Le Sultane

Il lunedì mattina è difficile far alzare Casimiro dal letto, nemmeno una colazione da principi costituisce per lui motivo di interesse.

«Svegliati, ti ricordi cosa devi fare oggi? Corradino viene alle nove» lo sollecita Nunzia.

Quando Casimiro si presenta in salotto con uno sguardo da influenzato, si ritrova una colazione luculliana da cui non viene minimamente colpito. Un quarto di Saint Honoré rimasta dal giorno prima, dei toast freddi farciti, uova al tegamino sbattute all’americana con la pancetta ben fritta nel suo stesso grasso. Poi latte, caffè, succo di ananas, zabaione da aggiungere al cappuccio. Alla faccia del diabete e dell’obesità.

«Ma devo proprio andare?». La voce di suo fratello è una cantilena di fiacca.

«Certo che devi andare, su. Muoviti e...». Gli punta l’indice e gli rammenta le raccomandazioni avanzate la sera precedente. Non toccare niente. Limitati a dare consigli. Non andare nella stanza delle bare.

Lui, conoscendo la fissazione della sorella e non volendo contraddirla, assente a tutto. Si impegna ad accontentarla perché non si vuole invischiare in sterili discussioni. Inoltre si sente in colpa con lei, dalla notte in cui l’ha aggredita, e ritiene che la tattica più sicura per ottenere un perdono plenario sia procacciarselo con l’accumulo delle approvazioni.

Butta giù una tazza di caffè, col pensiero che già corre al primo bicchierino che seguirà: il suo sforzo maggiore, mentre sosterrà il povero Corradino verso l’agenzia di pompe funebri, sarà farlo deviare – ma giusto cinque minuti – in un bar qualunque. Si lava poco e velocemente e si veste con lo stesso completo del giorno prima: pantaloni grigio scuro, camicia e pullover antracite. Puntuale come uno scolaretto, alle nove meno cinque secondi suona Corradino, e Nunzia, pensando che arrivi sempre da una casa infestata dall’alone di morte, nemmeno gli chiede se vuole salire.

Rimasta sola, Nunzia addenta l’ultima fetta di torta rimasta, convincendosi che non sia sano mantenerla in frigorifero per più di due giorni e che, del resto, sarebbe un sacrilegio buttarla nel pattume. Comincia a masticare con dedizione orgasmica quando bussano alla porta, e allora apre di scatto gli occhi, grida «Arrivo!», afferra il pezzo di torta rimasto e se lo ficca in bocca. Lo inghiottisce quasi senza nemmeno masticarlo.

Quella che si trova di fronte non è l’amica Wilma, bensì il suo simulacro. Smagrita di almeno un chilo, con uno dei suoi vestiti a fiorellini – rosa su un fondo nero – indossato al contrario cosicché sui fianchi risalta la cucitura interna e, in fondo, l’etichetta con la taglia large e quella con la composizione del tessuto – 30% cotone, 70% lycra –, ma soprattutto contraddistinta da un particolare inaudito per una persona attenta all’immagine come lei: i capelli a soqquadro.

«Wilma, stai bene? Hai il vestito al contrario».

Wilma si guarda dall’orlo in su. «Sorbole, hai ragione».

«Tutto bene, sicura?».

«Sì, hai del latte?». La sua voce è quella di chi non beve dopo una notte passata a ingerire sale.

«Certo, vieni dentro».

«Non posso, ho fretta», e nota due bricioline di panna sopra il labbro destro dell’amica.

«Perché, cosa devi fare?».

«Emh... devo andare a lavorare».

«Dai, entra un secondo soltanto. Hai sentito di Corradino?».

«Cos’è successo?».

«È morta la sua mamma», e si fa il segno della croce. «Stamattina Casimiro l’ha accompagnato alle onoranze funebri».

«Oh, che brutto!». Gli occhi di Wilma si caricano di lacrime.

«Dai, vieni dentro», e le prende la mano. Nemmeno il tempo di arrivare alla sedia, che Wilma erompe in un pianto. In realtà non è destinato alla defunta, non ci aveva intrattenuto alcun rapporto se non una volta, quindici anni prima, quando le aveva venduto un pacco.

L’amica la veglia dall’alto, quasi cingendola mentre, seduta, lei piange sconfortata. Nunzia le accarezza la testa e aggiunge qualche pacca sulla spalla, pensando che, forse, alla loro età una reazione così denota una semplice fobia che le accomuna: la paura della morte. Già, perché un buon sessanta per cento dello sgomento che ci coglie, di fronte alla notizia della morte di persone di cui sappiamo l’esistenza ma con le quali non abbiamo vincoli d’affetto, è dovuto all’assimilazione cruda di un dato inconfutabile: la morte esiste, può permettersi di aggirare il preavviso o giocherellare in una lunga agonia, non è corruttibile, non va a simpatie, piomberà anche se riusciamo a eluderne il pensiero, un giorno tocca a uno, un giorno all’altro, e di certo toccherà anche a noi. Forse prima di quanto immaginiamo. Se Wilma si abbandonasse all’abbraccio di Cristo, continua a pensare Nunzia, forse la affronterebbe con più serenità. Ma Nunzia non può immaginare quali losche preoccupazioni attraversino la mente afflitta di Wilma.

Come ho potuto? Wilma si tempesta con la stessa domanda ricorrente, cui ne segue ineluttabilmente un’altra: come ne usciremo?

Vorrebbe svegliarsi e scoprire che è stato un incubo, ma la vita concorre a sbatterle in faccia la cruda realtà: è successo tutto esattamente come ricorda e non può tornare più indietro. Il pensiero del ragazzo impacchettato nel suo appartamento – Mafalda si è presentata con un’incursione mattutina e ha insistito per inchiodargli la bocca con del nastro adesivo – la colma di disperazione: se lo libera – azione che ad ogni secondo è tentata di arrischiare – lui si vendicherà. Altrimenti... cosa succederà? Non si fida più di Mafalda o, per lo meno, non si fida ciecamente di lei, l’ha vista in azione e le sembra che l’avidità prevalga sulla moralità, per non parlare delle eruzioni di rabbia. Poi le questioni prosaiche si sovrappongono a quelle alte: si ricorda che gli deve svuotare il secchio che usa come water e la cosa non la riempie di gioia. E se corressi alla polizia e confessassi tutto? Una vocina le dice di no, la stessa vocina che, ora che suona il telefono di Nunzia, le rammenta di muoversi: è scesa per chiedere del latte da dare al suo prigioniero. È Betta, Nunzia confabula qualcosa con lei, tante raccomandazioni come fumi di vapore che escono da una pentola borbottante, poi la ragazza la vuole salutare. E quando la vecchia accosta all’orecchio la cornetta, la giovane straripa in una cascata di apprensione: «Wilma, ma che succede, sei arrabbiata con me? Ieri avevi detto che mi avresti chiamata e non l’hai fatto. Ho la sensazione che mi eviti... Non siamo più amiche? Avrei tanto bisogno di te, in questo momento, mi stanno succedendo tante cose, lo sai che con mia madre non ne posso parlare... Wilma ci sei?».

«Eh?».

«Mi senti?».

«Sì...».

«Dimmelo: sei arrabbiata con me?».

«No, scusami tanto, sono stati giorni difficili questi. Senti, promesso: ti chiamo tra poco».

«Va bene. Ti aspetto».