Che notte depravata. Mafalda sale le scale aggrappata come un rapace al corrimano. Persa l’usuale baldanza nella salita, procede lentamente, schiena e testa dritte, in viso le smorfie che esternano le fitte. E ogni tanto una sosta per riprendersi.
Quando arriva in casa, molla a terra la borsa e si sincera che Giorgio dorma come un bimbo. Vorrebbe farsi una doccia per liberarsi di quel dolciastro odore di carne e interiora, ma proprio non ce la fa. Non vede l’ora di buttarsi sul suo letto, rigorosamente lontano da quello del marito. Ha deciso di trasferirlo in un’altra stanza quando lui è passato alla sedia a rotelle e necessitava di un’attrezzatura ingombrante. Lei si sentiva obbligata ad assisterlo come se fossero ancora due metà. Da bambini abitavano nella stessa via, quasi uno di fronte all’altra. Tutti – genitori, vicini, parrocchia davano per scontato che si sposassero e loro avevano piegato la testa alle aspettative generali, perché allora – si parla degli anni Sessanta – era più agevole incappare in un tiepido matrimonio di comodo piuttosto che in un rischioso zitellaggio. Che poi verso l’amore vero, quello con la A maiuscola, nessuno dei due nutriva particolari aneliti: a lei era bastato valutare che Giorgio, sebbene più grande, fosse un buon partito, lui invece aveva pronosticato che lei fosse un’ottima economa. E comunque si erano voluti molto bene e avevano ottenuto ciò che desideravano: una famiglia ordinaria, dei figli sani e una vita senza scosse.
Mafalda si spoglia con lentezza. Quando i pantaloni cascano a terra, non s’azzarda a piegarsi per raccoglierli, sia mai che davvero non riesca più a rialzarsi. Si sfila la maglia – la stessa che indossava da giorni, quella con la fantasia a zig zag color mulo –, la butta sul pavimento e si avvia adagio al bagno. Finalmente entra e controlla la propria immagine rimandata dallo specchio sopra al lavandino. Quello che vede è una se stessa invecchiata di dieci anni. Le palpebre le crollano sugli occhi, il collo e il petto sono inanellati da collane di rughe. Per non parlare della ricrescita: chissà se la gente fa caso a quei quattro centimetri di canizie. Il seno si smonta raggrinzito e vuoto, ma che le importa? È distrutta: le operazioni di smaltimento del cadavere l’hanno resa una larva vivente.
Pazienza, pensa rassegnata. Un lato positivo c’è: almeno adesso ho una scorta gratis di cibo.
Bubi chiude la porta mentre Nunzia è già aggrappata alla ringhiera delle scale per trascinarvi giù la sua elefantiasi imperante. Scende come una piovra, ancorandosi ai gradini – scogli di città, plastificati in PVC nero con le bolle sottili in bassorilievo –, nel chiaroscuro della scala non si percepisce nemmeno l’ansimare da animale ferito. La mano scivola viscida come un tentacolo. Le dita si arricciano nella presa, lo spessore le impedisce di sentire il freddo del metallo, anche perché lei si culla nei pensieri: quel povero ragazzo abbandonato, è proprio vero che chi ha il pane non ha i denti, l’avesse avuto lei, in gioventù, un truzzo così aitante e disperato ogni volta che si allontanava. Se le fosse capitato, si sarebbe dileguata ogni tanto giusto per stuzzicarlo, per riprovare a se stessa la libidine della conferma, di quanto è bello che qualcuno si contorca per l’assenza dell’amato come un verme messo sulla brace e compia piccole pazzie in preda all’ansia, come spaccare oggetti in casa. Il pavimento del salotto di Carmela lo dimostrava: quel fusto era proprio fuori di sé, aveva polverizzato almeno un servizio di piatti. Nunzia non aveva mai ricevuto un amore così devastante, quell’eunuco di suo marito la cercava solo per assicurarsi che i pasti fossero pronti.
Una cosa la deve riconoscere, da valente cristiana: la difficoltà unisce. Anziché allarmarsi di questa acquisizione – ovvero del fatto che un individuo quotidianamente ostile le si mostri quasi amico per convenienza –, Nunzia ha dimenticato le sgarbatezze trascorse, gli ha offerto l’altra guancia, l’ha assistito. È così assorta nei pensieri che nemmeno si accorge di essere arrivata al suo pianerottolo. Quando svolta verso il portone, si trova inaspettatamente di fronte una figura in ombra che proviene dal sotterraneo – deve essere entrata dalla porta del garage –, la quale, vedendola, fa un balzo indietro.
Entrambe emettono un grido soffocato.
Poi si riconoscono e si guardano allibite.
Nunzia e Wilma, le amiche Sultane, sorprese vicendevolmente poco prima che la notte stia per cedere la staffetta al giorno.
«Mamma mia che spavento!» si lamenta Wilma, portandosi la mano al cuore. «Mi verrà un infarto».
«A te? Senti qui...». Nunzia afferra con decisione la mano dell’altra e se la spiattella sullo sterno. «La senti che tachicardia?».
«Guarda che io soffro di angina! Ora il mio cuore va più forte del tuo».
«Non è possibile. E poi io ho anche il diabete».
Quando tira fuori la storia del diabete, chi la conosce sa che non sussistono argomentazioni da opporle.
«Sì, va bene, Nunzia. Ma dimmi una cosa: cosa ci fai tu qui, a quest’ora?».
Nunzia è perplessa, non sa se sia opportuno rivelarle di essere stata in compagnia di quel burino, in casa sua, da soli – Wilma è così in confidenza con la figlia, se poi glielo racconta, Betta la sgriderà sicuramente –, poi valuta che lei è lì in vestaglia, mentre l’amica è vestita per bene, quindi chiaramente proviene dalla strada.
«No. Tu, piuttosto: cosa ci fai qui, a quest’ora?».