Wilma

Che strazio, questo prigioniero. Ingurgita una tazzona di latte come se non bevesse da una settimana, due rivoli gli scendono lungo gli angoli delle labbra. Non lo pulisco, mica sono la sua mamma. Gli sollevo la tazza assecondandone le sorsate voraci, le sue mani spuntano da sotto le bende: è da ieri sera che non mangia.

Spero che suoni presto Mafalda, sono le undici e mezza inoltrate, dobbiamo decidere sul da farsi e trovare urgentemente una collocazione a questo peso umano, non può restare qui. Lui approfitta dell’assenza della mia amica per tirare acqua al suo mulino con una voce un po’ stridula, un po’ implorante. «Liberami, ti prego».

Oh, no. Ci mancavano anche le suppliche, se questo crede di smuovermi sta fresco. Lo guardo con un misto di pietà e ansietà, mentre scuoto la testa poco convinta.

«Ti prego, liberami prima che arrivi quella sciroccata!».

Non devo rispondergli. La cosa migliore è non dargli corda.

«Aiutami, lo so che tu sei diversa».

«Mi dispiace, ma... non posso».

Non mi freghi, cocco.

«Sì che puoi. Non ti farò niente, me ne andrò e non mi rivedrai più. Non puoi tenermi qui per sempre». La voce di lui ora diventa dolce, che pezzo di ipocrita, gli occhi sono due faine braccate nelle tenebre della stanza. Scuoto la testa e, per evitare che insista, gli fisso le labbra con del nuovo nastro adesivo.

Poveretto, penso, quando esco dalla stanza chiudendomi dietro la porta.

E se lo lasciassi andare?

Mafalda andrebbe su tutte le furie, non posso... Non si sa mai che le venga in testa di denunciarmi, in fondo sono io l’assassina di Carmela. Lei mi ha aiutata a disfarmi del cadavere e non ha nessun interesse che la cosa salti fuori, ma visto che dovremo conservare per sempre questo vergognoso segreto, è meglio non inimicarmela.

Se almeno non mi lasciasse così sola...

Quanto lo stiamo tartassando, il ragazzo. Lo trattiamo come l’ultimo dei servi. Ha dovuto dormire sul pavimento, stamattina nemmeno gli ho scaldato il latte. Ovviamente non ho proprio considerato di aggiungerci uno di quei bei caffè che ci beviamo con Betta. La Betta! Emetto un verso. Devo telefonarle, subito. Quanto l’ho trascurata in questi giorni di fuoco.

«Wilma, ti aspettavo...».

«Stella, sono stati giorni molto brutti, scusami: non ce l’ho fatta».

«Cos’è successo?».

«Niente, niente... ero triste, ecco. Ma dimmi di te», e sospiro come preludio di un lungo ascolto.

«Allora, ricordi che ti avevo raccontato che con il mio capo era finita perché avevo scoperto che lui se la faceva con la tizia nuova dell’ufficio estero, più giovane di me? Da sei mesi, pensa: portava avanti in concomitanza le due relazioni da sei mesi!».

«Sì, mi ricordo».

«Ecco, io l’ho lasciato e ora abbiamo solo rapporti professionali. Lui non ha nemmeno provato a riconquistarmi, che delusione...».

Interrompo l’attenzione, mi sembra di udire dei rumori dalla stanza del prigioniero. Poso un secondo la cornetta sul mobile e mi addentro di qualche passo nel corridoio. Niente. Torno indietro che la voce prosegue il discorso: «...per fortuna non avevo detto niente a mia madre, te l’immagini che casino ora sarebbe?».

«Già».

«Comunque non è di questo che vorrei parlarti, sai?».

«No?».

«O meglio, in questi giorni sì: volevo solo essere consolata. Ma mi è accaduta una cosa incredibile...».

«Dimmi».

«Sai cosa è successo poco fa? Dunque, ero appena arrivata al lavoro che mi ha chiamata lo zio».

«Casimiro?».

«Sì, lui. Aveva una voce molto dimessa, mi ha pregato di aiutarlo. Mi ha raccontato che mia mamma l’aveva costretto ad accompagnare Corradino alle pompe funebri Fratelli Ducciati – lo sai, vero, che è appena morta sua madre? –, ma lui – Casimiro, dico – l’ha trascinato in un bar e quello, che la cosa più alcolica che è abituato a mandare giù è la zuppa inglese, si è ubriacato con due campari e, come se non bastasse, ci hanno aggiunto dietro una bottiglia di Brunello di Montalcino. Insomma: un disastro».

«Oh mamma mia!».

«Infatti. Lo zio mi ha chiamata dal bar e sentivo in sottofondo Corradino che ululava quella canzone sulla mamma, sai quella che dice... Mamma son tanto felice perché ritorno da te?».

«Sì, di Beniamino Gigli».

«Ecco, lo zio era disperato, ha detto che se non si sceglieva la bara la mamma l’avrebbe buttato fuori di casa, non l’ho mai sentito così preoccupato, e tu sai che io non sono una sua grande sostenitrice, dopo tutto quello che...».

«Sì».

«Così, quando mi ha scongiurato di aiutarlo e di andare alle pompe funebri... non ho saputo dire di no. Ho chiesto un permesso al lavoro e l’ho accontentato».

«Be’, deve baciarsi i gomiti ad avere una nipote come te».

«Ma senti, Wilma: avevi ragione quando dicevi che non tutto il male viene per nuocere...».

Finalmente stimolata nella curiosità, vorrei sollecitare Betta a parlare velocemente, ma a malincuore devo interrompere la comunicazione, perché sento ciò che aspettavo da ore: i passi veloci di Mafalda che si stoppano fuori dal portone.

«Non potevi venire prima?» domando a Mafalda.

«Wilma, ti prego: non mi aggredire ogni volta. Ho un marito gravemente malato e lo curo da sola».

«Lo curi da sola e male perché non vuoi pagare la badante, eppure il comune te lo passerebbe l’assegno per pagarla!».

Se sapessero come badi a lui, quel pover’uomo, una bella denuncia per maltrattamento d’incapace non te la leverebbe nessuno! Con che cuore lo puoi trattare così? Questo no che non glielo dico.

Mafalda aggrotta le sopracciglia e incrocia le braccia.

«Come fai a saperlo?».

«Cosa?».

«Dell’assegno, intendo. Chi te l’ha detto?».

«Lo sanno tutti qui. E comunque scusami, sono fatti tuoi», e mi passo una mano sulla fronte per asciugare le goccioline da stress. «Davvero, scusami. Sono un fascio di nervi, non ho chiuso occhio stanotte, sediamoci».

«No, adesso mi dici chi te l’ha detto». Apre le mani seccata e intanto un’ondata di cipolla si diparte dal pullover color mulo con fantasia a zig zag.

«Nemmeno mi ricordo. Lascia stare, Mafalda, abbiamo questioni più importanti da sbrigare. Il tipo di là... quando lo liberiamo?». Mi siedo, lei mi imita.

«Stai scherzando, spero».

«In che senso?».

«Come ti salta in mente che si possa liberare? Sarebbe una mina vagante».

Mi perdo con lo sguardo nella confusione. Come si è ridotta, la mia casetta. Il salotto è abbandonato a se stesso. I piatti del cucinotto stanno in bilico male accatastati. Sul tavolo, sopra un ripiegamento di carta stagnola giacciono un toast al tacchino su cui sono impressi gli archi dei morsi, poi pezzi di benda, alcol, la bottiglia vuota del latte e la tazza in cui ha bevuto Bubi.

Provo a insistere.

«Se prometterà di stare zitto, lo possiamo lasciare andare?».

«Certo che no!». Mafalda batte una mano sul tavolo. Sai quanto contano le promesse di uno scavezzacollo come lui?».

«Non possiamo provare a dargli fiducia?».

«Ti sei dimenticata quanto ci ha fatto penare?».

Effettivamente abbiamo visto i sorci verdi, per colpa sua e di Carmela. Due scriteriati ostinati nei propri porci comodi, nemmeno salutavano, anzi: ci scansavano. Non per questo, però, Carmela meritava di morire, e non per questo il balordo segregato di là deve attendersi una brutta fine. Ci sarà pure una soluzione alla nostra situazione grottesca. Mi tocco le tempie, sto ancora grondando nonostante non sia affatto caldo, l’autunno oggi reclama il suo clima. «Va bene, Mafalda. Allora dimmi: cosa ne vuoi fare?».

Mafalda mi guarda da dietro le lenti imbrattate di aloni.

«Non lo so».

«Come non lo sai?».

«L’ideale sarebbe liberarcene».

«E come ce ne liberiamo?». Tra le parole si insinua un’avvisaglia di pianto isterico.

«Non-lo-so. Capito? Non ne ho idea».

Mi alzo, strappo due pezzi di Scottex dal rotolo e torno a sedermi tamponandomi la fronte, mentre lei prosegue: «L’ideale sarebbe che non esistesse più».

No, questo no.

La fisso inorridita, già una lacrima precipita sulla tovaglia di plastica del tavolo, fondo giallo a quadretti color edera. «Lo vuoi uccidere?».

«Non ho detto questo, ti ricordo che non ho mai ucciso una persona, io».

«Ah no? E allora cosa intendevi, cara la mia santissima Immacolata?». Mi asciugo gli occhi con uno scottex.

«Intendevo che l’ideale sarebbe che sparisse».

«Come, con un colpo di bacchetta magica?». A ogni replica mi tiro indietro contro lo schienale della sedia e alle lacrime di poco prima sostituisco un sorriso beffardo.

«L’ideale sarebbe che morisse di morte naturale».

«Certo, per un’inverosimile coincidenza del destino. Scordatelo, Mafalda, non accadrà».

«Potremmo farlo accadere noi».

«Come?».

«Be’, se non gli diamo da mangiare... non è un omicidio diretto, intendo... certo, se ci scoprissero finiremmo in carcere, però se lui muore non per colpa di un coltello o di una pistola, insomma: non è proprio morte violenta... Se ci dimentichiamo di lui e lo lasciamo imbavagliato nella tua stanza... non so, io mi sentirei meno in colpa. Siamo anche vecchie, un’amnesia può capitare».

Balzo in piedi con tale prepotenza che la sedia precipita a terra. E tuono, con volto atterrito: «Tu sei davvero mentecatta! Più di quanto pensassi!».

«Ma come... come ti permetti?». Mafalda sembra non rendersi conto di nulla. È questo che crea tanto disorientamento in me: la mia amica prosegue la sua ributtante vita senza porsi domande, come se fossimo tornate da una gita gravosa e le nostre mani non si fossero macchiate di sangue, ma solo di fango.

«Come puoi pensare una cosa del genere?». Abbasso la voce e mi guardo le spalle. «Farlo morire di fame sarebbe un omicidio eccome, il più feroce...».

«Io non ho detto che lo voglio uccidere. Ho detto che sarebbe l’ideale se lui morisse, tutto qui».

Sospiro esausta. Raccolgo la sedia e, insieme a essa, tutta la pazienza che mi è rimasta, in parte esalata in un sospiro fondo. «Va bene. Scartata questa soluzione, cos’altro proponi?».