Le Sultane

Mafalda non è riuscita a preparare il pranzo. Né ad assestare Giorgio come si deve, l’ha giusto cambiato sbuffando per il dolore al collo, non poteva lasciargli il pannolone sporco. Quando si presenta Ugo con la sua frastornante famiglia, per la prima volta non trova la tavola apparecchiata. «Mi dispiace, non riesco a muovermi». I bimbi si agganciano alle braccia della nonna e saltellano usandole come ormeggi. Intanto cantano la sigla di Dragon Ball.

«Perché non mi hai avvisato, mamma?».

Forse perché diventi insopportabile quando viene cambiata una virgola nei tuoi progetti, vorrebbe rispondergli lei, ma si scusa: «Mi dispiace, ti ho detto. Sto davvero male. Per una volta fai cucinare Domnica. Può preparare un po’ di pasta al burro».

Lui non prende in considerazione la proposta. Sua moglie non cucina neanche in casa propria, figuriamoci in quella della suocera.

«Ma no, mamma. Ci mangeremo una pizza».

«Dove?» domanda lei per prendere tempo, non le va affatto di pagare la pizza per l’allegra famiglia.

«Come: dove? In una pizzeria da asporto, quella qui in fondo alla strada».

«Ma è cattiva lì». Altro depistaggio, l’ha presa una volta sola, offerta da Wilma, ed era buonissima. Cerca disperatamente una nuova scusa per farlo desistere, ma non le viene in mente.

«Va bene, allora andrò in un’altra pizzeria d’asporto. Andiamo subito, dai. Ti lasciamo i bambini».

«No, non riesco a seguirli, ti ho detto che mi fa male il collo!».

Lui è già alla porta. «Allora Domnica sta qui con te. Non ti preoccupare, mamma: pago io», e sparisce.

Sono giunti al momento del caffè, Ugo ha provveduto poco prima al dolce che sua madre non ha potuto infornare: l’ha recuperato in una gelateria durante il giro per la pizza. In questo momento le candeline che ha portato da casa sono infilzate nelle due vaschette di gelato – rispettivamente quattro e sei – e i suoi figli, nel tentativo veemente di spegnerle, ci sputacchiano sopra. Esultano al ritornello canonico di Tanti auguri, il coro non è intonatissimo.

Mentre gli adulti bevono e i pargoli infilano le dita nel gelato, Mafalda indica a Ugo un cartoccio sotto al mobile della tv, tra un ammasso di dépliant pubblicitari. È lei stessa a spiegare, con la stessa scusa che a mo’ di una cantilena ripete ogni anno: «Avevo finito la carta regalo...».

Domnica sferza il marito con un sorriso cinico e lui consegna il pacchetto ai bimbi.

«Lo apro io!».

«No, io!». Attaccano a litigare, mentre un altro sorriso questa volta un po’ più perfido – si plasma sulla bocca della bella polacca. Sedati i contendenti grazie all’intervento del papà e finalmente accordati sul fatto di strappare un lembo ciascuno, i bimbi vi si avventano con la foga curiosa che hanno tutti gli infanti di fronte al mistero promesso all’interno di un pacco. Il dépliant cede e i birilli erompono fuori. Su una base lignea lucida sono dipinte diverse strisce – verdi e rosse – oltre a fantasie ambrate. Tre birilli finiscono a terra, uno resta intrappolato nella carta e uno rotola sul tavolo. Il grande lo afferra. «Cosa sono?».

«Birilli. Ci potete fare tanti giochi» illustra la nonna con voce paziente.

«Tipo?».

«Potete metterli in fila e tirarci sopra una palla. Chi fa cadere più birilli vince», poi si rivolge ai genitori: «Ho cercato un gioco adatto a entrambi».

«Certo». La voce della nuora le sembra velata di sarcasmo, ma sarà solo un’impressione. O lo fa apposta? Tanto più che se ne esce con una domanda strana, sempre truccata con quell’accento dell’Est: «Mafalda, ma non sono sei i birilli, di solito?».

«In che senso?».

«È vero, mamma...» si intromette perfino Ugo «...al bowling di solito i birilli sono dieci. E in cartoleria li vendono in confezione da sei: questi invece sono cinque, come mai?».

Mafalda è in difficoltà. Che ne sapeva lei di quanti devono essere i birilli? Rovista nella memoria la scena in cui depredava il salotto demolito di Carmela: possibile che gliene sia sfuggito uno? Forse l’ha fatto cadere mentre sollevava il vaso cinese. Il tempo per trovare una soluzione non le basta, tanto più che interviene la nuora con una nuova, acuminata staffilata: «Per curiosità: dove li hai comprati, questi birilli?».

La messa infonde a Nunzia un tepore che la riconcilia col mondo. Quando mette piede sul sagrato, si pasce della convinzione che il bene trionfi oltre i fraintendimenti quotidiani. L’unica cosa che le dispiace è non poter condividere questo benessere con le amiche: Wilma crede solo ai suoi assenti e Mafalda ossequia un rimasuglio di dovere cristiano esclusivamente nelle feste comandate. Che peccato, macina Nunzia, per loro sarebbe più leggera l’esistenza se avessero una fede integra come la sua. Wilma capirebbe che prima o poi riabbraccerà il suo Juri e lo farà in un mondo celeste, Mafalda smetterebbe di interpretare la malattia del marito come una seccatura, ma, anzi, riconoscerebbe questa disgrazia come segno distintivo della Provvidenza: una benedizione, semmai. Oggi le sarebbe tanto piaciuto trascinare Bubi a messa, è proprio sugli individui emotivamente più fragili che attecchisce il proselitismo. Purtroppo lui è stato categorico nel rifiuto, ma Nunzia ha lanciato all’Altissimo una preghierina per il bellimbusto. Chissà se verrà ascoltata.

Rincasa verso la mezza con l’appetito che bussa alla pancia, Casimiro ha già esaurito il fiasco quotidiano e lei lo sa: si sentirà dannatamente sola durante il pranzo domenicale, perché mangiare in compagnia di uno sbronzo è come avere a fianco una sedia vuota. Lui ripete sempre le stesse frasi. Quando passa la Wilma? Quando viene la Betta? Buona questa pasta al forno. Ottimo l’arrosto. La farsa si rinnova identica: lei gli risponde come un robot, mangiano in silenzio per qualche minuto, poi lui riattacca con gli stessi quesiti, di cui ha già dimenticato le risposte.

Si stanno mettendo a tavola, Nunzia l’ha allestita alla perfezione: tovagliolo ripiegato a triangolo, con sopra le posate disposte con precisione, cucchiaino di traverso, coltello a sinistra e forchetta a destra. Indica a Casimiro la sedia e lo guarda: lo trova così logoro, così consumato, come se il tempo fosse stato un ritrattista decadente e avesse voluto rappresentare in quel formato ultrasettantenne tutta la pochezza dell’umanità. Non è un brutto uomo, ma la consunzione si è fatta strada dall’interno, l’ha usurato con garbo, provocandogli qualche cedimento e un progressivo declino dei piaceri dei sensi, ottenebrati poi nell’alcol. Eppure l’ultima spasimante l’aveva amato visceralmente. Si chiamava Bruna, una maestra elementare intelligente, avvenente. Nunzia l’aveva vista spesso piagnucolare, seguirlo, cascargli ai piedi. Perché anche le donne di una categoria superiore si prostrano, a volte, all’altro sesso, senza ritegno, obnubilate e private della capacità di selezionare gli uomini dai quaquaraquà? Tra l’altro erano già evidenti i primi segni di smottamento, quando la frequentava. Quanti anni sono passati? si domanda Nunzia mentre depone sulla tovaglia la teglia appena tolta dal forno, ma la ricerca di una risposta esatta si dissipa dietro una nuova distrazione: qualcuno sta salendo le scale, sembra il passo di Wilma. Deve essere lei, è l’ora in cui rincasa dal cimitero.