Le Sultane

Finalmente il mercoledì arriva, giorno deputato per mettere in atto biechi propositi. Non avevano potuto evitare di coinvolgere Nunzia. Ogni volta che si andava da Prisco si coglieva assieme l’occasione per godersi una bella gita e, se l’avessero lasciata a casa, si sarebbe potuta insospettire: non era mai successo. Tanto più dopo la giornataccia del martedì. Al pomeriggio si erano svolti i funerali e Corradino, vuoi per l’ubriacatura del giorno prima, vuoi per la costernazione sincera, era da raccogliere col cucchiaino. Anche Mafalda aveva sgobbato sodo, tra il marito e il nuovo arrivato. Lo domerà, Mafalda ne è sicura. Digiuno dopo digiuno, bastonata dopo bastonata, quel negretto tanto presto ad alzare la cresta si addomesticherà. Già si è piegato ai ritmi: di notte la nanna viene indotta con un alto dosaggio di Tavor. Viene svegliato presto e per colazione due bicchieri di latte. Stop. Niente pranzo e, se fa il bravo, a cena può aspettarsi una doppia porzione di carne – la mangia come un lupo famelico, se solo sapesse... – e un po’ di pane secco. Ovviamente Mafalda gli serve gli scarti degli scarti, vale a dire il pane rimasto dal piatto di Giorgio.

Wilma si rifiuta di entrare in quella stanza, ma lui la ode passare ogni tanto. Gli fa paura, perché la sente chiamare: Juri, Juri, Juri.

Acqua, gliene servono al giorno cinque bicchieri di rubinetto, non di più, se no piscia troppo e Mafalda non ha certo voglia di passare il tempo a svuotare quel bidone che già emana un fetore putrido.

Le Sultane si allontanano da via Damasco sulla Escort diesel di Wilma – lei guida con il finestrino leggermente abbassato, la mano sinistra sul volante e la destra sul cambio, sigaretta incastrata tra indice e medio, marcia con quell’atteggiamento adagiato e salottiero che assume lei e fa tanto spazientire gli altri automobilisti. Nella mite mattinata autunnale, è Nunzia che provvede a richiamare Bubi alla mente: «Ohi, sentite! Con tutto questo tran tran del funerale mi è passata di mente Carmela, ieri volevo salire per vedere come stavano, Bubi era tanto giù sabato...».

Mafalda e Wilma siglano il disagio scambiandosi uno sguardo. Sono entrambe davanti, Nunzia non se ne accorge. «Voi l’avete visto?».

Le due si guardano di nuovo, Wilma allarmata, Mafalda sull’attenti. È lei a prendere in pugno la conversazione, mentendo con disinvoltura: «No, non l’abbiamo visto».

«Ma che strano... Quando torniamo a casa, vado a salutarlo».

«Com’è che sei così in confidenza, dopo tutto quello che ci ha fatto?».

«Io, in confidenza?».

«Mah... tutto questo interesse per un villano che ci ha sempre trattate a pesci in faccia...».

Nunzia lancia un’occhiata fuori dal finestrino, Wilma svolta nel raccordo della strada di pianura. La terra livellata si fraziona in una fantasia scozzese di campi color muschio e nocciola. Le nuvole macchiano tenui il cielo, come micosi leggera su una pelle azzurra. Proprio nel cielo trova la sua scusante, Nunzia: «Mafalda, dimentichi che sono una buona cristiana, io. Tu non l’hai visto quanto soffriva per la sua amata».

«No, ma ricordo tutte le volte che ha fatto la carogna con noi».

«Ecco, io sì che l’ho visto, caro ragazzo. Ho rintracciato la parte buona che si nasconde in lui». Un segno frettoloso della croce e ricomincia: «Dopo, comunque, un salto da lui lo faccio. Mi dà l’idea del povero cucciolo abbandonato».

«Hai dimenticato quella volta che mi ha coperta d’insulti? Se fosse successa a te una cosa del genere, e io stringessi amicizia col responsabile, tu mi toglieresti il saluto!».

«Ma io non sono sua amica! Io sono solo in pena. È pietà cristiana questa, non amicizia».

Mafalda emette uno sbuffo innervosito. «E poi chi ti ha detto che sia in casa? Magari se ne è andato via, anzi: avrebbe fatto meglio a svignarsela, non potrebbe nemmeno restare in quell’appartamento, lo sappiamo tutti che è un ospite abusivo».

«Tanto lo Iacp non manderà mai un controllo, figurati se sprecano del tempo con noi. Vedrai che quella pazzerella di Carmela è già tornata e ora se la stanno spassando come due sposini in luna di miele, hihihi!» – i riferimenti erotici suscitano sempre qualche risolino adolescenziale, in Nunzia.

Mafalda insiste: «No, secondo me Carmela non torna».

Wilma le lancia un’occhiata di riprovazione, come per dire “Vuoi tenere chiusa quella boccaccia?”, e butta fuori dal finestrino quel che rimane della sua sottilissima sigaretta.

«E perché mai non dovrebbe tornare?».

«Mah, lei è una da colpi di testa. Metti che abbia conosciuto un nuovo flirt e se ne sia scappata via con lui».

Nunzia valuta sotto una nuova luce questa possibilità.

«Effettivamente... però, mettiamo anche che lei se ne sia andata per sempre: a maggior ragione Bubi dovrebbe aspettarla in casa, almeno le prime settimane».

«No. Se ha un po’ di orgoglio, come spero che sia, anche lui se ne dovrebbe andare via. E definitivamente».

Il podere di Prisco è costituito da undici ettari fra campi e frutteti, più due laghetti destinati all’allevamento di pesci rossi, nascosti dai filari di viti. Wilma parcheggia l’automobile di fianco all’orto e subito le donne notano dai finestrini il rigoglio sferico delle verze e delle loro foglie increspate. Lì accanto detona l’arancio striato delle zucche, ce ne sono di diverse misure, ma tra tutte ne spicca una grandissima, fulva, si potrebbe scambiare per una grossa volpe appollaiata: domina l’orto come se aspettasse da un momento all’altro di tramutarsi in carrozza. Radicchi rossi, porri, finocchi e indivia riccia completano il collage della tavolozza autunnale.

Il cane abbaia minaccioso. Le tre non si fanno intimorire, sanno che è legato a una spessa catena. Escono colme di sacchetti e pacchi, come regine cariche di forzieri, chiudono le portiere, si tamponano capelli e borsetta a tracolla, quei trenta secondi per riassestarsi dopo un viaggetto durato quaranta minuti: una passeggiata per Wilma, che è abituata a coprire grandi distanze quotidianamente, una sfacchinata per le altre.

Prisco le aspettava. Prima zittisce il pastore tedesco stringendogli il muso con una mano e con ripetuti “Shhhhh, buono!”, poi va loro incontro col suo sorrisone inconfondibile, un dente sì e uno no e sopra uno spazzolone di baffi scuri dritti dritti e incredibili per i suoi ottantatré anni: nemmeno un pelo bianco, le amiche credono che lui se li tinga, diversamente dai capelli canuti che gli incorniciano arzilli la testa. Si vedono solo quelli che sbucano da un cappellino verde con visiera che non si toglie mai, nemmeno in casa.

Lui si tocca la visiera – un gesto ricorrente, quasi un tic – le abbraccia in segno di benvenuto: è proprio contento che siano arrivate. L’ultima volta hanno fatto le veci della sua defunta moglie: gli hanno riordinato da capo a fondo tutta la casa e gli hanno perfino pulito il forno. Prima, però, gli avevano chiesto il permesso: ché senza non si azzardano a spostare una foglia, lui crede di avere sotto controllo ogni ettaro e ogni insetto che lo calpesta.

«Vi faccio assaggiare il mio lambrusco?» le accoglie gaio.

«Ma sono solo le dieci, Prisco!» ribatte Wilma. Il suo pensiero impellente è rivolto al fabbricato oltre l’aia e alla stalla adibita a conigliera, laddove una quindicina di maiali grufola e si rotola beatamente nel fango. Wilma, quando lo aveva chiamato per avvisarlo della loro visita, aveva anche aggiunto di lasciare i maiali a pancia vuota perché avrebbero provveduto loro a portare del cibo, era avanzata della carne in macelleria, ottimo manzo in quinto quarto.

«Lo assaggiamo dopo, il lambrusco. Piuttosto... Nunzia ti ha portato una torta di ricotta e ribes, lasagne ai carciofi e altre leccornie che, se vuoi, puoi congelare... intanto io e Mafalda andiamo a dar da mangiare ai maiali, la carne non va bene fuori dal frigo».

«No, aspetta!». Lui si tocca ancora il cappellino. «È troppo presto, stamattina ho dovuto dar loro qualcosa, perché senza colazione dopo diventano irrequieti... per ora sono a posto».