Wilma

C’è un cadavere in casa mia.

L’ingombro tocca leggermente una sedia del tavolo. Conto i minuti e mi sforzo di non guardarlo, quasi al centro del salotto.

L’ho uccisa io, la ragazza.

Per tenere le distanze mi sposto nel cucinotto – adiacente alla sala, senza una parete divisoria. Mi sento disidratata, apro il frigo e verso in un bicchiere un po’ d’acqua. Bevo di gusto, tutto d’un fiato, poi riempio di nuovo il bicchiere e lo tengo in mano qualche secondo prima di ingollarne il contenuto. Osservo la stanza, la credenza marrone chiaro, l’anta di destra è scavata, è stata Melania a incidervi sopra un teschio, in uno dei suoi momenti di ribellione. Nel ripiano aperto vi è il cesto del pane – coperto da uno strofinaccio color limone, macchiato di fragole e, di fianco, il portacenere verdone. Sopra, il pacchetto delle mie Multifilter.

Una sigaretta, subito.

Mentre l’accendo, mi sfugge l’occhio sulla valigia.

Mi scappa la pipì, ma non vado in bagno. Meglio controllarlo, il cadavere, senza fissarlo troppo con lo sguardo, che devio sul divano: pelle un tempo marrone vivo, ora spento, nelle zone più basse è stato rovinato dai graffi del gatto di Juri – è morto sei mesi dopo di lui, subito dopo l’intervento di sterilizzazione. Melania era contraria, ma io non ce la facevo più con tutto quel pelo per la casa e quei miagolii inconsolabili. Cercavo di convincere mia figlia.

«Lo sterilizziamo, cara?».

«No. Fallo uscire che gli fa bene».

«Non vuoi che gli faccia l’intervento, ma vuoi che finisca sotto una macchina?».

«Perché deve finire sotto una macchina?».

«Perché siamo in città e in città quasi tutti i gatti di appartamento, una volta fuori, finiscono sotto una macchina». Mi ero decisa a procedere di nascosto, senza più inseguire la chimera di convincerla. Un pomeriggio lo avevo infilato a tradimento nel gabbiotto e l’avevo caricato in auto. Non l’avessi mai fatto. Dannato gatto. Una mia cliente di Crevalcore mi aveva promesso che suo figlio veterinario l’avrebbe operato gratis e con particolare cura. Era stata la garanzia di quella particolare cura a convincermi, non avevo percorso tutta quella strada per risparmiare i soldi di un veterinario a Bologna, s’intende. Il micio in effetti era stato trattato con tutti i riguardi. Riposto sul sedile della vettura che era ancora mezzo addormentato, aveva tenuto botta due orette, giusto il tempo di tornare a casa, prendersi qualche coccola da Melania, inferocita per il mio inganno, e chiudere gli occhi per sempre, per portarsi nella tomba i miei sensi di colpa. Mannaggia, Juri, pure il tuo gatto se n’era andato.

Mia figlia l’aveva sotterrato in giardino il giorno dopo, una buca di un metro, insieme al collarino antipulci e alla ciotola. Lì ci avevo poi piantato un roseto che non era mai sbocciato.

Per quante settimane non mi aveva parlato, Melania? So benissimo che non è stato quell’episodio a far degenerare le nostre incomprensioni. Dove ci eravamo giocate tutte le fiches del nostro rapporto?

Cosa ho combinato?

Come il destino mi ha privato di Juri, così io ho strappato a un’altra madre sua figlia. Carmela.

Mi rendo conto che sto piangendo e scuotendo compulsivamente la testa.

È orribile.

I diamanti... Mi serviranno. Mi permetteranno di concretizzare il piano che inseguo da tempo e che non ho mai rivelato a nessuno. Non ho la fissazione di risparmiare per il futuro, sì, magari potrei custodire in banca, per le emergenze, almeno diecimila euro, ne resterebbero parecchi e potrei regalare un bel gruzzoletto a Melania.

Se chiamassi Melania e le chiedessi di venire a trovarmi e le facessi un bel discorso: cambiamo le cose tra noi, ricominciamo, smettila con quella vita, ora ho dei soldi e voglio aiutarti. Cosa vuoi fare, aprire un’agenzia di grafica? Te la pago. Molla la setta, cerchiamo di andare d’accordo, salviamo questi anni che ci restano. Torna dalla tua mamma.

Quando arriva Mafalda?

Ormai è passata più di un’ora, sono stanca dei brutti pensieri. Sto cedendo alla tentazione di sollecitarla con una telefonata, quando qualcuno bussa alla porta. Piombo con prepotenza nella realtà.

«Wilma, mi apri?».

«Chi è?».

«Come, chi è? Sono Nunzia!».

Mi sostengo al tavolo con la mano e non rispondo.

«Wilma: tutto a posto?».

«Sì, tutto a posto».

«Non ci credo, fammi entrare. Hai una voce troppo strana».

Che devo fare? Non è plausibile che io non le apra: non è mai successo. Del resto a una come Nunzia non sfuggirebbe certo la valigia. Devo sbrigarmi a trovare una soluzione. L’unica accettabile è trascinare il corpo di là nel modo più silenzioso possibile.

«Non mi sembri molto a posto, Wilma: che succede?» domanda Nunzia fissandomi impietosita e accorgendosi che ho pianto. «Stai bene?».

«Sì...».

«Amica mia, lo sai che la vita è una valle di lacrime, per questo l’unica vera consolazione è lassù», e alza lo sguardo al soffitto.

In un’altra circostanza questa risposta mi avrebbe fatta andare su tutte le furie. Non che io sia atea, no, però Nunzia sa benissimo che me ne frego delle consolazioni dell’aldilà. I preti mi scoraggiano, anche da lontano. Un po’ di spirito religioso mi è rimasto come retaggio di tradizioni e superstizioni contadine, ma niente di più.

E, a proposito di superstizioni, se Nunzia sapesse che nemmeno a tre metri dai suoi piedi è infagottata in un pacco la salma della sua ex vicina di casa, senza dubbio uno scatto la inchioderebbe con le spalle al muro. Se la farebbe sotto, la fifona.

Sono l’unica che, nei momenti di confidenza con le mie amiche – davanti a una spianata di sfoglia e macinato scelto con mortadella e noce moscata, quando ci affaccendiamo a fare i tortellini assieme – mi lamento della vita e di mia figlia. Mafalda le sue beghe se le tiene per sé e Nunzia crede di non avere niente di cui lamentarsi. Fatto sta che Melania è uno degli argomenti privilegiati, forse è per questo che Nunzia vi batte sopra: «Hai sentito tua figlia?».

«No».

«Wilma...». Sposta una sedia per accomodarvi la sua mole. «...quella è una disgrazia, ma tu la devi sopportare. Lo so che è dura, o meglio: lo immagino. Però...».

Quel “lo immagino” sottintende un presupposto che mi dà ai nervi. Perché la mia cara amica precisa, tra le righe, che può solo immaginare il mio problema, visto che con lei l’Imperscrutabile è stato molto più clemente, avendole assegnato una figlia modello, affettuosa, la figlia che ogni madre desidererebbe. In realtà non ho dubbi su Melania, l’amore che nutro nei suoi confronti è violento e lacerato, insidioso e, per questo, irreversibile. Anzi, forse se mia figlia fosse più normale, penserei a lei con meno intensità.

«No, perché dico... ma come fa, tua figlia, a stare con quei satanisti?».

«Ci è finita, suo malgrado. Quelli sono degli squinternati senza arte né parte che hanno rispolverato delle dottrine per darsi delle arie. Se gli vai a chiedere un po’ di storia, restano a bocca aperta».

«Sì, ma... come ci è finita?».

«Non ci è finita, ci si è trovata dentro».

«Sarà. Wilma, stasera la facciamo una partitina?».

Sono sufficienti due secondi di esitazione, che suona provvidenzialmente il telefono.

È Betta.

«Ciao Wilma, devo raccontarti subito cos’è successo...». Oddio, se la mia amica sapesse che sua figlia chiama me e non lei, per confidarsi... Alzo la mano in direzione di Nunzia, come per chiederle di aspettare, e mi ritiro nella camera adibita a magazzino, proprio di fianco al cadavere. Betta parte: «È successa una cosa... io... io... sto morendo dalla rabbia, vorrei urlare, buttare all’aria tutte le scartoffie!».

«Sei al lavoro?» sussurro con voce bassissima.

«Sì, sono qui in ufficio. Be’, sai cos’ho scoperto? Quel figlio di una buona donna del mio capo...».

«Il tuo...?».

«Sì, proprio lui, l’uomo che mi aveva promesso di lasciare la moglie in un tempo imprecisato, ecco, stamattina parlavo con la tizia nuova dell’ufficio estero, quella assunta l’anno scorso, insomma... sai cosa ho scoperto?».

«Cosa?».

«Che se la fa anche con lei, e la loro storia va avanti da sei mesi, capisci? Quel brutto ipocrita di uno stronzo».

«Betta, mi dispiace tanto. Proprio tanto. Ci risentiamo dopo? Adesso non posso stare al telefono, c’è la tua mamma di là, se ci scopre ci rimane male».

«Va bene...Wilma, sono tanto giù...».

«Non preoccuparti, piccola, queste cose è meglio che saltino fuori presto. Pensa che guaio se lui si fosse messo davvero con te e tu avessi scoperto la tresca dopo. Adesso sai che pasta di uomo è. Sei giovane e hai tutto il tempo che ti serve per costruirti davvero una vita. Ora devo andare, scusami, ci sentiamo tra poco».

Chiudo la comunicazione e torno in salotto. «Nunzia, scusami, ho tante cose da fare, devo mandarti via...», e la incammino verso l’uscio.

«Sì sì, vado... ma non mi hai risposto: allora giochiamo, stasera?».

Non so che dire, accidenti. Ho affidato a Mafalda l’organizzazione delle nostre malefatte, non ho idea di cosa abbia deciso, tanto più che il suo ritardo si fa inquietante. Un dubbio improvviso mi trafigge: e se avesse deciso di denunciarmi alla polizia?