Contempliamo fradice il risultato della nostra fatica. È stata dura trascinarlo fin lì, l’abbiamo fatto sbattere ripetutamente contro gli spigoli – quello dell’angolo, quello del mobiletto in corridoio e infine quello della bilancia rettangolare –, accidenti quanto pesa, e poi temevamo che da un momento all’altro riprendesse i sensi.
Il grosso del lavoro l’ha svolto Mafalda – liberata dai dolori cervicali grazie all’ingestione di due pastiglie di Orudis –, l’ha cinto con le fasce come un bebè, l’ha sbatacchiato su e giù, rivoltato con poco garbo, e ora eccolo seduto per terra, stupito e ammaccato, bendato a metà come una mummia incompiuta, con le braccia incollate al corpo: sbucano solo i polpastrelli. Le caviglie sono unite con una corda a giri ripetuti che culminano con un nodo da marinaio.
La luce è soffusa, come sempre in questa stanza dove le imposte sono perennemente chiuse. Nella penombra risalta il bianco della stoffa con cui Bubi è stato legato, oltre a quello dei suoi occhi sbarrati. Lui non capisce, si ritrova col sedere a terra e una catena che va dal collare saldato al gancio fino alla parete. Controlla noi vecchie in piedi, di fronte, e l’espressione che gli camuffa il viso è di ribrezzo, mentre si slancia ripetutamente in avanti con tutto il peso, con l’unico risultato di rimbalzare ogni volta all’indietro, dove lo riporta la catena. Sbuffa dal naso: «Che succede? Cosa volete?».
Tra di noi è Mafalda la donna di polso, spetta a lei dettare le regole: «Parla piano e riga dritto, tu».
«Dove siamo?».
Lui slitta lo sguardo da me a lei. Chissà se capisce che gli sta capitando l’inammissibile. Io lo evito, sono completamente impreparata, lui ragiona ad alta voce: «Siamo nella casa sopra la nostra, quella del terzo piano... Ero venuto qui, è l’ultima cosa che ricordo...».
Mafalda vuole tenere in pugno la situazione: «Devi stare zitto, se no ti chiudiamo noi la bocca. Dobbiamo decidere cosa fare con te, se ti comporti bene non devi temere».
«Vi siete messe d’accordo con Carmela!».
«Fai il bravo o te ne pentirai».
Lui indietreggia spingendosi col piede e finisce con la schiena attaccata alla parete, mentre scrolla la testa e ci accusa con un filo di voce: «Voi siete pazze».
Mafalda impugna un bastone addossato al muro – apparteneva a mio padre, il bastone con la testa di labrador bianco – e lo minaccia puntandoglielo: «Brutto mammalucco, non ci mancare di rispetto!».
Lui arriccia le labbra come se trattenesse delle parole, un anticipo di paura gli scorre forse tra le budella, si rivolge a me: «Siamo a casa tua, vero? Cosa mi volete fare?».
Non apro bocca. Mi sembra che la situazione sia precipitata, siamo su un aereo senza controllo, svenuti i piloti. Se potessi, magari lo rincuorerei: stai tranquillo, non succederà niente. Tu dimentica di aver visto quei birilli e noi ti lasciamo andare. Ma lui non mi concede il tempo: «Siete due vecchie mentecatte fuori di testa, lasciatemi subito andare o vi spacco il culo!».
Giusto il tempo di pronunciare l’ultima sillaba che Mafalda lo colpisce con una randellata alla mascella, facendogli voltare la testa. Nell’impatto salta via dal bastone la testa di labrador, puro avorio africano. Lui tiene gli occhi chiusi mentre muove con lentezza la bocca, come se masticasse qualcosa, finché sputa una poltiglia di sangue e saliva, con un pezzo di dente.
Non riesco più a trattenermi: «Gli hai rotto un dente!».
«Questo screanzato deve imparare l’educazione».
«E poi hai rovinato il bastone di mio padre, lo conservavo da trent’anni!».
«Mi dispiace per il souvenir del tuo babbo, ma bisogna insegnare l’educazione a questo stronzetto: non può vivere qui e trattarci come due babbee».
«Come vivere qui?» chiedo con affanno.
Mafalda lo squadra inviperita, mi getta due occhiacci di disapprovazione, come per dire: ti pare il caso di litigare qui davanti a lui? Poi aggiunge un cenno che è un invito a uscire, ma prima deve zittire quello scalmanato che continua a tirare la catena, tossendo a ogni slancio: «Noi torniamo subito, sta’ buono se no vedrai di cosa sono capaci queste vecchie mentecatte».
Parlando a bassa voce nel bagno abbiamo l’impressione che i segreti siano più protetti che in salotto, tanto più ora che tiro lo sciacquone del water dopo avervi gettato dentro un pezzo di carta igienica con cui ho tamponato il sudore del collo.
«Io non ce lo voglio in casa mia, Mafalda, trova subito una soluzione».
«La trovo, la trovo. Però per ora deve stare lì, non possiamo fare altrimenti».
«No, entro un’ora lo voglio lontano da qua».
Mafalda si abbassa verso di me, mi posa le mani sulle spalle, come a tentare di farmi riflettere, e recupera la voce più calma che conosca. «Non riusciamo a sistemarlo in un’ora».
Mi divincolo dalle sue mani. «Cosa intendi per sistemarlo? Gli vuoi riservare lo stesso trattamento della sua fidanzata? Perché se hai intenzione di aprire un’azienda di hamburger di carne umana, sappi che io non ci sto».
«Non ti preoccupare, decideremo insieme».
Ci bloccano dei rumori, nell’altra stanza, accompagnati da un forte grido.
È lui che sta tentando, a slanci, di strapparsi dall’incastro della catena. Ci precipitiamo di là e avviene tutto in un lampo: Mafalda sfodera di nuovo il bastone e si avventa contro la carne soda. Non le sembra di battere abbastanza, i tonfi sono gli stessi che produrrebbe se percuotesse un materasso duro, invece è un corpo raggomitolato quello contro cui si accanisce ripetutamente. Picchia e picchia, finché io, aggrappandomi con le bracciotte al bastone alzato, la faccio desistere.
Trascorrono cinque minuti durante i quali Bubi rimane in silenzio, giù a terra. Poi alza la testa: appena si vede sfidare di nuovo da Mafalda imbufalita, che impugna un bastone da anziani come fosse una mazza da baseball, si rimette a cuccia. Quando io e Mafalda attacchiamo a parlottare concitatamente, il senegalese si guarda attorno.
La stanza sembra una cantina. Scura, puzza di muffa e cibi conservati. Nella parete al suo fianco sono appesi dei salami, ma lui non arriva fin laggiù: non riesce ad allontanarsi dal maledetto gancio cui è affibbiato e il semicerchio del diametro misero in cui, dal muro, gli è consentito di muoversi è stato sgombrato da eventuali intralci. Nella parete di fronte sono stati accatastati oggetti alla bell’e meglio: un’asse da stiro, una gabbia usurata e due sedie – una di fronte all’altra – che ospitano uno dei primi modelli postbellici di televisore. Nelle scansie in alto della parete opposta si assiepano barattoli, conserve, una radio degli anni Ottanta con incorporato il mangianastri. Un cestino da sarta. Un contenitore di latta, di quelli che regalano coi panettoni, su cui sta scomparendo il disegno di Babbo Natale.
Bubi ha ripreso a misurare guardingo noi vecchie con la stessa espressione di poco prima: come se, per uno strano sberleffo del destino, fosse stato teletrasportato nella stanza di un ospedale psichiatrico. Non una stanza qualsiasi, no: quella dove vengono curati i peggiori dissociati.
Mafalda alza il braccio decisa a punirlo, ma la fermo prima che sferzi il colpo. «Sta facendo il bravo, non vedi? Lascialo stare: ha capito che non deve agitarsi».
«Non ha capito un corno, questo negraccio!».
È più testarda di quanto credessi, la mia amica. Le tolgo il bastone con uno strattone e lo vado a riporre nell’angolo più lontano, quello vicino alla finestra. Intanto raccolgo da terra la testa di labrador che si era staccata e gliela misuro sopra: quando avrò meno pensieri l’attaccherò col Vinavil.
Il malcapitato non capisce che è più al sicuro se tace e quindi prova a sondare con la sua voce nasale, come se fosse nella fase di convalescenza da un forte raffreddore: «Cosa volete da me? Perché sono qui?».
Non riceve risposta alcuna, quindi continua: «Perché mi avete catturato? C’è dietro lo zampino di Carmela, vero? È lei che vi paga?».
Mafalda porta le mani sui fianchi e lo fissa con atteggiamento di compatimento, ma lui sta andando fuori di testa.
«Cazzo, slegatemi! Ditemi per quanto vi siete vendute! Posso darvi il doppio!».
Basta.
Sono esasperata.
Non ne posso più di questa commedia degli assurdi.
Come ho potuto ficcarmi in una situazione del genere? Sono passata dalla padella alla brace. Vorrei restare sola, tapparmi le orecchie e piangere riesumando i ricordi del mio Juri.
Mi rendo conto che, in fondo in fondo, mi ero baloccata con la scusa della depressione e, adesso che insorgono degli impicci a strattonarmi via dalle mie dosi di autocommiserazione quotidiana, l’irrequietezza scalcia. Ho bisogno di trastullarmi nella certezza del nero bosco di fantasmi dove fuggo dieci volte al giorno. Voglio godermi la mia dose di tristezza, voglio sparire dal mondo, anche: e invece mi ritrovo a fare la guardia a un africano irriverente. Qualcuno mi strappi via da quest’incubo.
Mafalda, invece, mantiene il sangue freddo. Come fa? E il ragazzotto? Non lo capisce, questo miserabile, che dipende in tutto da noi, ora, e non è nella condizione di avanzare ipotesi né richieste? Quei due – Mafalda e Bubi – sono i più forti, qui dentro, ne prendono consapevolezza nel silenzio. Si calibrano, annusano l’aria in quello sfrecciare di diffidenza reciproca. Lui non ci crede ancora di essere in balia di un’arpia che muore dalla voglia di bastonarlo. Lei è intenzionata a vomitargli addosso la sua frustrazione. Poi lui incarna il pericolo più temibile e concreto: che le venga in qualche modo sottratto il nuovo patrimonio. Ecco perché non se ne parla proprio, di slegarlo. «Ascoltami bene, brutto imbecille: ora tieni chiusa quella boccaccia e fai quello che ti diciamo».
Si ferma per respirare a pieni polmoni e, soprattutto, per avere la certezza che lui non abbia da replicare, poi prosegue: «Se ti attieni alle nostre regole, forse salverai la pelle. Prima cosa: non fare domande né su Carmela né su altro. Non parlare proprio, tranne quando sei interpellato. Se non impari a stare zitto, ti taglieremo noi quella lingua lunga e ti cuciremo le labbra con ago e filo».
Lui è ammutolito.
«Seconda cosa: quando ti rivolgi a noi, fallo con educazione ed evita i toni arroganti: siamo delle signore e abbiamo una certa età».
Lui deglutisce, come rivela il sollevarsi e ridiscendere del pomo d’Adamo.
«Terza cosa: non ci dare grane. Obbedisci e segui le nostre istruzioni. Non puoi scappare, nemmeno Superman si slegherebbe dalle mie bende. Tutto chiaro fin qui?».
Lui accenna un sì con la testa.
«Non ho sentito: tutto chiaro?».
«Sì».
Mafalda gli piazza di fianco un bidone della spazzatura col coperchio, da cui sbuca un sacchetto nero, e ci impila sopra un rotolo di carta igienica: «Qui farai i tuoi bisogni».
«Come faccio a slacciarmi i pantaloni?».
Lo scrutiamo ideando una soluzione, finché Mafalda gli si avvicina violando la ritrosia di quello e intaglia nel bendaggio due aperture con le forbici, perché le mani abbiano un po’ di libertà di movimento. Poi gli sfila i pantaloni lasciandolo in mutande.
Estrae da un blister quattro pastiglie e gli si avvicina con dell’acqua. «Ora è ancora giorno e noi abbiamo da fare, non riusciamo a badarti. Ti farai una dormitina tranquillo fino a domattina».
«Cos’è?».
«Avevamo detto niente domande... o vuoi essere picchiato ancora? La prossima volta non mi fermerà nessuno. Apri la bocca!».
Bubi l’asseconda, deglutisce il sonnifero, nemmeno mezz’ora e serra gli occhi, li riapre per controllare, li richiude definitivamente, si corica per terra, si sposta ripetutamente per trovare una posizione meno scomoda e rovescia la testa all’indietro.
Assistiamo per dieci minuti all’anestesia forzata, poi torniamo in salotto con passi stanchissimi.
Comincio a pregare un dio in cui non credo, affinché faccia terminare al più presto quest’incubo, ma il dio non dà segnali di soccorso, quindi mi appello a Mafalda: «Ora che facciamo?».