Mi porto appresso la medesima sensazione di stanchezza che mi strascico dietro da quello stramaledetto sabato del delitto. Ho dovuto peregrinare l’intero giorno per appuntamenti di lavoro – perlopiù pacchi venduti nella zona del ferrarese. Mi hanno pure fermata dei finanzieri, hanno preteso che aprissi il bagagliaio e, quando hanno esaminato le lenzuola ricamate e gli asciugamani, mi hanno chiesto i documenti. Che almeno porgessi loro una bolla, un blocco per le fatture. Ho improvvisato la solita messinscena: sono scoppiata a piangere – senza troppi sforzi, mi è bastato pensare alla telefonata di Melania – e ho recitato appellandomi ai lutti e alla precarietà della mia condizione di anziana senza una pensione né una rendita, costretta a racimolare qualche soldo lontano dalla città. Gli uomini in divisa, impietositi, mi hanno fatta sfogare senza battere ciglio e poco ci mancava che mettessero mano al portafoglio per farmi l’elemosina. Poi mi hanno liquidata con un: «Vada, signora, vada». L’ho scampata anche stavolta.
Ora che ho rimesso piede in casa, vorrei dedicarmi al mio hobby preferito, rimirarmi allo specchio con le scarpe nuove e Mina in sottofondo, ma già lo so: non riuscirò mai più ad ascoltare quel disco. E nemmeno riuscirò a spassarmela con la guêpière. Il pensiero di Bubi rovinerebbe la magia. Facendo bene i conti, di noi tre implicati in questa storiaccia l’unica vera schiava sono io. La mia amica Mafalda, cui ho ormai affidato le chiavi di casa – un’altra copia, quella di sicurezza, è riposta da anni in un cofanetto nel salotto di Nunzia –, mi ha informata al telefono che il ragazzo è stato addormentato con una dose di sonnifero che gli basterà fino alle 20, ora in cui lei si presenterà di nuovo per somministrargli la cena.
Il chiodo fisso di quell’infame legato come un salame nella stanza di Melania mi incupisce i giorni e le notti. Mancano solo dieci minuti alle 20... potrei fare uno strappo alla regola e andare di là per verificare come sta e magari, se è già sveglio, rassicurarlo che in qualche modo troveremo una via d’uscita, che porti pazienza, prima o poi lo dovremo pur liberare – alla possibilità alternativa non voglio nemmeno pensarci –, chissà come si sente, povero cristo, solo al buio con poco cibo e poca acqua e una bestia indurita come la mia amica a fargli da guardiano. Eccola che da giù suona il campanello, è in leggero anticipo.
Apro il portone della scala e lascio socchiusa la porta di casa. Intanto torno ai lavori in cucina, non ho ancora predisposto la gallina di Prisco per il brodo. La tolgo dal sacchetto, stacco le ultimissime piume e accendo il gas per bruciarvi sopra le barbule e i calami rimasti. Appena comincio l’operazione e la casa si intride del caratteristico puzzo di pelle bruciacchiata, sento aprire la porta. Interrompo i lavori per salutare Mafalda, ma al suo posto vedo Betta, che si è appena intrufolata in salotto.
«Wilma cara! Avevo tanto bisogno di parlarti...».
Mollo nel lavello la carcassa dell’animale e, senza nemmeno spegnere il gas, mi pulisco le mani in uno strofinaccio, dirigendomi allarmata verso la ragazza.
Deve sloggiare al più presto.
Intanto mi maledico per aver aperto la porta senza domandare al citofono chi avesse suonato.
«Betta... Betta, scusami ma... devi uscire subito!».
«Che succede?».
«No, c’è troppo tanfo di gallina qui dentro». Agito lo strofinaccio in aria e il pensiero che Bubi possa farsi sentire con un urlo o un lamento mi sprona, e subito il cuore dà i primi segni di angina. Devo affrettarmi, a breve l’effetto del sonnifero svanirà e le reazioni del tipo sono imprevedibili.
«Ma cosa mi interessa dell’odore. Devo parlarti. Ho un problema serio e sei l’unica persona che mi può aiutare».
«No, scusami Betta». Scuoto la testa e le mani, poi appendo lo strofinaccio alla cintura del vestito da casa. «Non posso, davvero, è un bruttissimo momento. Ti prometto che ti chiamerò presto e mi farò perdonare per questa scortesia, ma ora...». La faccio voltare di spalle e la indirizzo verso la porta facendole pressione sulle scapole. «...ora devo farti uscire».
Apro la porta spingendola e, nel momento in cui la ragazza mette un piede sullo zerbino, vedo che Melania sta salendo l’ultima rampa di scale.
Orca paletta.
Di sicuro penserà che io abbia appena beneficiato di una visita di cortesia da parte dell’odiata Betta. Così almeno sembra, da come il suo viso si rabbuia.
«Ciao Melania...» la saluto con voce insicura.
Le avevo imposto di non venire, ma lei ha dimostrato ancora una volta la sua caponaggine, probabilmente spinta da senso di rivolta o desiderio di rifugio o amore spiantato o tutte le cose assieme. Ha interrotto la salita ora che mancano solo cinque gradini, precipitata in un ruolo che non le appartiene: quello della figlia questuante. È venuta a chiedere un letto per la notte. E un gesto del genere, per una scorza dura come la sua, equivale a supplicare. Si trova però di fronte la persona di cui è più gelosa al mondo, quella da cui si sente scalzata come figlia e superata in gradimento: Betta, che sta uscendo da casa mia con l’espressione di chi ha appena consumato il più buon tè della sua vita. Lo so cosa pensa Melania: a Betta sì e a lei niente, invece. A lei porta serrata. Mi batterei la testa di pugni per essermi ficcata in questa abominevole commedia degli equivoci.
Mia figlia mi fissa con occhi delusi.
«Melania, Betta se ne stava andando, posso spiegarti...» cerco di ricucire.
«No» risponde lei, con la bocca serrata dal magone. «...non devi spiegarmi più niente».
Poi, mannaggia alla miseria, si gira e se ne va.
«Ma come ti è saltato in mente di lasciare la porta aperta?». La prima cosa che fa Mafalda, appena mette piede in casa, è rimproverarmi. Non le interessa che io sia ancora agitata per la reazione di Melania.
«Non era aperta, era socchiusa».
«Non importa: nella condizione in cui siamo dovresti comprarti una porta blindata e sbarrarti dentro, non fare entrare chiunque!».
«Bubi dormiva ancora: non è successo niente, va bene?».
Sono in piedi, nei pressi dei fornelli dove vorrei concludere il lavoro di allestimento della gallina, Mafalda si avvicina. «Non va bene per niente. Devi comportarti con più prudenza».
«Ah, tu mi parli di prudenza? Proprio tu, la grande commissaria dei miei stivali!». Gonfio la voce in tono grosso da presa in giro. «Quella che va a regalare le prove del reato ai suoi nipotini perché non ha voglia di spendere qualche euro per un dono decente?».
«Ancora con questa storia? Ho sbagliato e ti chiedo scusa».
Sballotto la pollastra tra le fiamme e l’acqua, sotto al rubinetto lasciato aperto. Ho i nervi a fior di pelle. Perché in quella situazione fantasmagorica mi ha spinta lei, se fosse stato per me avrei mollato il cadavere di Carmela nel luogo del delitto e chi s’è visto s’è visto: se davvero fossero risaliti fino a me, al processo avrei negato allo stremo e magari l’avrei pure scampata, come capita a molti. Ora invece mi ritrovo con un intruso tra le mura, impedita nei minimi movimenti, costretta ad accettare che venga sedato e che se ne stia segregato in condizioni disumane.
Mafalda estrae un pacchetto da una busta della Coop che le dondola al polso: un foglio di giornale in cui ha incartato tre hamburger salatissimi, freddi e cotti, come sempre, frettolosamente, ovvero carbonizzati fuori e crudi dentro.
«Non raccolgo le tue provocazioni. Sto facendo tutto io con Bubi».
«Questo non ti dispensa dal trattarlo bene».
«Lo tratto come merita».
Sistemo un piatto sul lavello e vi addosso l’animale. Mi asciugo le mani e le saldo sui fianchi. «Bene, allora oggi vengo con te».
Che io non mi azzardo a entrare nella stanza-prigione onde evitare lo spettacolo becero di quel reietto, Mafalda lo sa. Trova ogni cosa come la lascia. Ha dato per scontato di doversi caricare sul groppone tutte le incombenze del ragazzo, purché io non ci metta il becco. Così è stato fino a oggi, mi sento talmente rancorosa con lei... forse non lo merita. In fondo mi ha aiutata a disfarmi di un peso immane, i settanta chili circa del corpo di Carmela.
«Va bene, vieni anche tu. Ma non mi fare storie davanti a lui: deve vederci come le sue aguzzine, non come due patetiche vecchie che litigano tra di loro».
Il buio mi colpisce gli occhi facendomeli chiudere un attimo, quasi ne fossi accecata, e impedendomi di riconoscere il magazzino. Mi colpisce il naso un odore putrescente di urina e zuppa umana. Coperta dalla sagoma più alta dell’amica, mi faccio avanti e quel che vedo, non appena le pupille si adattano all’oscurità, non mi rincuora. Uno spauracchio seduto a terra, fasciato dal petto alle anche, da dove sbucano delle mani rattrappite ad artiglio. I capelli scomparirebbero nel buio se non fosse per i ricci opacizzati, il viso è tutto proteso verso di noi e le sue iridi barcollano in un bianco quasi fosforescente.
Il ragazzo ha fame, molta fame. Gli occhi sono due topi sbigottiti. Fissano il cartoccio di Mafalda, seguono lucidi e famelici l’operazione di scartamento: nell’attesa spasmodica Bubi si lecca a più riprese le labbra spaccate dall’aridità.
«Ha la gola secca, dagli da bere prima» mi intrometto.
Mafalda non vuole trovare da bisticciare e asseconda la mia richiesta. Gli ficca in bocca il collo di una bottiglietta d’acqua colma, che lui termina in meno di un minuto.
Poi stacca un pezzo di carne e glielo butta. Lui dilata le fauci e, grugnendo, lo afferra al volo. Poi un altro. E un altro ancora. Il primo hamburger è andato, Mafalda prepara il secondo. Dietro di lei, io scuoto cupa la testa. Mafalda gli getta altro hamburger, lui centra il morso e lo mastica con le guance piene. Sono indignata nel constatare che il nostro carcerato venga ancora trattato come un cane. Non ce la faccio più a tacere. Stringo con una mano l’avambraccio della mia socia e intervengo guardandola negli occhi: «Non si fa mangiare così un cristiano».
«Cosa c’è che non va?». Mafalda ostenta stupore.
«Niente va come dovrebbe andare. Non c’è del pane? Della verdura?».
«Oggi il convento passa questo, non mi sembra che lui si sia lamentato. Ti lamenti di qualcosa?».
La mummia vivente scrolla la testa con occhi atterriti.
«Ecco, vedi, lui è contento, perché non lo lasci mangiare in pace?».
«Non mi sembra così contento. Sei contento?».
Lui deglutisce il boccone e schiaccia gli occhi come se gli avessero schizzato del limone dentro. Poi li riapre: dà l’idea di uno che abbia una gran voglia di piangere.
«Se lo vedi un po’ smagrito è perché ieri, con tutto quel trambusto, mi son dimenticata di dargli da mangiare, ma oggi sto rimediando».
«L’hai lasciato a digiuno?». Il mio tono è scandalizzato.
«Non l’ho fatto apposta, ti devo ricordare ogni volta che ho un marito da accudire e che qui tu non mi dai un minimo aiuto?». Gli butta un altro pezzo del secondo hamburger, che lui mastica con bramosia.
«Fino a quando lo userai per eliminare i rifiuti delle nostre malefatte?».
«Smettila. Ti avevo chiesto di non litigare davanti a lui».
Bubi segue il nostro discorso altalenando lo sguardo da una all’altra, secondo il ritmo del nostro scambio di battute.
«Finirà prima o poi...».
«Cosa finirà?». Mafalda si gira verso di me visibilmente seccata, intimandomi il silenzio attraverso la voce acidula.
«Cosa finirà, mi chiedi? Cosa vuoi che finisca?» sbotto in una crisi nevrotica. «Carmela finirà! E dopo cosa farai, macellerai un’altra persona per riempirgli la pancia? O lo farai fuori?».
Il ragazzo resta interdetto.
Poi decodifica, ragiona, allinea i significati e realizza l’orrore proprio mentre sta deglutendo l’ultimo boccone. In pochi secondi, nei suoi occhioni sconfortati si susseguono tutte le nefandezze del mondo. Spalanca le palpebre all’inverosimile e comincia a ingolfare la gola con reiterati rumori gutturali di rigurgito, intanto muove la testa avanti e indietro come se fosse appesa a una molla. Poi si ferma e tende la bocca in smorfie stranissime, la apre come se dovesse partorire un uovo gigante. Appena il tempo di voltarci verso di lui, e io e Mafalda assistiamo a una luculliana, plateale vomitata in cui i reflussi mescolati alla carne masticata riversano sul pavimento un composto di molecole digestive, abiezione, acqua e macinato umano.