Una tappa da Nunzia ci scappa, ho bisogno di un volto amico. Come speravo: apre la porta e mi saluta con calore, la domenica è il giorno di Dio, qui l’ospitalità è sacra.
«Wilma! Sembri tanto stanca...».
Ci vede giusto, Nunzia. La notte in bianco mi ha lasciato dei segni atroci di affaticamento. Prima, allo specchietto retrovisore, mi son vista un catorcio: occhi tremuli, occhiaie marcate sulla pelle del viso pacioccone. Perfino i ricci biondo platino sono scomposti rispetto all’usuale, impeccabile pettinatura alla Marilyn. Sono scesi, annullando l’effetto di casco voluminoso.
«Sì: sono a pezzi».
«Vieni dentro che mangi con noi».
«Non so, non vedo l’ora di buttarmi sul letto».
«Dai, mangi in dieci minuti, poi sali da te e dormi finché vuoi».
Sono così spossata che non riesco a opporre resistenza, tanto più che Nunzia mi infila il braccio nell’incavo del gomito. «Su, è domenica. Non è bello pranzare da soli. Ho cucinato delle cose buone, sai?».
Non ci vuole molto a convincermi con argomentazioni culinarie. Ho il morale in frantumi, il cuore spappolato e perfino i fiorellini sul vestito di nylon sembrano appassiti: forse un pasto prelibato potrebbe contribuire a rimettermi in sesto. Durante la mattina ero così sconvolta dalla notte brava che mi sono dimenticata di fare colazione. Al cimitero mi si è serrato definitivamente lo stomaco. Poi sono stata sopraffatta dallo sfinimento e la fame non ha avuto modo di farsi sentire, troppo stretto il nodo alla gola. Me lo merito, un bel pranzetto. Mi secca solo sedere di fianco a Casimiro, che mi fissa con un sorriso a metà tra imbonitore e idiota e nemmeno riesce a mescermi decorosamente l’acqua nel bicchiere, ne rovescia un po’, la mano barcolla. Ingerisce il cibo senza assaporare, ingurgita con due masticazioni spicciole – la sorella, invece, lei sì che si gode i bocconi e tritura lentamente, passandoseli da una guancia all’altra – e mi guarda con lussuria, quello sporcaccione, mentre a fatica centra la bocca quando ci infila dentro mezzo cannellone.
Squilla il telefono, Nunzia attendeva la chiamata rituale della figlia. Che strano trovarmi qui vicino e sapere tutto di sua figlia, che è carne della sua carne, e che a lei nasconde tre quarti della sua vita. Me la immagino, la povera Betta, dall’altra parte della cornetta: ancora in pigiama, avrà bigiato la messa mattutina e trascorso le ultime ore ad asciugarsi le lacrime e a rimuginare. L’ennesima fregatura, il suo capo: due volte impegnato, due volte impostore, voltagabbana, pusillanime – nemmeno l’ha affrontata a viso aperto –, e la nuova amante è più giovane di lei, che già aveva dieci anni in meno della moglie. Perché non c’è un limite alla giovinezza?
Betta scopre la mia presenza, chiede a Nunzia di potermi salutare un attimo al telefono e, invece, quando formulo il Pronto? scoppia in un pianto che diventa un fiume di disperazione e accuse al traditore. Io sono mortificata, vorrei abbracciarla, rinfrancarla che tanto lo dimenticherà presto, quando si chiude una porta si apre un portone, non succede sempre, vorrei attaccare molte altre consolazioni, ma al cospetto di Nunzia e Casimiro rinuncio, procurandomi una sorta di stasi che la ragazza finisce per male interpretare. «Ma...».
«No, scusami è che...». Mi giro verso il tavolo: Nunzia e Casimiro mi guardano in attesa. «...è che ieri ero tanto giù. Ora vado a mangiare, tua mamma mi aspetta. Poi ho bisogno di riposare qualche ora. Ti chiamo stasera, stella». Mi siedo, il pranzo non si conclude nel migliore dei modi. Alla fine, Nunzia mi assilla con domande fastidiose, mentre serve la Saint Honoré. «Ieri notte, quando ti ho vista salire le scale...». Affonda il coltello tra le onde di panna e cacao. «...hai detto che eri andata a fare un giro. Perché così tardi?».
«Uff, Nunzia, non riuscivo a dormire. Ero malinconica».
«E come mai una così bella signora resta malinconica e soletta nel cuore della notte?».
Infilzo con la forchetta il bignè al bordo della fetta e, prima di ficcarlo in bocca, rispondo di malavoglia: «Così».
«La prossima volta vieni a suonare da me, che ti consolo» insiste Casimiro. «Lo sai che quando vuoi sono pronto a sposarti».
Me l’ha proferita mille volte, questa proposta di matrimonio, sempre scherzando. Forse perché indovinava che nemmeno morta avrei accettato. Lo ignoro, ripongo la posata sul piatto e mi pulisco col tovagliolo. «Scusate. Devo andare a casa. Non riesco a finire la torta, perdonami Nunzia».
«Mamma mia, Wilma, sei proprio strana. Mai successo che tu lasciassi una fetta di Saint Honoré».
«Non sto tanto bene». Mi alzo e mi sembra di avere un deposito di rocce alla bocca dello stomaco, prendo la borsa e mi dirigo alla porta.
Nunzia mi segue a fatica, l’elefantiasi la rende goffa e, se Casimiro non fosse così ottenebrato per via del lambrusco, troverebbe buffa la scena di noi due: una donna piccola che trotta velocemente fuori casa, l’altra grande, con la stazza a imbuto, che la raggiunge alla porta, mentre la prima – cioè io – si affretta su per la rampa. «Wilma, non mi convinci. Non è che gatta ci cova?».
«Ma cosa dici, quale gatta?».
«Basta pensare a Juri. Sembra che ti voglia punire da sola».
«Devo solo riposare un po’».
«Smettila di buttarti giù così. E basta con quella faccia. Non hai mica ammazzato nessuno».