Mafalda attraversa di nuovo il patio antistante il giardino e si ferma volutamente davanti a Nunzia e Corradino. Si sforza di allentare i muscoli del viso.
«Allora, cos’aveva Wilma?».
«Niente, le era solo venuto uno dei suoi momenti di tristezza...».
Nunzia annuisce dispiaciuta. Certo che li conosce quei momenti. Sono pesantissimi e a nulla valgono gli antidepressivi, non alleggeriscono il tempo triste di questa sultana, intriso di ricordi spiacevoli. Un uomo che aveva scelto di emarginarla dai suoi progetti, nonostante la prole, e l’abbandono le era sempre pesato come un’onta, incluso l’abbonamento eterno alla domanda: ma allora io non valevo abbastanza? Poi è la volta di Juri, e quando – nella disamina delle sofferenze – giunge al pomeriggio del funerale, il suo cuore di mamma si squarcia in lacrime che si trasformano in muggiti angosciosi se si tocca l’argomento Melania. Il filo spinato della loro relazione è una logica che va al di là dell’affetto, della buona volontà, della parentela. Quando le arrivano quelli che le amiche chiamano “i suoi momenti”, Wilma diventa inconsolabile, i singhiozzi si alzano in lamento al cielo, tragedia greca senza coro.
«L’hai lasciata così?» s’informa Nunzia.
«Ma no, cosa dici? Ho aspettato che le passasse, per questo sono stata in salotto con lei tutto questo tempo». Rimarca sulla parola salotto, si sta creando un alibi.
Corradino riconosce vagamente questi discorsi. Nella sua semplicità, afferra che Wilma è giù di morale. Le donne vivono delle loro liturgie, cui lui si sente estraneo. Queste amiche, poi, sono belle strane. Ligie alla frenesia di onorare la bisca del sabato sera – bisca da scala quaranta, il poker è concesso solo nelle grandi feste comandate – sono solite parlottare, condividere affanni e segreti di cucina, spettegolare sull’isolato. S’intendono con un’occhiata e alla loro età non hanno perso ancora il vizio delle sigarette. Ma non l’hanno sentito, in tv, che il fumo accorcia la vita di dieci anni? Nunzia, almeno, ne accende una solo quando si incontra con le amiche, ma Wilma e Mafalda ci danno sotto come delle turche. Ecco, infatti, che Mafalda si mette in bocca la sua MS e inspira il primo tiro. Per fortuna gli altri due attaccano a parlare di giardinaggio e la vecchia può isolarsi nelle sensazioni impagabili provate prima. Quando si era avventata sui sacchetti e li aveva svuotati a terra con delicatezza, per evitare che i brillanti si disperdessero sulle mattonelle.
Trecentomila euro, avevano detto al telegiornale.
Meraviglia.
Aveva srotolato il malloppone di banconote e si era messa a contarle come una spiritata.
Duecentomila euro, quattrocento pezzi da cinquecento. Più altri centomila, il valore dei diamanti. Aveva ricontato cinque volte i soldi, poi li aveva divisi in due mazzetti uguali e ne aveva passato uno all’amica: «Ci farai quello che vorrai».
Wilma non se l’era fatto ripetere e aveva allungato la mano, sapeva bene come investirli, era da anni che metteva da parte i soldi con parsimonia per realizzare il suo progetto.
Mafalda si era messa a racimolare i diamantini in un mucchietto e li aveva sollevati uno per uno tra indice e pollice, quasi fossero polvere. Gli occhi le sfavillavano come stelle irrequiete. Aveva separato con impegno due gruppetti, poi li aveva raccolti: «Tieni, Wilma, questo è tuo. Cinquantamila euro di diamanti per una, i tuoi sono trentanove, come i miei». Mafalda aveva omesso il particolare che, nella sua piccola catasta, aveva radunato i diamanti più grossi. Ma figurarsi se Wilma ci faceva caso.
«La roba usata di Carmela non la voglio».
«La tengo io. Però custodiamola qui da te, per ora: non possiamo dare nell’occhio, la porto a casa la prossima volta».
Mafalda, questa sultana avidissima improvvisata ladra, torna col pensiero ai momenti fatati in cui si trastullava tra le mani i preziosi e le sembra di aver compiuto – per la prima volta, dopo una vita di privazioni e di conteggi – un’effimera, felice incursione sull’Olimpo. Ogni infrazione valeva la candela. Saluta gli altri e s’incammina beata dal suo Giorgio con i sensi di colpa cacciati sotto ai piedi. Si è perfino dimenticata delle insinuazioni irritanti perpetrate dal figlio Ugo, ora vola su per le scale sostenuta dalle ali gratificanti del senso del possesso, ali enormi che spaziano da muro a muro, la sollevano, lei si gira, non le vede ma si sente levitare. Ecco cos’è la felicità. Volare su per le scale stringendo in mano due shopper pieni di cianfrusaglie sottratte a un morto.
Ora che accede a casa col sorriso, una carezza sul testone quasi pelato di Giorgio non gliela leva nessuno. Lui è ancora seduto sulla poltrona, fissato – come sempre – dalle bende. Lei lo stringe sotto il braccio e gli schiocca un bacione in fronte. Poi gli prende le guance tra le mani e gli dirige la faccia in su, come se volesse studiarlo negli occhi – ma lo sguardo di lui è diluito in acque limacciose, irraggiungibili –, si avvicina naso a naso e gli promette: «Non ti farò più mangiare uova».
Corradino deve tornare a casa, si preparerà per andare in piazza dell’Unità a ritirare la ricetta delle medicine per i genitori, sperando che questa volta il dottore non si sia dimenticato, come già accaduto. Qualcosa muta nel cielo, uno scambio di nuvole, un accoppiamento di baleni e coltri bigie. L’uomo si copre gli occhi: sono le tre del pomeriggio, ma l’autunno sembra si sia sprangato su se stesso in un grigio accecante.
Sempre con la mano sulla fronte, Corradino saluta Nunzia e si avvia al suo portone.
La donna è seduta a circa nove metri di distanza dal palazzo e ha di fronte il suo balcone, poi, procedendo verso l’alto, quello di Carmela e quello di Wilma. Ogni tanto ci dirige l’occhio, ma tenendolo strizzato, perché quella lucentezza del cielo le fa quasi girar la testa.
Si volta a destra e a sinistra, se mai passasse qualcuno da osservare.
Niente.
Le arriva, invece, dal secondo piano, un verso urlato, una specie di uè. Alza gli occhi quasi istantaneamente e vede affacciato Bubi, che tutto a un tratto non sembra più snobbarla – prima, con la scusa che era al cellulare, nemmeno li aveva salutati. «Uè» ripete «...hai visto scendere Carmela?».
Nunzia resta un momento spaesata. È la prima volta che lui le si rivolge così, omaggiandola con uno sguardo e con un’interlocuzione diretti, è colpa dello stupore se lei impiega qualche secondo a rispondergli: «No... non mi sembra».
«Non è in casa. Sono uscito che stava cucinando, ora non c’è più, manca la sua roba, tranne il cellulare, che è ancora qui... sembra che sia uscita all’improvviso... non hai visto proprio nessuno?».
Mentre Nunzia nota che il ragazzo è passato dall’ignorarla completamente al tu confidenziale, lui si sporge dal balcone e vaga con lo sguardo, dall’alto. Nunzia percepisce un non so che di sconsolato nei gesti di lui, da brava cattolica si sente in dovere di sovvenire in suo aiuto e non pensa che la gente affina le proprie doti di gentilezza, quando ha bisogno di qualcosa. Ma non sa che Bubi è così allarmato perché, quando non ha visto la sua bella – si fa per dire –, la prima cosa che ha controllato è stata il vaso cinese con la refurtiva. E ovviamente non l’ha trovato. La sua preoccupazione non è che lei sia uscita di casa senza preavviso, ma che sia sparita con i soldi e con i diamanti, quella baldracca.
«Non può essersi volatilizzata». Lui ha la voce nasale di chi è stato sott’acqua con la maschera.
«Potrebbe essere passata dal retro...».
Bubi si gira di scatto, poi sparisce. Nunzia immagina – e immagina bene – che sia corso alla finestra della parete opposta del palazzo, quella che dà sul garage. Quando la testa di lui rispunta dal balcone, i muscoli mascellari sono visibilmente contratti. «Senti, non è che è passata e ti ha chiesto di non dirmi niente?».
«Ma no, ma no... c’era anche Corradino qui con me, perché non...».
Lui la interrompe: «Chi è Corradino?».
«Il signore che è spesso fuori con me, che abita qui al...».
«Dove abita?».
«Al sette terzo».
La testa di Bubi si ritrae con mossa nevrotica e dopo sei secondi eccolo fuori dal palazzo.
«Come fa di cognome quello lì?».
«Corradino?».
«Sì, quello che era giù prima, come si chiama?».
«Corrado Rossi».
Il ragazzo sparisce nel portone del condominio di Corradino, il sette terzo.
Nunzia non si capacita di come i giovani d’oggi siano impazienti. Vogliono tutto e subito. Ai suoi tempi non era così, no. I traguardi si raggiungevano col sangue e col sudore, senza pretendere di bruciare le tappe, e i successi si assaporavano con soddisfazione, asciugandosi le tempie e ringraziando Iddio della fatica. Vorrebbe tornare a casa, ma la curiosità per l’epilogo della telenovela di Bubi la mantiene inchiodata alla panchina. In più, una comparsa improvvisa la fa scattare in piedi.
Su via Damasco sta circolando a passo d’uomo un carro funebre senza seguito. Trasporta una bara, forse è vuota, forse no. A Nunzia non interessa, il suo rapporto con la superstizione è irreligioso e repentino, fuorviante, perfino eretico – alla faccia della parvenza ortodossa. Si rizza come se il passaggio del carro funebre le avesse provocato uno spostamento d’aria. Poi indietreggia, viso terrorizzato, la mano infilata tra i seni, a stringere il cornino e il cammeo con la madonnina, quindi, sempre camminando come un gambero, s’infila nel suo portone e solo quando si serra dentro si sente un po’ più protetta.