Wilma

«Allora, mi aiuti a fare gli hamburger?».

«Mafalda, non puoi chiedermi questo».

Mi viene incontro e mi porge una mano piena di ciccioli di carne, nell’altra impugna un coltellino affilato. «Su, Wilma, non è il momento di fare i capricci, mi fanno male le mani. L’artrosi».

«Io, i capricci?». Guardo affranta il teschio ancora sanguinante – è appoggiato all’ingiù, come una tazza tonda, e nella parte concava del cranio ristagna una pozzetta rossa. Mi sento la protagonista dispiaciuta di un film dell’orrore.

«Ma... l’hai spolpata tutta?».

«Per forza».

Mi alzo. «Cosa vuoi fare con gli hamburger?».

«Non possiamo buttarli nell’immondizia».

Credo di strabuzzare gli occhi. Grido: «Tu sei matta! Li vuoi mangiare?!».

«Non lo so. Comunque questa è la carne migliore del corpo e va smaltita».

«Tu sei davvero matta da legare!». Scuoto forsennata la testa e, senza accorgermene sul momento, compio un girotondo su me stessa. «Sai cosa significa questo? Cannibali! Come i selvaggi!».

«Pensi che sia tanto diversa dalla carne di manzo?».

«Non lo so e non mi interessa scoprirlo».

Oddio, è tutto un incubo.

Non può capitare a me.

Pensavo di averne già passate abbastanza, nella vita.

Mi guardo attorno in cerca di un conforto, ma qui imperversa la desolazione. Un tripudio di pezzi umani e coltelli che mi rimbalzano il raccapriccio: trincianti, pugnali a scimitarra, l’omero scarnificato di Carmela, le costole – molto più piccole di quanto immaginassi, attorno qualche rimasuglio di tessuto – e le falangi che paiono di una bimba.

Dove sono finita?

Spasimo confusa, lo stordimento tuona alle tempie. Mi sforzo di essere onesta con me stessa. Lo ammetto: non sono certo una santa, anzi. Sono un po’ imbrogliona. Quante persone ho infinocchiato? A quanti ho venduto a sovrapprezzo pacchi di lenzuola, solo perché avevo capito di trovarmi davanti a dei sempliciotti? Non ho pensione né rendite. E adesso che sono vecchia investo le mie energie per mettere via dei soldi in vista del progetto che vagheggio da qualche anno: un progetto serio, serissimo. Comunque corre una bella differenza tra un’anziana senza reddito che frega qualche euro per necessità e una pensionata che si nutre di carne umana.

«Senti, Wilma, non possiamo perdere tempo, domattina alle sei, anche se è domenica, c’è il rischio che passi in negozio mio cognato: ho bisogno che mi aiuti, non ce la faccio più dal male», e si sfrega un polso ruotandoci sopra l’altra mano.

«Cosa dovrei fare?».

«Lo vedi quello?». Mafalda indica il recipiente pieno di macinato «Ecco, devi prendere due pugni di carne e metterli qui... e qui...». Si avvicina a una pressa, l’abbassa. «...e piallarli, così».

Ne escono due pezzi che hanno tutta l’aria di hamburger. Mafalda li agguanta e li impacchetta nella carta sottratta al reparto vendita.

«Ne dovrebbero uscire una quarantina. Li congeliamo».

«No, cara, io nel mio freezer non ce la voglio Carmela».

Mafalda alza gli occhi al cielo, improvvisa una faccia scocciata anche se, in realtà, nel suo intimo mi è grata: pregusta un doppio rifornimento.

«Va bene, terrò tutto io».

Mi accosto al macinato e constato scorata l’effettiva somiglianza, almeno nel colore, tra la carne umana e quella bovina. Mi sforzo di mettere da parte il ribrezzo, immergo le mani – non devo pensare che qui c’è Carmela, non ci devo pensare, non c’è Carmela, non è lei – e raccolgo tra le dita a cucchiaio il primo involto di poltiglia.

Deprimente come il mio morale, ecco come si presenta la tangenziale nella notte bolognese. Lo squallore del buio mi investe intenta al volante – son sempre io che devo scarrozzare le amiche, con la scusa che loro non hanno la macchina –, la carne è al sicuro nel bagagliaio.

Mafalda si stende nel sedile ed emette un sospiro di soddisfazione. Nello stiramento ci rimette un nervo che comincia a dolerle, una pregressa cervicale che la perseguita insidiandola nei momenti meno opportuni. Il dolore parte dalla nuca e arriva fino alla spalla: se si azzarda ad alzare il braccio, diventa lancinante. Proprio adesso doveva tornarle.

«I sacchetti li devi portare tu, io vedo le stelle».

Batto una mano aperta sul volante, in segno di protesta.

«Wilma, mi dispiace, sono tutta bloccata, non possiamo lasciare la ciccia nella tua macchina, va in putrefazione».

«Ma perché devo rimetterci sempre io?». Un camion ci raggiunge e lampeggia.

«Io non ce la faccio, ti ho detto! Possiamo usare il mio freezer giù in cantina, così non fai le scale».

«Mafalda... e se ci vede qualcuno?».

«Chi vuoi che ci veda? A quell’ora nel palazzo dormono tutti come dei ghiri».

Il camion ci supera, non prima di aver strombazzato per lamentarsi della nostra lentezza. La mia amica non mi dà tregua: «Allora, ci pensi tu?».

«Per forza».

È anche questo, la vecchiaia, penso con le lacrime che premono ancora – sono lacrime indispettite –, inutile fingere che ci sia rimasta capacità decisionale: diventi vecchio quando ti accorgi di non avere più forze per impedire che siano gli altri a scegliere per te.