Wilma

«Cavoli, quanto ci hai messo?». Lo so che la sto aggredendo, ma ho un diavolo per capello. Ho trascorso il pomeriggio avanti e indietro per le stanze. Se non l’ho reclamata al telefono, è stato solo perché il buonsenso mi ha fatto temere per le intercettazioni. In realtà non ho nemmeno un’idea precisa di come funzionino, comunque sia credo che sia saggio evitare di parlare al telefono.

Sono stata anche tentata di scendere a citofonarle, ma non mi sono azzardata a lasciare il cadavere – e soprattutto i diamanti – soli in casa. Il tempo è trascorso tra il nervosismo e l’esitazione, non vedevo l’ora di sputare addosso a Mafalda il mio malanimo: «Sono le sette, accidenti! Mi hai lasciato sola tutte queste ore col corpo...».

«Mi dispiace, non ho potuto fare altrimenti».

Bisticciamo in piedi, una di fronte all’altra, di fianco al tavolo della sala.

«Ma non potevi venire prima?».

«Non ce l’ho fatta».

«Sei senza criterio, è salita anche Nunzia a chiedere di stasera e non sapevo cosa risponderle...». Vorrei aggiungere una parolaccia, ma non ne sono capace.

«Scusami se ho un marito con l’Alzheimer da accudire».

Mi sale il pianto, per trattenermi fingo di adattare una pera al cesto di frutta al centro del tavolo.

«Dai, Wilma, stanotte dobbiamo lavorare».

«Dobbiamo risolvere un problema urgente: Nunzia si aspetta che stasera giochiamo con lei. Cosa le dico?».

«Le dici di sì, non dobbiamo stravolgere le nostre abitudini. Giocheremo qui da te, così la teniamo sott’occhio...», e butta un’occhiata in giro, in cerca della salma.

«Dov’è Carmela?».

«Di là. Mafalda, io sto troppo male».

Mafalda assume l’aria di un docente di criminologia. «Rilassati. Pensaci: se anche il tizio denunciasse subito la scomparsa e venisse qui la polizia: chi mai potrebbe sospettare di due inoffensive vecchiette che trascorrono il sabato sera insieme per svagarsi a scala quaranta?».

Mi avvicino al davanzale quasi convinta, a quell’ora in cortile si attardano un tunisino di ritorno dal lavoro e la badante di un marchigiano del sette decimo, che sta staccando da una giornata intera.

Poi torno indietro. «Bubi è già andato dalla polizia?».

«Prima ho sentito Nunzia che raccontava che lui la cercava come un pazzo. Sia lei che Corradino gli hanno consigliato di aspettare. Ovviamente io ho fatto finta di niente, ma...».

«Ma cosa?».

«Nunzia non sa che lui era così fuori di sé per la storia dei soldi. Nunzia non può immaginare che le hanno camminato in testa dei rapinatori...». Solleva le sopracciglia mentre parla. «...e quindi non può nemmeno immaginare che lui sia tanto in pena per i diamanti, mica per la dolce metà. Seee... Dolce un corno. Indisponente».

«Maleducata».

«Senza vergogna. Non dico che le sta bene, a Carmela, ma...».

«Ma in qualche modo se l’è voluta».

«Appunto».

«E poi io mica l’ho fatto apposta».

La mia amica mi dà una pacca sulle spalle. «Certo. Cosa credi, che non lo sappia? Stai tranquilla, la passeremo liscia. Dobbiamo solo agire con la massima prudenza».

Mi siedo e faccio cenno a Mafalda di imitarmi, poi avvicino l’accendino alla sigaretta. «Cosa vuol dire agire con la massima prudenza?».

«Primo: non parlarne con nessuno. Secondo: continuare la nostra vita come se niente fosse. Presto o tardi arriverà la polizia, e allora mi raccomando: non far trapelare niente. Niente! Notano tutto, loro: timbro di voce, sguardo. Cosa credi? Verranno i RIS e metteranno sottosopra il palazzo. Mica sono gli ultimi arrivati, loro: sono specializzati».

Sento svolazzare le farfalle nella pancia, Mafalda indica il pacchetto di sigarette. «Posso?».

«Prendi pure».

«Terzo: dobbiamo far sparire la refurtiva. I diamanti... dobbiamo trovare qualcuno a cui rivenderli, tu non hai qualche cliente gioielliere?», e si accende la sigaretta gustandosela molto più che se fosse sua. Almeno venti centesimi risparmiati.

«Certo che sì, conosco un orafo. E poi la moglie di un gioielliere è una mia carissima cliente...».

«Perfetto. Però dobbiamo aspettare che si calmino le acque e che la gente si dimentichi dei diamanti. I soldi sono puliti e li possiamo spendere, ma con discrezione».

Ci guardiamo negli occhi come due gangster che abbiano siglato l’ennesimo delitto. La serietà del discorso ci fa assumere toni da professioniste, ora quello di Mafalda si è leggermente indurito. Come se la sapesse lunga sui riciclaggi, corre a ruota libera concedendosi il suo quarto d’ora di gloria, oggi è lei l’esperta: «I gioielli, invece... pensiamo a un nascondiglio sicuro dove tenerli per qualche mese. Chiaro?».

«Sì, non devo parlare con nessuno e non devo usare i soldi».

«Puoi usarli, ma con discrezione, non tutti in un botto».

«Sì».

«Questo caso passerà in fretta, verrà Chi l’ha visto?, trasmetteranno qualche servizietto negli altri canali tv, poi non se ne parlerà più e noi ci godremo la pacchia», e dà un tiro da dark lady alla sigaretta.

«Va bene, Mafalda: ho capito tutto. Mi sfugge solo una cosa. Il cadavere. Cosa ne vuoi fare?».

«Dobbiamo sbarazzarcene».

Scanso il fumo che è rimasto come una nuvoletta tra noi.

«Sì, ma: come?».

Socchiude gli occhi, sguardo da faccendiere. «Ho pensato anche a questo».

Se mi avessero detto quello che sarebbe successo, giuro che non ci avrei mai creduto.

È tutto così assurdo e surreale.

L’omicidio di Carmela, l’arma del delitto – una padella –, gli imprevisti, le mie scarpine da Cenerentola tarate male.

Ma soprattutto non avrei creduto al sangue freddo di Mafalda.

Se indossasse una maschera, Mafalda potrebbe ingannare sul sesso: è alta, le braccia raggrinzite si alzano e abbassano decise, la mannaia scende energica sulle ossa con un movimento che ha visto fare migliaia di volte quando, ai bei tempi, veniva in macelleria a trovare suo marito. Che fortuna che le siano rimaste le chiavi.

Carmela viene dissanguata e sventrata nella vasca, i pezzi disposti sul banco da lavoro: fegato, milza, polmoni, reni. Lo smembramento e la successiva riduzione sono avvenuti in tempi relativamente veloci, un’ora e mezzo: il coltello che il marito chiamava scannino ha permesso alla mia amica di disarticolare in un battibaleno i legamenti.

Mafalda contempla il primo risultato e io con lei. In fondo non c’è poi tanta differenza tra un uomo e un suino: entrambi, una volta squartati, puzzano di sangue e intestino, entrambi sono composti da lombi, cotica, pancetta – Carmela ne ha offerta parecchia –, carni tenere che si sciolgono sotto il coltello, ma anche ossa dure profanate solo da lame poderose.

Ripenso alla partita di qualche ora prima, con Nunzia che sollecitava alla conversazione e io che non riuscivo a farmi coinvolgere, fingevo di stare male per giustificare il mutismo.

Avrà fiutato qualcosa? Mafalda se l’era cavata meglio, era perfino riuscita a scherzare.

Ho ucciso una persona.

La colpa risuona nella mia testa, lugubre come una marcia funebre.

Perché l’ho fatto?

Carmela era il trionfo dell’inciviltà. Muso imbronciato, occhi impietosi che urlavano menefreghismo. Così scostante che, quando le parlavi, la tua cortesia strideva con la sua arroganza e quasi quasi ti veniva da chiederle scusa per la tua educazione.

Ma perché sono arrivata a tanto?

Continuo a struggermi dando le spalle a Mafalda, che è intenta a operazioni troppo delicate per accorgersi di me: afferra dei ritagli di carne e li inserisce nella macchina per macinare. Poi la chiude, la aziona e parte un fruscio simile al rumore di un alveare.

Io non sono un’assassina, com’è successo che ho perso il controllo?

Ripenso alle scene del delitto. La furia con cui scagliavo le padellate. Io, proprio io, che non sono mai riuscita nemmeno a dare una sculacciata a mia figlia, quando da piccola mi esauriva con la sua cocciutaggine.

Ho sbagliato tutto.

Tutto.

Comincio a versar lacrime silenziosamente, Mafalda non se ne accorge, per fortuna, e posso struggermi in pace. Non si tratta solo di pentimento. Si addensa un senso di disfatta, dentro. Un ribollire di solidi principi guastati, insieme alla nausea brutale per come va il mondo, per come un incidente improvviso possa capovolgere tutto, mandando a ramengo le buone condotte.

Io ho le mie colpe, non voglio tirarmi indietro. Però anche Carmela... mi ha tirata per le maniche, mi ha tirata. Perché la gente non capisce? Perché la gente ignora che questo mondo è una valle di lacrime e passa il tempo a spintonarsi e calpestarsi, rendendo la fanghiglia ancora più sporca di quanto già sia? Perché non la smettiamo di vivere come se fossimo tutti eterni, invincibili, e la guerra – tra pesci grandi e pesci piccoli – fosse un piacevole passatempo? Che tanto un giorno finirà, la ruota gira per tutti, le malattie arrivano, prima o poi, il tempo passa, chiudi gli occhi, li riapri e sei già sul letto di morte. Invece no, la gente simula superpotenza. Le basta poco per crederci davvero – qualche soldo, qualche conferma, qualche seduzione – e l’illusione è bella e servita. Ecco la più grossolana farsa dell’uomo: che il sempre gli appartenga.

Le ore trascorrono lentissime tra l’impegno disumano di Mafalda e le mie lacrime. Me le sono già asciugate da un pezzo quando la mia socia, dopo essersi passata il gomito in viso per pulirsi gli schizzi di sangue, domanda: «Qualche tua cliente ha i maiali?».

«Prisco ha i maiali». È un contadino da cui porto ogni tanto le mie amiche, per una bella scampagnata.

«Prisco, è vero. Potremmo usare i suoi...».

«Per cosa?».

«Non lo sai che i maiali mangiano di tutto?».

«Quindi?».

«Quindi la vedi questa poltiglia?». Brandisce un sacchetto colmo di un composto rosa scuro. «Qui c’è un potpourri della miss. Col suo cervello, i nervi, le unghie, i capelli, le ossa, l’intestino, e insomma, l’intero quinto quarto...».

«Quinto quarto?».

«Sì, le frattaglie: gli arti più il resto. Vedrai che festa ci faranno i maiali con questo quinto quarto, la parte più scadente. Quella più buona, invece, l’abbiamo macinata».

Vorrei morire.

Stringo le labbra per bloccare nuove lacrime, mentre annuisco con la testa. Non ha senso mettersi a discutere ora. Mi concentro per assecondarla e non piangere, ma è lei, ormai, a gestire la situazione. «Wilma, io non ce la faccio più, ho un gran male alle mani. Vieni qui e aiutami a fare gli hamburger».