Wilma

Mi precipito giù furibonda, e ti pareva che non ci fosse puzza di nuovo di fritto, qui nelle scale. Carmela per dispetto ha acceso la musica a tutto volume e ha fatto partire uno di quei cd in voga a casa sua. Oggi è il turno di Gigi D’Alessio. Busso forte e una nuova ondata di fritto mi schiaffeggia appena la porta si apre, mentre la canzone rimbomba nell’androne:

...il tuo cuore ha già un battito nuovo

parla male di me senza alcuna pie

anche se tutto questo so il male che fa

si stasera t’avesse vasà...

«Puoi abbassare, per favore?». Recupero in fondo al mio rancore dei rimasugli di gentilezza.

Con aria di sufficienza si volta verso il piano cottura e controlla la padella, che è bella pronta per la frittura. L’aria – se di aria si può parlare – è impregnata di miasma di scogli e plastica bruciata. Carmela non è interessata alla comunicazione con me, io non mi do per vinta: «Posso entrare, se no si infestano ancora di più le scale?».

Lei mi fa un cenno che equivale a un fa’ come ti pare e subito si dirige al cucinotto, scalza, con dei fuseaux aderenti grigi attillatissimi. Si muove come se io non esistessi: contempla l’olio che esplode in grandi bolle rumorose e affonda le mani in una terrina in cui qualcosa di simile a dei pesciolini è infagottato in una pastella appiccicosa. Non mi interessa se mi riserva solo la schiena, parto con la requisitoria: «Puoi cominciare a prendere in considerazione l’idea che non sei sola, in questo palazzo e che gli altri vanno rispettati?».

Nemmeno mi risponde, che maleducazione.

Non mi tengo più e mi avvicino arrabbiata: «Perché mi bussavi con tanta cattiveria, eh? E non puoi avere un po’ più di creanza?».

Non dirgli mai

di come è stato bello quella notte al mare

dietro una barca aspettavamo stretti che arrivasse il sole

di quella volta per un tuo ritardo ci tremava il cuore...

Resta impassibile, spalle voltate.

Scrolla le dita impregnate di farina sull’olio provocando una bufera di friggi friggi.

Che nervi quando la gente non risponde. Mi verrebbe voglia di strapparle la lingua con le unghie, per vedere se poi impara che rispondere alle domande è buona e civile educazione. Mi accosto a lei esasperata. «Hai capito cosa ti ho detto? Poi perché non apri la finestra quando cucini, così non infesti le scale?».

Finalmente pare accorgersi di me. Mi attraversa con uno sguardo duro. Parte dalla testa e, man mano che scende, la bocca si compiace in una smorfia di spregio – il labbro inferiore leggermente arrotolato in fuori – che raggiunge il culmine quando individua le scarpette Dolce & Gabbana sporgenti dai pantaloni della tuta.

«Cosa ci fai con quelle scarpe? Ma non ti rendi conto che sei ridicola, brutta vecchiaccia?».

Sento qualcosa di molto simile alle caldane. Era dai tempi della menopausa che non mi succedeva, poco meno di vent’anni fa.

Fisso la padella con occhi lucidi.

In quella frase è concentrata l’essenza profonda di come viene considerata la vecchiaia dalla stragrande maggioranza della società.

Ridicola, inappropriata. Inutile.

Sento il dolore sciogliersi nell’ira, ira che subito sale alla testa, e quello che succede non me lo saprò mai spiegare. Perdo il senno stordita dalla situazione, dalla rabbia, dalla musica a decibel altissimi, avanzo le braccia, impugno la padella, stringo il manico e, con una forza bruta, proprio mentre Carmela si sta voltando verso di me – per guardarmi, finalmente –, sposto all’indietro la padella. Quella, forse, pensa che io voglia buttare l’olio bollente nel lavello.

Invece le sbatto violentemente in faccia il tegame. Colpita in pieno, barcolla all’indietro e grida, mentre l’olio dalla faccia scende su tutto il corpo. Urla e agita le braccia come un’ossessa – mi arrivano pure degli schizzi –, presa dal panico la colpisco di nuovo. Poi di nuovo, a più riprese, senza parlare, determinata e cattiva, infelice, scontenta della vita e non del tempo perché passa, ma di come passa. Disperata e implacabile. Deve smetterla di urlare. Basta, che chiuda quella boccaccia, che regni il silenzio. Ancora padellate, ancora e ancora, più forte che posso.

Finché la ragazza, già con la pelle lucida e ustionata, bocca aperta, occhi chiusi e tumefatti per il bollore, stramazza a terra.