Ho impiegato dieci secondi per addormentarmi, non sono stata così stanca dal giorno del funerale di Juri, perché era come se il sonno se ne fosse scappato mano nella mano sottoterra con lui e io mi rigiravo sul cuscino. Stavolta no, dopo un immediato ingresso nella fase profonda dell’assopimento, vengo scaraventata nel lago dei sogni, ma la beatitudine della siesta dura poco: il telefono attacca a squillare. Mafalda mi sta contattando disperatamente per avvisarmi di una minaccia imminente.
Non rispondo e il cellulare dimenticato sul comò continua a suonare. Al decimo squillo sto visualizzando qualcosa di lugubre e raccapricciante: maiali che sbranano uno scheletro, le coste di Carmela – qualcuno mi sta dicendo che mi sono sbagliata, non ho ucciso Carmela, la vittima era una bambina: non lo vedo che le ossa sono troppo piccole? Rabbrividisco perché qualcun altro mi accusa di aver ucciso Melania, ecco: la vittima è Melania, non più Carmela, ma mia figlia quando aveva cinque anni, poi la visione sterza e focalizza in primo piano l’immagine del mio cellulare, abbandonato sul cocuzzolo di una lapide. La tomba di fianco a quella di Juri, dove riposa la signora Adalgisa, deceduta a cinquantaquattro anni per un incidente domestico. Le era scoppiata in faccia la moka del caffè, un secondo dopo che lei vi si era chinata sopra scoperchiandola per controllare se stesse uscendo. Passo al dormiveglia, il cellulare persiste a suonare. Fantastico di afferrare il telefono dalla lapide della signora Adalgisa, guardo meglio, il nome è cambiato: sopra c’è la fotografia di mia figlia. Melania è morta: l’hanno uccisa quelli della setta.
Finalmente apro gli occhi e mi isso sui gomiti: la doccia della realtà mi dà la forza per scattare. Raggiungo il cellulare, sul comò. Nemmeno il tempo di parlare che Mafalda mi investe con la sua angustia: «Wilma! Siamo in un guaio, ho fatto una sciocchezza!».
«Gnn... ma che... che succede?». In bocca ancora il sapore del sonno, non ho nemmeno fatto in tempo a indossare la dentiera e mi vergogno a esibire la mia parlata spoglia.
«Non sapevo come fare e ho preso tempo facendo il tuo nome. Perdonami!».
«...gnnn gnogn capisccco».
«Wilma, ascoltami!». La sua voce è sempre più ansiogena. «Ascoltami bene: Bubi ha scoperto che noi c’entriamo con la sparizione di Carmela, è venuto al citofono come uno scalmanato».
«Ma come...?».
«No, non mi interrompere, abbiamo poco tempo. Senti: ho fatto una sciocchezza, mi dispiace tantissimo».
«Cosa hai fatto?».
«Volevo prendere tempo, pensare, ero andata nel panico».
«Cos’hai fatto, si può sapere?».
«L’ho mandato da te, vedrai che ora ti suona. Stai attenta, io arrivo subito».
In quell’istante sento bussare energicamente alla porta.
Dalla paura mi sembra che mi stiano cadendo tutti i capelli.
Nel tempo occorso per chiudere la conversazione e coprire i venti passi che mi dividono dall’uscio, mi sveglio come se mi avessero gettato in faccia dei fiotti di acqua gelata.
Vorrei aprire con circospezione, ma quando rilascio la maniglia disincagliando il lucchetto, Bubi, dall’altra parte, spinge la porta con una poderosa manata e faccio appena in tempo a indietreggiare per evitare che me la sbatta in faccia.
Erompe in casa con occhi da psicopatico e si abbassa accusandomi. «Tu lo sai dov’è! Dimmi dov’è scappata, quella troia!».
«Io... ioioio... io... io io io...». Il cuore galoppa all’impazzata.
«Brutta stronza bastarda di una vecchia, se non mi dici dove si nasconde Carmela, io ti ammazzo!».
«Non nonononllololoooo s... s... so!». Intanto avviamo un girotondo attorno al tavolo, io scappo, lui appresso.
«Ti ha dato dei soldi per tacere, vero? A te e a quella befana della tua compare?».
Deglutisco con molta fatica, mentre scuoto freneticamente la testa.
«Dimmelo!».
Tra me che faccio passi indietro e Bubi che incalza abbiamo già circumnavigato il tavolo e lui ormai mi ha raggiunta. Si ritrova di nuovo con le spalle all’uscio.
«Dimmelo ti ho detto!» tuona, e mi molla un potente ceffone.
Barcollo all’indietro, poi inizio ad aprire e chiudere gli occhi come se ci fossero finiti dentro dei moscerini, è il tic che mi si scatena quando sono sottoposta a emozioni fortissime. È cominciato da piccola, nel momento in cui i Pippo sorvolavano i cieli e io, giù nei fossi coi parenti, stringevo le palpebre e l’apprensione mi costringeva ad aprirle in una fessura. Poi chiudevo e riaprivo, come se quel movimento compulsivo mi proteggesse. È accaduto anche quando sono saliti i carabinieri, quella notte, subito dopo il luttuoso annuncio. Non riuscivo più a smettere, come adesso. Sento le guance avvampare, ma quello che mi interrompe le parole è semplicemente la paura.
«Dimmelo o ti ammazzo!», e mi accalappia il collo con le mani, cominciando a stringere, un po’ schifato dal mio viso scioccato: son sdentata, bocca spalancata con la lingua bianca quasi fuori, occhi sbarrati. Tento di difendermi dall’aggressore, ma è tutto inutile, la sua presa pare di acciaio.
Mi sento soffocare sul serio e penso che questa volta morirò, è giunta la mia ora.
Meglio, me ne andrò dal mio Juri.
Non sentirò la mancanza di molte persone.
Cosa mi è rimasto, in questa dura vecchiaia?
Le amiche? Belle amiche. Soprattutto quella tirchiona di Mafalda, mi ha gettata nella fossa dei leoni.
Mia figlia? Ho ricevuto solo batoste da lei, ha sempre voluto fare di testa sua, si arrangerà.
Mentre chiudo gli occhi senza più timore di abbandonarmi al destino, qualcuno entra in casa di soppiatto, rimuove il pesante specchio appeso al muro d’ingresso e lo fracassa contro la testa di Bubi. Le sue mani allentano la presa, poi si staccano e lui cade a terra.
Riapro confusa gli occhi e mi trovo di fronte Mafalda, con la cornice ancora in pugno e un’espressione da brivido.
Dentro la cornice, lo specchio è squarciato.
«È morto?». Mi copro la bocca con una mano, mentre Mafalda scruta il corpo a terra e valuta: «No, respira ancora».
«Aspetta...». Trotterello in bagno per rimediare la dentiera – nel frattempo Mafalda sistema a terra quel che resta dello specchio – e torno trafelata. «Che facciamo?».
«Non lo so». Mafalda fissa Bubi disteso e inerme. Intanto io rammento il perché sia salito qui e mi abbia fatto passare dei brutti momenti. «Come ti è saltato in mente di mandarlo da me?».
«Bubi ha capito che noi c’entriamo qualcosa con la sparizione di Carmela, così è venuto a suonare al mio citofono e io sono andata in tilt, mi dispiace, ma... pur di prendere tempo l’ho indirizzato qui».
Ci curviamo sul corpo, Mafalda posiziona le dita sul collo per controllare il battito, io non mi azzardo a toccarlo. «Ma scusa, come ha fatto a capire che noi c’entriamo?».
«Ha riconosciuto i birilli che ho preso in casa di Carmela». Mafalda mi guarda negli occhi, in cerca di comprensione.
«Dove li ha visti?».
Mafalda abbassa lo sguardo. «Li ho regalati ai miei nipoti oggi a pranzo, per il compleanno. Loro passavano giù in giardino nel momento in cui lui usciva e... li ha visti, che guaio!».
«Cosa, cosa?». Corrugo la fronte. «Fammi capire... tu hai regalato a due bambini degli oggetti rubati nella casa in cui abbiamo commesso un omicidio?».
«Tu hai commesso un omicidio, se vogliamo essere precise».
Le guance mi vanno di nuovo in fiamme, mi sento esplodere di collera, indice puntato verso di lei. «Se vogliamo essere precise, tu hai maciullato il corpo di Carmela e forse a quest’ora tu te lo sei già pure mangiato!».
«Ma cosa dici mai?».
«Ah sì? E perché mi hai fatto fare gli hamburger?».
«Io non ho mangiato Carmela».
«Che poi, come ti salta in mente di regalare a due bimbi dei giochi rubati? Non hai pensato che così mandavi in giro una prova di ciò che abbiamo combinato?».
«No, con tutte le preoccupazioni che mi girano per la testa, questa volta non ci ho pensato».
«Brava lei, la professoressa di criminologia!». Cambio la voce in baritono, con enfasi da professorone. «Lei che vede i RIS e Quarto Grado e sa tutto su Cogne e le impronte digitali di mio nonno. Criminologa del piffero!».
Mafalda continua a tenere gli occhi bassi.
«Un errore così banale? Proprio tu che facevi la furfante da strapazzo... Hai pensato a tutto, a smaltire il cadavere e a ripulire le tracce, insomma: è come se io detergo da cima a fondo la casa e poi mi metto a fare la cacca in mezzo alla cucina!».
«Mi dispiace, Wilma. È stata tutta colpa della stanchezza...».
«No, cara, è qui che ti sbagli».
Ora glielo dico, ha superato tutti i limiti. Ciondolo sdegnata la punta dell’indice a destra e a manca. «No, no, no: non puoi dare la colpa alla stanchezza. Sai cos’è stato? Te lo dico io. Il problema è che tu sei una gran taccagna».
«Io?». Mafalda – occhi allucinati, sopracciglia inarcate che assecondano la sua incredulità – si porta la mano al petto.
«Sì, proprio tu, avida! Sei la persona più pitocca che conosca. Piuttosto che spendere soldi per un regalo decente per i tuoi nipotini, hai preferito regalare quei birilli macchiati di sangue».
Che liberazione lanciarle le accuse che covavo in petto da anni.
«Io... io...». Mafalda sta per dare in escandescenze – questa poi, non l’ha mai accusata nessuno di essere avara –, quando il ragazzotto mostra i primi segnali di rinvenimento, muovendo leggermente la testa e le mani.
Ci guardiamo terrorizzate.
Sappiamo che potremmo giocarci tutto e, se io non sono particolarmente scossa da questa consapevolezza – ché ormai non mi aspetto più nulla di galvanizzante dal futuro –, Mafalda non è disposta a perdere nemmeno un centesimo del suo tesoro. È un attimo: riprende in mano lo specchio, lo solleva e lo scaraventa senza pietà sulla testa del tipo, che di nuovo piomba giù immobile.
È un’artista, Mafalda, ad assemblare le bende. Ha impiegato dieci minuti per andare in casa, fare razzia delle fasce che utilizza per Giorgio, tornare da me, trascinare gli oltre ottanta chili del bellimbusto nella stanza che utilizzo come deposito e fasciarlo come Tutankhamon.
Ha adocchiato un gancio fissato al muro – quanti prosciutti da stagionare vi avevo appeso in questi anni – e con una catena non troppo lunga l’ha collegato a un collare – apparteneva al mio pastore tedesco – cosicché, quando Bubi si è svegliato, si è ritrovato impacchettato e assicurato a una catena con un collare per cani. Quel negro molesto che poco fa mi stava soffocando ora mi fa quasi pena. Chissà cosa gli passa in quella testa, chissà dove arriva la sua coscienza. Non è certo uno stinco di santo, questo è vero, ma i suoi occhi tradiscono scombussolamento. Credo che mai al mondo avrebbe potuto prevedere di finire così, nella stanza stramba di una vecchietta, con le braccia bloccate lungo i fianchi da spesse fasciature, un formicolio alle mani e un martellare al capo, con tutte le botte che ha preso in testa: chissà se sente il sangue raggrumarsi sopra la nuca, l’ho visto prima quando era girato.