sporgenti e i bimbi a contare le costole. La carestia ci rendeva fantasiosi, talora uno scheletro poteva diventare gioco, come quando – lo stomaco stretto dalla fame – abbiamo finto di preparare la minestra: cuocevamo la zuppa dentro a un pentolone arrugginito, ma era solo fango, e come mestolo usavamo il femore di chissà quale animale. La fame era la deformità, non il grasso. Lo spettro erano la denutrizione e la paura. Le mutilazioni provocate dai caccia Pippo, le maratone della morte, di notte: tutti giù nascosti nei fossi, qualcuno però restava indietro, il sibilo riempiva le campagne e, quando spariva, le genti raccoglievano i brandelli di polpa. Chi era rimasto senza un braccio, chi si accartocciava la pelle lacerata. Compiacermi del mio corpo opulento significa riconoscenza per la mia sopravvivenza nonostante la morte, nonostante tutto. E festeggio con un vecchio pezzo di Mina, che faccio partire sul giradischi del dopoguerra.

Adesso arriva lui, apre piano la porta,

poi si butta sul letto, e poi e poi e poi...

Mi denudo e d’incanto non sono più vecchia, non ho più un nome né un passato, flutto immersa in un mare antico, placida medusa gigante senza una meta, sinuosa anche nei corti tentacoli.

Procedo alla vestizione. Mica facile piegarmi per infilare la guêpière e sollevarla lungo la pelle, la guaina fa attrito.

Ha talento da grande, lui, nel fare l’amore,

sa pigliare il mio cuore, e poi e poi e poi e poi...

Trattengo il respiro, provo a tirare in dentro lo stomaco, e con uno sforzo titanico – occhi strizzati per la concentrazione, labbra racchiuse – do un ultimo grande strattone per strascinare il resto della guêpière.

Sospiro, ce l’ho fatta. Sono rivestita dall’inguine fin sotto ai seni da tabaccaia, che penzolano fuori un po’ cadenti, ma beati.

L’importante è è è è è è è è... è finire.

Sollevo le spalline mentre la puntina attacca la seconda canzone, Brava. Interrompo le operazioni per slittare il volume al massimo, questo brano ha senso solo se rompe i timpani.

È la volta del petto. Impugno un seno e, con un movimento rotatorio, lo spingo verso l’alto e lo incuneo nella coppa. Idem con l’altro. Pigio issando in su le due coppe e le rotondità delle mammelle si espandono in magnifici rigonfiamenti, che imbrogliano sugli avvizzimenti.

Brava! Brava! Come sono brava! Brava!

Certo se qualcuno vuole proprio...

proprio pignolare

forse qualcosa non so fare

ma sicuramente sì...

non può essere che una cosa

che non ha nessun valore

Le scarpe riposano ancora nella confezione d’acquisto, le scarto, me le rimiro, mi piego – non senza patire un dolorino al nervo sciatico –, infilo la parte anteriore del piede, che entra tutta slargando le fasce laterali. Calco dietro, ma il tallone resta fuori. Provo col calzascarpe: funziona, un plof e i piedi sono calzati. Però, che male. Come se la mano di un orco me li stringesse in pugno. Resisto, è un momento magico, questo, la medusa che era in me si trasforma in sirena e si appropria dello specchio. Il vetro mi sorride: sono proprio un fiorellino.

Brava! Brava! Come sono brava! Brava!

Mi sento compressa e costipata. La guêpière mi toglie il respiro, ai confini – sedere, inguine e schiena – la carne sbalza come un palloncino martoriato. Le scarpe mi fanno un male cane e straborda fuori la polpa. Eppure mi ammiro e sguazzo nella meraviglia di questa visione sorpassata dai pudori. Starei a contemplarmi per ore se non fosse che un battere continuo e irritante mi distoglie dalla matrona meravigliosa riflessa nello specchio.

I secondi di silenzio che seguono alla fine della canzone rendono il bussare più vigoroso.

Mi precipito al giradischi e sollevo la puntina per interromperlo.

Bum bum bum, sento in basso. Esattamente sotto ai miei piedi, in corrispondenza della stanza da letto di Carmela.

Bum bum. Bum.

Resto attonita mentre, sotto, quella screanzata della mia vicina grida: «La pianti con quel cesso di musica?».