«Quando me lo porti via, allora?».
«No, Wilma, non ci siamo capite. Per ora non possiamo spostarlo».
Alzo gli occhi al cielo e sbuffo insofferente.
«Ma io devo lavorare!».
«Quando andrai al lavoro resterà buono e imbavagliato».
«E chi gli darà da mangiare, chi gli pulirà quel... quel...». Indico verso il corridoio con una smorfia di ripugnanza. «...quello schifo di bidone? Bisognerà pure assisterlo, lavarlo... No, io non ci sto cara».
Siamo entrambe in piedi davanti alla tenda color crema del cucinotto, ondeggia ogni volta che ci prendo contro protestando. Mafalda si piega, mi stringe le mani per tranquillizzarmi. «Non ti preoccupare. Lo sfamerò io e lo pulirò io».
Mi sento gli occhi disfatti. Da giovane sbattevano seducenti, occhi da cerbiatta dalle ciglia lunghe, sempre truccate col mascara cosicché sembravano ancor più lunghe, ora han perso tutto il loro fulgore, sulle palpebre pesa la vecchiezza del mondo.
«Non sei soddisfatta nemmeno di questo, Wilma?».
«Almeno ho un pensiero in meno, però... però ti chiedo di provvedere al più presto a togliermelo dai piedi, non dormo da due giorni».
«Va bene. Torno stasera con la cena per lui».
«Io non lo voglio vedere, non lo voglio sentire, provvedi tu per la notte».
Quello caccia un gemito e, mentre la mia amica si avvia di buona lena verso l’interessato, qualcuno suona al citofono. Corro ansiosa a rispondere, chissà perché mi angustia lo spavento che sia la polizia.
«Mamma, sono io».
«Melania!».
Ho la sensazione che il cuore mi finisca in fondo alla pancia e poi risalga in gola per attaccare in tachicardia.
«Apri».
«No!». Mando giù la saliva. «Non posso».
«Mamma, dai, apri!».
«Oggi no, Melania, non mi hai avvisata».
«Mamma... sei impazzita? Quante volte vengo senza avvisare?».
Il tempo gassoso da sultana finalmente si contrae, come se una manaccia lo strizzasse in quei secondi di botta e risposta amari con mia figlia. Mi mordo la lingua, vorrei dirle che la accoglierei subito, senza esitazione, perché lei è comunque la benvenuta, è il mio cordone impossibile che non si lascia agguantare ma rimane attaccato, sangue del mio sangue, bambina inaffidabile marchiata a fuoco dalle disgrazie. Resterà sempre la mia Melania, anche così rabbiosa e puzzolente, reietta, col cuore freddo e le tasche vuote, un tatuaggio detestabile sul collo. Perché una mamma passa sopra tutto, una mamma dimentica le scortesie, le accuse, le burrasche, una mamma lo sa che anche dietro al rancore può celarsi una protesta o una richiesta di attenzione. E che perfino l’odio, quando non si scioglie litigando, verso sera si dissipa.
Melania suona di nuovo, due, tre volte, con veemenza, e sbatte un pugno contro ai citofoni, premendo anche quello di Carmela, al quale, naturalmente, non risponderà nessuno.
«Apri ’sta cazzo di porta!».
«Melania, non fare scenate: questa volta ti ho detto di no». Credo che non mi abbia mai sentita così ferma.
«Ma cosa ti ho fatto? È per l’ultima volta, eh? Perché non ho preso la melagrana?».
Non so cosa dire, mi esce solo un sospiro che le arriva metallizzato attraverso i condotti.
«E allora perché? Perché non ti ho telefonato?». La voce è così arrabbiata che sembra di un uomo. «Apri! Apriii!».
«Non mi hai avvisata». Oppongo la prima stupida scusa che mi viene in mente.
«Cazzo, mamma, non ho il cellulare, lo sai».
A sentire quelle parole comincio a singhiozzare. Mia figlia ridotta così. Mi piange il cuore, d’istinto vorrei invitarla a salire, cucinarle qualcosa di tiepido e buono, qualcosa che sa di rifugio e di famiglia, e poi indurla a fare un bel bagno caldo e mollarle in mano un rotolo delle nuove banconote, anche se so che finirebbero presto nelle casse della setta. Perché se non lo si condivide, il bottino... che gusto c’è? Cosa si guadagna a spartirsi da soli le proprie conquiste? Il pensiero finisce su domande antiche, le stesse di sempre. Ma io non ho le risposte.
C’è una via d’uscita?
Quale colossale errore ho commesso?
Lo devo ammettere: non sono stata una buona madre, come Melania ogni tanto provvede a ricordarmi, e non manca nemmeno questa volta. «Sei una madre del cazzo!».
Già troppo in lacrime non rispondo, lei si innervosisce, la urtano i miei pianti, li associa al richiamo lugubre che sentiva per casa quando ancora ci abitava, quando era costretta a vedermi attraversare le stanze sussurrando Juri, lei a un certo punto ne usciva matta e mi compariva dinnanzi imbestialita urlando: Basta! Basta, cazzo! Smettila di chiamarlo, Juri non c’è più, non tornerà mai più! È morto e sta marcendo sottoterra! Ma io non son mai riuscita a smettere, i muri non rispondono, conoscono i miei desideri – restituirne il simulacro al tempo deserto di questa infelice sultana. Così, dopo che chiudo la cornetta troncando la comunicazione, lei se ne va, lanciando improperi.
Mafalda tiene in mano una mazza da baseball – di Juri, come i guantoni appesi al muro – e sfida Bubi con un minaccioso gesto di pre-lancio. «Sgarra una volta e sei finito».
Lui non ci crede. Non può essere.
Gliela si legge in faccia la costernazione, mi arriva il suo pensiero. Quella signora attempata, dagli arti allungati e flaccidi, tutta storta – la schiena ingobbita, il busto un rettangolo sghembo –, coi capelli divisi in due strisce, capace di emanare ventate di soffritto di cipolla ogni volta che muove le braccia da quel maglione a zig zag che ormai ha fatto storia, ecco: quella gli si rivolge con la parlata da mafioso.
Lo sguardo con cui Bubi la segue oltrepassa la meraviglia, lo sconcerto e il timore. Il livore della mia amica Mafalda si è rafforzato anche per colpa delle sue scorrettezze. Quel giorno in cui si erano scontrati nel retro della casa – quante volte ce l’ha raccontato. Lui stava facendo retromarcia con l’automobile per completare la manovra di uscita dal parcheggio, lei stava indietreggiando, a piedi, colma di borse di frutta che le avevo appena regalato. Lui l’aveva colpita con l’angolo del paraurti, niente di grave, però una bella botta: erano cadute a terra cinque mele, ammaccandosi. Il momento più drammatico era venuto dopo: lui era sceso arrabbiatissimo dall’auto, si era messo a lisciare il suo paraurti – illeso –, quindi si era rivolto a Mafalda ringhiandole parolacce oscene. Mafalda non gli aveva risposto ma se l’era legata al dito. Il risentimento è una lupa appestata che rimanda la vendetta al giorno propizio.
«Hai capito, villano da quattro soldi, cosa ti ho detto?».
«S... sì».
«Con tutto il tempo che hai a disposizione, dovevi uscire proprio in quel momento e accorgerti dei birilli, eh?».
Lui vorrebbe mettersi a piangere, ma è disidratato di energie fino al midollo. Respira aprendo le narici, che risaltano nel piccolo naso camuso.
«Rispondimi: non potevi sorvolare e dimenticare quegli stupidi birilli?».
Lui chiude gli occhi, le narici ancora aperte. Non ha più senso rispondere.
Non ha più senso niente.
«Bene. Qui c’è del cibo. Ora ti do la pappa, poi ti lascio solo un’oretta, così fai i tuoi bisogni», e indica il bidone, «...e torno a pulire. Se Wilma mi dice che hai fatto il cattivo, assaggerai le mie legnate. Tutto chiaro?».
«Sì... sì... posso avere un po’ di acqua?».
Mafalda sbuffa, si dirige di là a recuperare un bicchiere e una bottiglia di minerale, versa l’acqua e gliela schiaffa tutta in bocca, mentre elenca altre disposizioni. «Stanotte guai a te se fai casino, Wilma è stanca morta e ha bisogno di dormire. Se la mia amica collassa dalla stanchezza per colpa tua, ti stacco a morsi le manine», e allunga il mento verso le dita che sbucano da sotto la fasciatura.
«Ne vuoi ancora?». Sa che lui risponderà di sì: metà acqua del bicchiere gli è colata giù dal petto fasciato.
Glielo porge malamente, lui deglutisce con avidità quella che non gli scorre tra le nervature del collo. Io non oso intromettermi.
Mafalda prende una sedia e si accosta a lui, a sua volta seduto sul pavimento. Il gelido che esala dal basso sarà tutto concentrato nel sedere e nella parte inferiore della schiena, non ho ancora acceso i caloriferi. Probabilmente Bubi non sente più le mani né i piedi, le prime oppresse dal bendaggio, i secondi perché il laccio che lega le caviglie è stato stretto all’inverosimile. Mafalda scartabella nel sacchetto che si è portata dietro, estrae un pezzo di carne e glielo tira.
Lui lo addenta al volo, schiavo della propria fame, come un felino che si slancia feroce contro la gabbia, minuscolo nella propria umanità degradata, selvaggio, ridotto ai minimi termini dei bisogni essenziali: un po’ di acqua, un po’ di cibo, riparo. Ingolla il pezzo quasi intero, senza nemmeno masticarlo, e con un verso involontario spalanca le fauci alle mani aguzzine, proteso verso il nutrimento.
Ha una fame da lupi. La carne gli sembra sopraffina. Dal pezzo che brandisce la mia amica, mi arriva un profumo speziato. È bruciacchiata fuori con le striature della griglia e cruda al centro.
«Ti piacciono gli hamburger?».
Io faccio un passo indietro nella penombra.
Lui annuisce e si lecca le labbra.
«Bene. Perché questo ti piacerà sicuramente», e glielo butta come si fa coi cani.
Giù un altro pezzo. E un altro e un altro ancora, lui divora inconsapevole di ciò che sta mangiando, mentre io osservo con la bocca aperta, incapace di oppormi. Il raccapriccio mi paralizza e posso solo assistere impotente a questa scena atroce, vedo volare i tranci uno dopo l’altro, le fauci spalancate e la matta bestialità della pantomima cui sono costretta a presenziare.