Non dirgli mai che il vostro non è amore è sesso senza cuore
che ti fa male se ti vuol baciare lì vicino al mare
che tu fingendo a volte gli sorridi
ma trattieni il pianto...
Finalmente la canzone s’interrompe. Mi guardo attorno sconsolata. Stringo a tal punto il manico della padella che potrei sformarlo.
Oddio, cos’è successo?
Il cuore batte a mille, il petto sobbalza all’impazzata e, sotto lo sterno, a sinistra, sento quel dolorino che mi punge quando mi sottopongo a uno sforzo fisico o emotivo. Angina pectoris.
La situazione è degenerata, io non volevo...
Se ci sarà un aldilà, mi attenderà un inferno ben peggiore di quello che sono stata costretta a vivere in questi anni. No, non è possibile più di così... Cos’ho patito, qui? Non solo sofferenze, la mia vita è stata accoltellata da perdite, vuoti e malintesi. Ma da giovane non te ne accorgi, ti illudi che sia ancora tutto possibile, perché idealmente puoi fantasticare di insaziabili orizzonti. Quindi le cose cambiano, ti rendi conto che ormai hai scritto buona parte del tuo romanzo autobiografico – tu, con le tue mani e le tue scelte – e ciò che resta è intrappolato in una scatola predefinita. È questa la vecchiaia, il passaggio dalla dimensione dell’infinito alla gabbia del prevedibile. Sai che camperai non oltre un determinato numero di anni, in un suolo stabilito e sempre più circoscritto, sai che si assottiglierà il tuo potere decisionale, che non avrai altri figli, altri sorrisi sconosciuti, altri alberi da veder crescere, altri capricci per cui chiedere clemenza.
A terra c’è una ragazza maleducata e l’ho stesa io.
Come ho fatto a perdere il controllo?
Devo scappare via.
Il dolorino si acuisce.
Morirò d’infarto, qui, tra poco.
La ragazza respira?
Mi avvicino guardinga e la scruto.
Ha la faccia e il collo segnati da grandi macchie paonazze, la pelle tumida, l’unto ha diviso in ciocche i capelli bagnati e la maglietta bianca è inzaccherata da lunghe patacche.
Mollo a terra la padella e scappo via cercando di scansare spigoli e pozze tra quelle mura straniere. A ogni passo mi sembra che una mano invisibile rallenti i movimenti, come quando nei sogni si vuole portare avanti un compito, ma subentra continuamente un impedimento.
I piedi mi bruciano stritolati nelle scarpe nuove, finalmente raggiungo la porta d’ingresso, la apro d’impeto per sgattaiolare fuori, ma mi ritrovo davanti Mafalda, con i suoi capelli come spaghetti scuri e gli occhialoni d’osso di tartaruga acquistati negli anni Ottanta.
«Mafalda!».
«Wilma, sei qui...».
Ci esaminiamo: io dentro un appartamento non mio, lei ancora sulla soglia.
«Ti avevo sentita strana al telefono e volevo venire a controllare che andasse tutto bene».
«...».
«Va tutto bene?».
«Benissimo». Mi torna la voce da pianto. Quando sale il magone non riesco proprio a contenerlo.
«Sicura?».
«Sicurissima».
Mafalda è più alta di me di almeno quindici centimetri. Non deve protendere troppo il collo e le punte dei piedi per sbirciare oltre la mia testa bionda. Forse intravede Carmela, perché la sua domanda subisce un abbassamento baritono: «Wilma, cos’è successo?».
Tre secondi dopo entra in casa.
Le racconto tutto tra le lacrime, mentre lei tiene lo sguardo incollato alla ragazza: sembra una bambola grottesca con gli occhi gonfiati dall’impatto ardente. Ha l’aria di serbare qualche sorpresa, come alzarsi di scatto all’improvviso ed esibirsi in una risata demoniaca.
Prendo uno degli scottex destinati ad accogliere la frittura, mi asciugo gli occhi e mi soffio il naso. Mafalda è ipnotizzata dal corpo a terra. «Ma è morta?».
«Non lo so. Tu cosa dici?».
«Non si muove». Comincia a ruotarle attorno guardinga.
«Infatti».
«Non respira, vero, Wilma?».
«Mi sembra di no».
«Come, ti sembra di no? Non hai controllato prima?».
«Vedi tu. Mettile la mano vicino al naso e senti se arriva aria».
«Ma se l’hai uccisa tu, perché devo controllare io?».
«Non l’ho uccisa! Almeno: spero di non averla uccisa. E comunque non l’ho fatto apposta».
«Va bene, uff...». Mafalda si piega un secondo e allunga la mano. «Io non sento niente. Secondo me è morta».
«Perbacco! E adesso cosa facciamo?».
Mafalda si rialza. «Ormai la frittata è fatta. Possiamo solo rubare della roba e nasconderla».
«Come rubare? Non siamo mica delle ladre!».
«No, che non siamo ladre, ma dobbiamo far sparire il corpo e far credere che sia fuggita».
Scrollo la testa energicamente. «Tu sei matta, hai visto troppi film in televisione!».
Lei stende una mano sulla mia spalla. «Senti, Wilma, sei nei guai. Se trovano il cadavere, entro due ore questa casa sarà invasa da omini in tuta bianca che misureranno anche la polvere. Troveranno le tue impronte, i tuoi capelli, tutto li ricondurrà a te. Ci metteranno un battibaleno a incastrarti, fidati: mi son vista tutte le puntate dei RIS. Andrai in pasto a giornali e televisione».
Spalanco gli occhi allarmata. Dei parenti non mi interessa: chi li sente più, quelli? Però che vergogna, se penso ai conoscenti. Cosa penseranno le mie clienti? Nunzia, Corradino, i vicini? Se Romolo mi scoprisse un’assassina, dopo tutti questi anni? Tirerebbe un sospiro di sollievo, a sapermi fuori dalla sua vita: ho fatto bene a lasciarla sola con due figli. E Melania? O Juri, se davvero mi sentisse dalla tomba o mi guardasse da lassù... L’unico al mondo che forse penserebbe: che forte, mia madre. L’ho sempre sottovalutata.
Mafalda prosegue: «Dobbiamo far sparire il cadavere e rubare. Dare a bere che lei sia scappata di sua volontà, portandosi dietro gli effetti. Con questa messinscena, forse, te la caverai. La mettono in pratica in molti, sai? Soprattutto i mariti che fanno fuori le mogli».
«Ma...». Sono sotto shock.
«Nessuno oserà pensare alla candida vecchina del piano di sopra. Facciamo come dico io?».
Non vorrei, ma annuisco. La mia amica recupera dal lavello dei guanti per i piatti, li infila, comincia ad aprire cassetti e ante finché trova dei sacchetti. «Tu stai qui. Buona, non toccare niente» taglia corto.
Piomba nella camera da letto, alza il materasso, scompiglia i comodini, l’armadio, rovista nei tiretti, corre in sala, cerca nella credenza. Io la seguo come un’ombra perplessa. Sembra in trance, catapultata nel paese dei balocchi. Tanta roba, tutta gratis, alla portata delle sue mani, incredibile. Un bazar di oggetti e tesori dei poveri, ficca quello che può nei sacchetti: una cipria, un portacenere a forma di Colosseo, un servizio da sei di bicchieri da spumante – due si romperanno nel trasporto –, la borsa di Carmela – così sarà più plausibile la sua presunta fuga, mi spiega –, una forma di grana padano da un chilo ancora imballata, una confezione di carciofini e una di melanzane ripiene di tonno – quelle prelibatissime che al supermercato costano più di cinque euro –, della carne in freezer, dei sofficini, mezzo salame Golfetta. Prosegue la razzia compulsiva, slitta gli occhi dappertutto, non mi ascolta nemmeno quando le intimo di muoversi, perché potrebbe tornare Bubi da un momento all’altro, lo vedo dalla finestra: è giù in cortile che parla al cellulare. No, quella se ne frega. Scova negli antri, di qua, di là, sotto al tavolo raccatta un pacchetto di sigarette quasi vuoto, sopra al mobile un altro ancora intero: e via nei sacchetti, rimane succube di una frenesia ingorda. È la volta della morta: le toglie le ciabatte, le stacca dal polso l’orologio. Alza lo sguardo e lo fa scorrere sulla collezione di birilli allineati su uno scaffale sopraelevato. Sale su una sedia e li scrolla direttamente su un nuovo sacchetto, cade qualcosa dietro al mobile. Poi si ferma. Alla fine dei birilli campeggia un finto vaso cinese. Dei ghirigori e dei fiori arancio nuotano nell’azzurro, a incorniciare una dama dagli occhi orientali e il kimono blu. Non deve avere un grande valore, ma è proprio questo il punto, l’ossessione di Mafalda per il risparmio le ha sempre impedito di dilettarsi in acquisti futili, quindi ha deciso: vuole quel vaso. Credo sia giunto il momento di intervenire, altrimenti questa non se ne andrà finché non avrà spogliato la casa di ogni paccottiglia. «Basta, Mafalda. Vieni giù, andiamo via».
«Un secondo, tieni il vaso». Sta cominciando a perdere il baricentro, impedita dalla foga e dalle borse stracolme.
«No, lascia perdere...».
«Tieni, ti ho detto!». Me lo allunga, ma senza volerlo ritraggo un secondo le mani e il vaso cade a terra, frantumandosi in otto pezzi.
«Che guaio!».
«Scusa, non l’ho fatto apposta». La mia voce tradisce di nuovo la voglia di piangere. Sono emotivamente instabile, lo so.
«Oh, no! Non metterti a frignare adesso...».
«Ma non sto frignando!» ribatto, e due lacrimoni giù lungo le guance.
«Dai, Wilma, fa lo stesso se si è rotto il vaso. Però smetti di piangere. Per fortuna Nunzia è fuori, speriamo che non abbia sentito...», e mentre scende dalla sedia nota un particolare: «Wilma, guarda un po’...».
Ci abbassiamo verso i cocci: in mezzo sporge un sacchettino nero. Mafalda lo prende, ne versa in mano il contenuto: ne escono diverse banconote da cinquecento euro e quattro manciate di pietruzze chiarissime. Quello che non ci diciamo, lo sigliamo telepaticamente: i diamanti. La rapina alla gioielleria. L’orafo morto ammazzato. Allora sono stati loro a...
Mafalda ha dato prova di doti da stratega: mi ha mandata in cantina a recuperare una valigia e nel frattempo ha riordinato la casa di modo che sembrasse che l’inquilina se ne fosse andata di propria volontà. Impresa ardua quanto impossibile, questa, dato il disordine disseminato: le è valsa la lunga esperienza di casalinga per riassettare.
Sono scesa, ho sbrigato quel che dovevo e sono tornata scalza – mi son tolta le scarpe in cantina, pulsavano troppo i piedi, per lo stritolamento –, o meglio: con dei calzettoni spessi indossati al volo, trafelata e col cuore ancora in subbuglio. Mafalda mi ha imposto di farmi da parte e ha proceduto da sola alle operazioni: il cadavere non aveva ancora raggiunto lo stadio di rigor mortis e, a parte la difficoltà a sollevare una settantina di chili, è stato relativamente semplice piegarle busto e arti per incassarla nel bagaglio.
Nessuno direbbe che c’è un corpo, qui dentro.
Ma cosa stiamo facendo?
«E adesso?» domando.
«Adesso la portiamo su in casa tua».
«Come, in casa mia?».
Mafalda si accosta e mi parla con voce dolce e occhi perentori, dietro le lenti larghe: «Wilma, non abbiamo scelta».
«Piazziamola giù in cantina, piuttosto».
«Non possiamo. Se rientrasse Nunzia? Abbiamo più possibilità di scamparla se lo portiamo su da te».
«Ma roba da matti! Devo tenermi un cadavere in casa?».
«Non per molto. Stanotte ce ne sbarazzeremo. Ora fa’ quello che ti dico, sono la più lucida in questo momento. Alla padella penserò io, la butterò in un pattume lontano». Mi contraggo in una smorfia poco convinta, Mafalda afferra i sacchetti col malloppo e me li tende. «Prendi, tu porta su questi, poi torna giù ad aiutarmi: la tipa era un torello, c’è bisogno di quattro braccia per sollevarla per le rampe. Io intanto la trascino fino alle scale».
Mentre svolgo il compito affidatomi mio malgrado, mi domando come faccia la mia amica a mostrare tanta perizia in una faccenda così torbida.
Perché si è subito schierata come mia complice?
Avidità, semplicemente. Il richiamo della roba è stato più potente di qualsiasi altra remora.
Possibile che rischi la galera solo per il desiderio di possesso?
Eccome se è possibile.
Celere per quanto me lo possa consentire l’affanno, svolgo i miei compiti con lo stato d’animo di chi ha momentaneamente dimenticato la coscienza sul comodino. Salgo, apro, depongo. Non so nemmeno come faccio a ritrovarmi al terzo scalino del secondo piano, una mano sulle maniglie del borsone, l’altra sopra a convalidare la presa, Mafalda sotto a sollevare il peso. Barcolliamo, spintono la spalla contro la ringhiera di ferro e mi becco qualche ammonimento: «Dai, su, non così, più veloce, non riesci a seguire il mio ritmo?». Quando approdiamo alla fine della prima rampa, laddove la scala si volta bruscamente, sentiamo, sotto, aprirsi il portone del palazzo. Subito dopo, da come parla platealmente al cellulare, capiamo che è appena entrato Bubi.
Mamma mia.
Resto di sasso.
Sbarro gli occhi in quelli di Mafalda, nel frattempo il ragazzotto comincia a salire. Dall’alto vedo la sua mano aggrapparsi alla ringhiera. Mafalda si rivolge sottovoce a me con un imperativo brusco: «Continua a salire!».
Nel momento in cui svoltiamo nell’ultima rampa, quella alla fine della quale ci attende il mio pianerottolo – speriamo che la porta del dirimpettaio non si apra –, Bubi è quasi giunto al secondo piano e non ci avvista per un pelo. Lui entra in casa che noi arranchiamo ancora sulle scale, goffe nei movimenti ma silenziose, con i muscoli del viso tesi e il cuore appesantito. Arriviamo sudate fradice, una volta superato l’ultimo scalino Mafalda mi mette da parte e trascina in casa il fardello.
Solamente chiuse dentro a chiave – tentando di girare nella toppa il più silenziosamente possibile – ci sentiamo al sicuro. Quasi.
Schiena al muro, occhi chiusi, tentiamo di respirare a pieni polmoni e per due minuti ci ignoriamo a vicenda, per riappropriarci delle rispettive energie.
Siamo nei pasticci.
«Che facciamo, adesso?» domando appena recupero un battito regolare.
«Io devo scappare da Giorgio».
Sposto la schiena dalla parete all’uscio, braccia e mani aperte come a impedirle il passaggio. «No, no, no. Tu non mi molli qui sola con quel...». Abbasso gli occhi indicando con la mano in basso. «...con quel cadavere!».
«Devo andare a controllare mio marito, Wilma, l’ho lasciato seduto sulla poltrona, almeno fammelo mettere a letto».
«Non voglio restare sola qui». Mi accorgo che mi è uscito di nuovo un tono piagnucoloso.
«Torno presto, te lo prometto. Farò mangiare Giorgio e tornerò. Staremo assieme fino a notte fonda, quando porteremo via la salma».
«Ma non posso venire a casa tua? Ho paura a stare qui...».
Mafalda apre la bocca, come per un assenso troncato. Vorrebbe accontentarmi, ma non può. Se mi facesse salire in casa sarei un intralcio, una spettatrice inutile al rito della fasciatura: come suo marito viene imbottito di calmanti, sbendato e rigirato e di nuovo impacchettato perché se ne stia bello fermo sino al suo ritorno. No, queste sono cose che non si fanno vedere.