Cosa rimane a Mafalda di un pranzo domenicale trascorso attraverso dialoghi irrigiditi in prassi accusatorie, quando i suoi se ne vanno? Acredine, un nervosismo asfittico, senso d’inettitudine. Non che loro le rimproverino apertamente qualcosa. La sanno mettere con le spalle al muro con domandine pungenti, inscenando sottili inquisizioni. Sua nuora: mai che proferisca una parola gentile, mai che si lasci andare a un gesto amabile. I marmocchi, poi, stanno crescendo impettiti come i genitori. Se almeno loro avessero apprezzato il regalo. No, l’hanno scartato come due devastatori, piccoli unni in preda al delirio della sorpresa, hanno rigirato i birilli pochi secondi, si è sedimentato nella loro mente malleabile il concetto – concetto inculcato dai genitori – che, essendo solo cinque e non sei, non fossero un dono ragguardevole, quindi li hanno abbandonati sul tavolo. Se ne sono dimenticati.
Sono usciti da trenta secondi, portandosi dietro il frastuono del loro uragano, e Mafalda conta i resti di croste di pizza nei cartoncini, mentre il marito, piantato nella poltrona, fissa lo schermo del televisore spento. Due birilli sono in piedi di fianco alle vaschette del gelato, le cui creme si sono sciolte in un unico gusto marroncino, Mafalda lo ripone in freezer pensando che, così mescolato in una mistura di stracciatella, cioccolato, sputi dei nipoti, Giorgio lo divorerà.
Si preme il collo per massaggiarselo, potevano anche sbrogliare il tavolo prima di andarsene, non l’hanno capito quanto il dolore la impedisca nei movimenti? Scuote la testa, Mafalda, la visione dei birilli abbandonati le provoca la delusione di non essere stata accettata, perché questo è il messaggio: non mi porto via il tuo regalo perché lo denigro e te ne do una prova plateale. Me ne frego dei birilli perché me ne frego di te. Questo rimugina Mafalda, mentre chiude lo sportello del freezer. Ma subito ha modo di ricredersi, quando i nipoti strimpellano al citofono: «Nonna, abbiamo lasciato su il regalo!».
«Fate una corsa a prenderlo». Mentre apre il portone sente già il galoppo su per le scale.
I demonietti sono tornati a reclamare quello che spetta loro. Mafalda si corregge, forse è stata troppo affrettata nel suo giudizio, quelli arraffano e si precipitano giù, nessuno ha insegnato loro a salutare la nonna.
Mafalda rimanda i disbrighi a dopo e si siede sul divano, di fianco alla poltrona di Giorgio, tutta concentrata sul suo tormento. Le sembra di avere nel collo un esercito di picchi che continuano a beccarle i nervi. Chiude gli occhi e le fitte schizzano più acute lungo la spalla.
Mafalda non può immaginare che sta succedendo qualcosa, nel cortile antistante il giardino, che altererà i suoi piani da stratega del crimine.
I bimbi galoppano incontro al padre, Domnica li sta aspettando in macchina.
In ciascuna mano brandiscono un birillo, il piccolo ne tiene in maniera incerta due nella destra, tutta aperta e col mignolo ad arpione. Corrono invasati verso Ugo, in piedi in cortile, lo schivano, lo superano e, proprio nel momento in cui passano davanti al portone di Bubi, lui lo apre. La confusione che sprigionano quegli urli pazzeschi non permette che passino inosservati e avviene un piccolo incidente che cattura l’attenzione del coatto. Lui, occhiali da sole in fronte, maglietta e pantaloni aderenti, è a trenta centimetri dai loro piedi: al satanasso più piccolo il mignolo cede, i due birilli sfuggono e rotolano sulle lastre del vialetto. Uno si ferma contro il rialzo di cemento che delimita il giardino, l’altro incappa contro l’adidas destra del senegalese.
Bubi riconosce i birilli di Carmela, gli stessi che, come lei gli aveva raccontato, aveva comprato da un rigattiere ucraino, al mercatino di Palermo. Ripercorre i ricordi e rinvigorisce la certezza: sono proprio loro, quelli che mancavano insieme al maledetto vaso cinese. L’ha cercato disperatamente e invano, è riuscito però a trovare, dietro al mobile, il sesto birillo. Conta i pezzi, tra quelli caduti a terra e quelli in mano ai bimbi, che nel frattempo hanno interrotto la loro corsa all’impazzata. Sta per chiedere dove li abbiano mai presi, quei cinque birilli, ma la lingua gli si è impantanata in bocca, e tanto ci pensa Ugo a soddisfare la sua ansia di sapere, rivolgendosi ai discoli: «Su, bimbi: raccogliete il regalo della nonna!».
Bubi resta pietrificato il tempo che i terremoti salgano in macchina. Deve riprendersi dallo shock, non si è mai distinto per velocità di pensiero, ma l’istinto gli dice che qualcosa di anomalo è successo. Impiega ancora qualche minuto a fare due più due e ad assimilare l’informazione principale: i birilli sono un dono della vecchia sgangherata del condominio di fianco, quella con la gobba e la ricrescita bianca. Si precipita al suo citofono e suona ripetutamente, lei tarda a rispondere per via della cervicale. Intanto l’allegra famiglia è salita in macchina e partita.
«Chi è?».
«Sono Bubi».
«Chi?».
«Il ragazzo di Carmela».
Silenzio.
«Ti ha dato lei i birilli?».
Ancora silenzio, allora lui alza la voce, per fortuna nessuno, la domenica dopo pranzo, girovaga in cortile.
«Dov’è scappata, quella stronza di Carmela?».
«...». Mafalda sente liquefarsi la pancia.
«Dimmelo, se no salgo e ti faccio sputare i denti! Dov’è andata?».
«Non lo so...».
«Chi ti ha dato i birilli?».
«...».
«Chi te li ha dati? Ora salgo!».
«No, no, non salire! Me li ha dati la Wilma!».
Nessuna casalinga al mondo lava le stoviglie come Nunzia. Si dedica a ogni piatto come se fosse di smeraldo. Nemmeno usa i guanti, da quanto le piace la consistenza sfuggente della schiuma del detersivo al limone, e abbonda col sapone fino a che il lavello erutta bolle. Il sodalizio con la spugna si rinnova appena la fa riaffiorare fuori dall’acqua e la strizza in un’infiorescenza di schiumosità. Spugna dolce spugna, quanto è effimero il lavaggio dei piatti. Dice sempre delle sciocchezze, Casimiro, dopo lo Jägermeister delle quattordici e trenta. Non per il liquore – gliene sarebbe consentito un bicchierino, ma lui continua a versarlo non appena Nunzia si gira. Di nuovo seduti al tavolo, ciascuno, con gli occhi alle briciole rimaste, fa i conti con la propria smodatezza: lui nel bere, lei nel mangiare.
«Allora salgo da Wilma?».
«No, stai qui con me». Il tono della sorella rimanda a una pazienza materna, in realtà Nunzia stanzia in quello stadio di dormiveglia – torpore diffuso e palpebre quasi chiuse – che impone lo stomaco quando è stracolmo.
«Dai che salgo e le chiedo di sposarmi. Lo faccio per bene questa volta, mi inginocchio come nei film».
«Non accetterà mai».
«Come fai a dirlo?».
«Lo so per certo, figurati se si va a invischiare con una disgrazia come te».
Ne hanno discusso tante volte lei e le sue amiche: risposarsi? Giammai. Una volta imparato a fare a meno del proprio uomo, chi glielo fa fare a una vecchia di prendersi in casa un estraneo da accudire? Eh sì, perché alla loro età non son più frizzi e lazzi, le necessità mutano, le spigolosità – anziché smussarsi – si incuneano nelle abitudini, l’altro diventa un ingombro. Per conformarsi alla sagoma della quotidianità occorrono anni di addestramento. L’imperativo è l’assistenza, e chi sarà mai a farne le spese, se ci si risposa da anziani? Le donne, ovviamente, perché sono loro l’emblema della disponibilità, della devozione, dell’abnegazione.
«Se invece accettasse la mia proposta?».
«Eh eh, stai fresco!». Nunzia apre gli occhi un secondo e subito li serra. È bravissima a dormire sveglia sulla sedia, quando ci si mette.
«Perché tu non sai cos’ho sognato stanotte. Te l’ho raccontato?».
«No».
«Vuoi saperlo?».
«Dimmi». Nunzia è rassegnata alla fantasia mirabolante che scaturisce dall’alcolismo. Se suo fratello avesse utilizzato un decimo di quella fantasia in amore, anziché lasciarsi alle spalle decine di infelici, avrebbe realizzato una famiglia raggiante.
«Ho sognato che sentivo che Wilma era in pericolo... in serio pericolo. E sai come lo capivo? Me lo trasmetteva telepaticamente, così, da un piano all’altro». Muove le mani per mimare le scale e urta contro il bicchierino, che cade. Tanto è vuoto.
«Io correvo su per le scale, erano piene di sangue, era tutto rosso come in quel film... in quel film che si svolge in un albergo e ci sono gli spiriti di due gemelline e schizza il sangue da dietro una porta... come si intitola?».
«Che ne so io? Ma pensa un po’ che film vai a vedere!». Nunzia non si capacita del perché si continuino a produrre film sanguinolenti anziché agiografie su santa Teresa di Calcutta.
«Oh, credimi: era un gran bel film. Dunque, ti dicevo, nel sogno... io salgo le scale tenendomi ben stretto per non scivolare nel sangue. Proveniva dall’appartamento di Carmela e andava in tutte le direzioni. Aggrappato alla ringhiera, finalmente arrivo a casa di Wilma. Busso e lei mi dice che non può aprirmi perché è tornato Juri».
Sua sorella strabuzza gli occhi e ricalca, con voce ferma: «Non ti azzardare a raccontarglielo, alla povera Wilma. La faresti solo patire».
«Ma no, chi glielo vuole raccontare? Comunque, vuoi sapere come finisce?».
«Vai avanti». Nunzia chiude gli occhi.
«Io sento, oltre la porta, che Juri c’è davvero. È seduto sul suo tavolo e ha due teste. Anzi, a essere precisi ha un corpo solo e due colli. Sopra un collo c’è la sua testa, sopra l’altro la testa di Melania».
«E perché Wilma sarebbe in pericolo?».
«Perché in casa regna la zizzania: Juri e Melania si stanno azzannando. A lei manca un orecchio, a lui un pezzo di guancia, si sono morsicati a vicenda. Ma io non lo vedo, perché i sogni... sai come sono i sogni, lì tutto è possibile, e allora succede che dove si rosicano esce sangue, ma per assurdo il sangue viene convogliato verso il terrazzo e da lì atterra al secondo piano, nel balcone di Carmela, capisci? E Carmela stava friggendo qualcosa, si spaventa alla vista del sangue, le casca la padella e si brucia tutta, è inorridita, intanto il sangue le straripa in casa e passa attraverso il buco che c’è tra la porta e il pavimento, per questo sono tutte impregnate le scale, mi segui?». Sua sorella non risponde, anzi, Casimiro distingue un ronfare sommesso che si contrae in borbottio lievissimo, come una trombetta suonata sottovoce. Allora decide di approfittarne per versarsi clandestinamente un altro goccetto di Jägermeister.