Le Sultane

La notte è lunga per chi soffre d’insonnia, le pareti ripetono ombre monotone, Nunzia le conta e il tempo presente delle Sultane crea distorsioni ottiche. Le conosce, quelle ombre, perché ormai ci ha fatto il callo: si alza verso le due, attraversa il corridoio e il lungo lampadario ad anfora proietta sul muro un fuso obliquo. Si trascina in cucina, razzia il frigorifero – rimasugli della sera precedente, una confezione di stracchino, un po’ di maionese spremuta direttamente in bocca, anche se lo sa: non potrebbe, il suo diabete... eppure il divieto non è mai stato un deterrente sufficiente, semmai ha sortito l’effetto di invogliarla –, il cibo è riempitivo arcaico, sostituisce gli uomini che non le hanno mai stretto i fianchi con passione. Ingurgita in maniera meccanica e la mattina fingerà di essersi dimenticata dei suoi incontri clandestini con le vivande.

Il vizio di svegliarsi nel cuore della notte è da imputarsi a Casimiro, ai tempi in cui – già vecchiotto – usciva tutte le sere, e non per andare a donne. Tornava ubriaco marcio, spesso mandava in frantumi pezzi d’arredamento. Così Nunzia aveva dovuto dire addio alla cornice di maiolica, a un putto di Murano, a diversi quadri, a molte delle statuine e delle miniature che costituivano l’oggettistica kitsch da lei collezionata. Chiunque andasse in gita e volesse farle un presentino gradito, doveva portarle una di quelle pacchianerie: un nevicattolo o un piccolo monumento l’avrebbe resa contenta.

Si abbandona alla poltrona – ne ha una ergonomica con massaggiatore incorporato, è una libidine digerire lì sopra le schifezze ingozzate e, se chiude gli occhi un istante, può sempre immaginare che siano mani grosse e calde, quelle che premono sulla schiena. Quasi stesa sulla poltrona, la parte inferiore rialzata di modo che riesca a tener dritte le gambe e a permettere un’ottimizzazione della circolazione, occhi chiusi, mani aperte sulla sua pancia piena, Nunzia si abbandona ai massaggi artificiali. Pensa che domani sarà domenica, i cannelloni sono belli e pronti, traboccano di prosciutto e mozzarella, pregusta la cremosità della besciamella – tutti alimenti proibiti dal dottore –, li farà cuocere finché si indorerà la calotta superiore, magari con qualche punta di bruciacchiato. Poi pensa all’arrosto, lo deve infornare presto, al massimo alle nove, perché cuocia a fuoco lento quasi tre ore, e dopo lei deve scappare a messa, non può certo affidare a quel citrullo di suo fratello i preparativi per il pranzo. Quello non sa nemmeno apparecchiare. Forse è stata anche colpa sua, che l’ha abituato a non alzare un dito per le faccende.

Nunzia sfoglia il libro dei pensieri bramando qualcosa di piacevole. Il dolce. Per domani ha in mente di preparare una Saint Honoré. È veleno per la sua malattia. Ma che importa? Ha fatto un patto con la vita e con l’etica cristiana: si accontenta di una sopravvivenza dignitosa. Ha piegato la testa, ha accettato tante rinunce ma non quelle della gola, andrà preparata davanti al Padre Eterno. Non esiste che venga negato il paradiso per un po’ di panna montata. È così persa nelle sue mistificazioni gastronomiche che il rumore di qualcosa che si rompe, al piano di sopra, la fa sobbalzare.

Segue un grido di imprecazione.

Bubi. È la sua voce.

Si rompe qualcos’altro. Subito segue un secondo grido. Nunzia resta basita.

Povero ragazzo innamorato, ma si può? Mollarlo così su due piedi in una casa che non è neppure la sua, senza una parola di commiato. Nunzia corrobora quello che già immaginava su Carmela: che è una poco di buono. Lui non è certo un principe raffinato, però è tanto preoccupato per lei, in fondo in fondo, sotto quella scorza coatta e quei modi sprezzanti, potrebbe avere un cuore d’oro.

La donna è dubbiosa. Come deve comportarsi: raggiungerlo al piano di sopra e rincuorarlo? Valuta se sia il caso, è notte fonda, quello sta spaccando oggetti – e intanto via un altro, uno stridore di metallo –, lei sola soletta. Mette in un cantuccio le esitazioni, si infila la vestaglia, si compatta i capelli corti che paiono un manto di pecora ed esce con passo felpato.

Davanti alla porta esita di nuovo, finché bussa timidamente.

Forse lui pensa che sia Carmela a bussare, forse l’impeto di rivederla gli fa aprire la porta con un gesto repentino – tanto che Nunzia trasale di nuovo –, fatto sta che la faccia che lei si trova di fronte non le piace per niente. Sembra una di quelle maschere teatrali degli antichi Romani, con la bocca e gli occhi che strillano rancore.

I sentimenti che passano nell’animo del tizio, riconoscendo la vicina, affiorano prima in viso.

Stupore. Sconcerto. Dubbio. Un po’ di disgusto, perfino.

Così, mentre nel cielo la costellazione autunnale sbriciola in pulviscoli il firmamento e lo impasta col vapore delle nuvole, questo ragazzo incollerito, sul groppone il presentimento di essere stato usato e ingannato, nello stomaco il desiderio al fiele della vendetta, fissa la vecchia che gli sta di fronte. È vero: pensava che fosse Carmela a bussare, per quello si è presentato come Zeus, con le folgori a tracolla. Ma, a parte la fidanzata, si sarebbe aspettato di trovare chiunque tranne lei, la donna-imbuto del piano di sotto, con le gambe spesse quanto due campanili, quella che si trascina viscida come un lumacone, la cui pelle non è più pelle ma cotica retata di venuzze ed ecchimosi blu. Lo fissa con i suoi occhi da babbea e gli domanda, con la voce di un’educanda: «Tutto bene, giovanotto?».

«Non è possibile che sia sparita così, capisce?». Bubi la guarda come non l’ha mai guardata, quasi con riconoscenza. Nunzia è di nuovo sulla soglia dell’appartamento di Carmela, lui prima l’ha fatta entrare, perfino accomodare, e le ha servito un bicchiere d’acqua. Hanno chiacchierato mezz’oretta, poi lei ha chiesto di congedarsi e ora si stanno salutando.

«Ci sarà una spiegazione, vedrai».

«Cosa faccio, chiamo i suoi?». In realtà lui ha contemplato a più riprese questa ipotesi, perché vorrebbe controllare se lei si è rifugiata in Sicilia.

«No, aspetta ad allarmarli. Conoscendo Carmela, scusa se lo dico, ma... lei è una testa calda, vedrai che tornerà, non stare a scomodare polizia e famiglia, aspetta almeno lunedì».

Lui deglutisce, questa vecchia è una buona donna. Prima, mentre erano in casa, si è data così da fare per rincuorarlo – l’ha perfino invitato a messa, l’indomani, che ingenua. Era stata così materna che prima quasi quasi Bubi le avrebbe raccontato tutto – rapina inclusa –, lei sembrava così comprensiva. Poi aveva prevalso il raziocinio e si era trattenuto dal palesare che quella puttana della sua partner se l’era probabilmente data a gambe levate con un bottino di trecentomila euro, ecco perché lui era così preoccupato. Però forse aspettare fino a lunedì era la scelta più saggia.

«Grazie di tutto, signora Nunzia».

«Buonanotte, giovanotto».