Come molte tra le persone che si trovano a una distanza irrisoria dalle gambe di Nunzia – gambe ora esposte dal ginocchio in giù, il tepore di ottobre lo permette –, anche Corradino non riesce a resistere alla tentazione di dirottarvi l’occhio. Pur avendo cura che la sua interlocutrice non se ne accorga, devia lo sguardo dalla corteccia dell’olmo al cestino dei rifiuti, fino all’elefantiasi esposta così impudicamente. Che gambe. Due immensi würstel che terminano oltre le caviglie, affondando nella carne del piede. Il rosa biancastro è spruzzato da diramazioni violacee, con picchi di ragnatele blu, dovute alle rotture multiple di sottili vasi sanguigni. Bisogna approfittarne, pensa Corradino. Tra poco arriveranno i freddi e la donna uscirà di rado, sempre coperta da spesse calze contenitive.
Ora che Mafalda esce dal suo civico, il sette primo, e Nunzia è intenta a chiederle dove sta andando, Corradino tuffa a capofitto lo sguardo negli arti osceni e la voce delle due gli arriva come una pubblicità quando non la si ascolta.
«Ciao, Nunzia. Salve, Corradino».
Quello finalmente distoglie lo sguardo. È il buono del quartiere, Corradino: metà calabrese, metà triestino. Espressione da ingenuo, pelle spessa e indurita da anni trascorsi sotto il sole, quando faceva il muratore. Poi era precipitato da un’impalcatura e gli avevano accordato un’invalidità permanente.
«Ciao, dove vai di bello?».
«Dalla mia amica Wilma».
«Senti, Corradino, volevo chiederti una cosa... te la cavi, tu, con le cose elettriche?».
«Dipende. Qual è il problema?».
«Il mio televisore fa un ronzio di sottofondo. Quanto vorresti per eliminarlo?».
Nessuno lo ha mai ricompensato con qualcosa di più solido di un caffè.
«Non è quello. È che... magari non ne sono capace».
Dal marciapiede oltre il giardino si scorge una famigliola pachistana. La madre sta trainando un passeggino modesto acquistato in un discount, Nunzia emette un risolino caustico: «Eh, vedi mo’ adesso a chi danno le case popolari. Piuttosto che aiutare noi italiani, che abbiamo tanto bisogno, aiutano questi che non sanno nemmeno parlare la nostra lingua. E noi dove finiamo, sotto ai ponti?».
La signora sterza nella stradina lungo il giardino, avvicinandosi, intanto la musica di Gigi D’Alessio diffusa dal piano di Carmela copre gli altri rumori del palazzo. Lo scialle fucsia con paillettes lilla ondula ai passi, seguendo le interferenze del passeggino che spesso s’incespica nelle fratture del selciato. I due la osservano e Nunzia prosegue, avendo cura di abbassare leggermente la voce: «Vedrai come andrà a finire. Ancora qualche anno e saremo infestati di marocchini, pachistani e cinesi. Invaderanno il condominio e vorranno comandare loro».
Mafalda si sente leggermente chiamata in causa. Per diamine, sua nuora è polacca, in fondo fa parte della sua famiglia, l’amica dovrebbe mostrare un po’ più di delicatezza quando sentenzia contro gli stranieri.
«Esagerata! Che fastidio ti danno? Poi guarda questi pachistani: una bella famigliola». S’interrompe nel momento in cui la mamma e la bimba passano a pochi metri e lanciano loro un sorriso, la madre aggiunge con la voce di chi ha due noci in bocca: «Bongionno!».
Mafalda si volta verso Corradino. «Come, non sei capace di ripararlo? Non fare il modesto».
«Ma io...».
«Su, provaci almeno, eh? La vecchiaia non te l’ha insegnato che la vita è fatta di tentativi?».
Mafalda si allontana col passo ritmato dalle lunghe gambe e i due la seguono con gli occhi. Pantaloni marroni a buon mercato, sopra una maglietta a fantasia a zig zag di tonalità stinta tra il color mulo e il vinaccia, sedere completamente piatto. La schiena subisce un’incurvatura verso l’alto, svelando l’accenno di un ingobbimento non pronunciato: una spondilolistesi lombare, ecco il nome che ha pronunciato il dottore per dirle che le era slittata una vertebra su un’altra. I capelli neri scendono giù dritti dritti, spartiti in due mazzetti sulla fronte. Se li taglia da sola, provvede anche alla tinta, ora però è da un pezzo che l’ha finita e dall’attaccatura dei capelli le parte una banda bianca che si spezza solo dopo quattro centimetri.
«Perché ce l’hai con gli stranieri?» domanda Corradino a Nunzia, quando rimangono soli.
«Non mi fraintendere. Io non sono razzista, sia chiaro». L’espressione di Nunzia è quella serena di chi è in pace col mondo perché custodisce la sua porzione di verità.
«Ma cos’è che ti dà tanto fastidio?».
«Bah, prima cosa puzzano. Secondo, alcuni sono terroristi. Vuoi andare al supermercato e trovarti una bomba nel reparto frigo?».
Nunzia lo fissa coi suoi occhi grigi da batrace e si passa una mano tra i capelli pel di pecora. «Terzo, vogliono cambiare le nostre abitudini. Se sono ospiti, qui, sono loro che devono adattarsi alle nostre tradizioni. Tra qualche anno pretenderanno di trasformare la chiesa in moschea», e la donna guarda la facciata sacra – oltre la strada – dove svolge con benemerenza molteplici attività parrocchiali, dall’indottrinamento dei ragazzini alla raccolta fondi. Il parroco la porta su un palmo di mano, è la più devota dei fedeli. Prima di ridursi così, quando era dotata di un fisico svelto, gli faceva da perpetua e gli puliva navate, sacrestia, il marmo luceva come se fosse stato smaltato e l’acqua del fonte battesimale veniva regolarmente svuotata – non come adesso che la nuova domestica la lascia imputridire.
«Casimiro è al bar?», e Nunzia si sente alleggerita nel condividere con gli altri la sua disgrazia.
«Sì».
«Ma quanto beve, al giorno?».
«Parecchio». Poi racconta di come una volta lui si era scolato tutte le riserve tra liquori, vini da cucina e distillati di casa.
«Dopo che è successo?» s’informa lui.
«Si è trasformato. È diventato un demonio... volevo portarlo dal dottore, ma mi ha perfino picchiata. Mentre era piegato a battermi, a un certo punto si è fermato. Io ho abbassato le braccia che tenevo alzate per proteggermi la testa e l’ho guardato».
Corradino sposta con la mano a paletta un nugolo di moscerini. «Poi?».
«È crollato a terra».
«Hai chiamato l’ambulanza?».
«Sì, e mentre lo portavano via ho detto: tenetevelo per sempre. Quando l’hanno dimesso dall’ospedale, lui si è presentato alla porta chiedendomi scusa anche in cirillico. Gliel’ho detto: se vuoi continuare a vivere qui, devi darti una regolata, altrimenti quello è l’uscio».
«Deve essere stato brutto».
«Bruttissimo...». Il sopraggiungere del senegalese, dal vialetto, le fa interrompere il discorso e abbassare la voce:
«Ve’, Corradino, arriva Bubi...».
Il ragazzo devia verso il parcheggio. Avanza come un vip che si è appena liberato dall’assedio delle fan. I pantaloni in pelle sono stretti anche al cavallo, dove una bella prominenza fa immaginare a Nunzia qualcosa di sporco e grosso, è da molti anni prima che morisse suo marito che lei col sesso ha chiuso. Era ancora relativamente giovane quando lui aveva perso interesse nei suoi confronti.
Dal cellulare di Bubi parte, a volume altissimo, la suoneria metallica di un tormentone dell’ultima estate. Quello risponde con voce nasale: «Pronto?». Sua figlia Betta lo classificherebbe come un tamarro. Le poche volte in cui guardano insieme Uomini e donne, Betta ripete: Che tamarri. Ma la gente non si accorge che è tutta una montatura? Comunque sia, Nunzia associa la parola tamarro a qualcosa di sexy e di volgare. Braccia muscolose come queste che le stanno passando davanti e che la fanno volare con la fantasia ai versi irripetibili lanciati dai due indecenti, di notte e di giorno, esattamente sopra al suo letto. Si odono come se il pavimento non li separasse e loro fossero lì, per aria, a rigirarsi in quelle pose invereconde che Nunzia, in tutta la sua vita, non ha mai provato.