Da quando Bubi aveva rigettato anche la bile per colpa del loro chiacchiericcio, lei stessa aveva preteso di accudirlo durante il giorno. Solo alla sera ci avrebbe pensato Mafalda, ma basta hamburger.
Wilma si sentiva tremendamente in colpa per aver permesso che si fosse giunti a quel punto.
Aveva raccolto il vomito, aveva deterso e preteso migliori condizioni. Innanzitutto gli aveva steso sotto al sedere il materasso del letto di Melania, con tanto di lenzuola pulite, e aveva lavato da cima a fondo il bidone dei bisogni. Dopo avergli estorto la promessa che non avrebbe invocato aiuto – promessa mantenuta –, gli aveva strappato il nastro e, dal momento che lui aveva lamentato mal di stomaco, gli aveva versato in bocca un canarino caldo – un infuso casalingo a base di acqua, zucchero e buccia di limone grattugiata.
Lo aveva ripulito con una spugna imbevuta di sapone al mughetto e lui nemmeno credeva che la stessa pazza le cui invocazioni monotone sentiva ripetersi oltre la porta – Juri. Juri. Juri. – potesse mostrare tante premure. Lo guardava con occhi affranti, bagnati di rimorso, mentre Mafalda le spiegava che no, non gli avrebbe cambiato il bendaggio: questo non glielo avrebbe mai concesso, occorreva tenerlo legato al sicuro, e l’unico modo perché non ci fosse rischio di fuga era che restasse avvolto come un salame.
Mafalda sa che non può imporsi più di tanto, ora che hanno tirato la corda. Ci tiene ai soldi intascati, anzi: non ha mai tenuto a niente al mondo in maniera così totalizzante e non vuole rischiare di perderli per un bisticcio con l’amica, quindi prova a condurla al compromesso, ma è dura con un intruso tra i piedi. Tanto più se lui, come fa ora, chiede timidamente di poter essere lavato e sbarbato. «Vi prego, la barba mi dà fastidio, ho prurito in tutto il collo».
Sono entrambe parate in piedi davanti a lui, semisdraiato sul materasso, Wilma prova a convincere l’amica:
«Non possiamo lasciarlo in queste condizioni».
«Oggi ci chiede di fargli la barba. Domani ci chiederà un giretto in cortile».
«Sai bene che non è così. Ha davvero bisogno di essere lavato e rasato».
Per evitare di restare intrappolate nel medesimo vortice di incomprensioni e arrabbiature, Mafalda cede, gli libera i piedi, armeggia con le fasce e sfrutta il suo ingegnoso complesso di legacci – metà corpo immobilizzato dalle bende e una catena che lo tiene a freno come un guinzaglio – per trascinare in bagno quel cencio nero e puzzolente. Lui si alza in piedi e la segue mansueto, lei – anche se vecchia e storta – lo sovrasta superandolo in altezza e in forza. Quando Wilma si distrae, gli strattona la catena, a monito: che faccia il bravo, altrimenti pagherà amare conseguenze.
Il bagno – mattonelle rosa antico e profumo di candeggina – è dotato di un grandissimo specchio con intarsi rococò. Wilma riesuma l’ultima schiuma da barba di Juri – è da anni che riposa nell’anta in alto del mobiletto –, la deve agitare per un pezzo prima che funzioni. Spinge diverse volte l’erogatore senza successo, finché la pressione sbalza un tappo solidificato e la schiuma erompe fuori. Mentre Mafalda accompagna Bubi accanto al lavandino, tirandogli la catena, Wilma si riempie la mano di crema e la stende sulle guance del ragazzo, ma è così nervosa che gli imbratta anche le tempie e le sopracciglia.
«Non così! Più giù...» la corregge Mafalda.
In quel momento suonano alla porta e le donne si guardano.
«Che faccio?».
«Non rispondere».
Wilma è impietrita, in una mano la bomboletta, nell’altra la schiuma come panna montata. Dall’uscio si sente gridare: «Wilma! Sono Casimiro, mi apri? Mia sorella chiede se hai un limone per la maionese!».
Mafalda fa di no con la testa, ma l’altra si libera le mani e se le sciacqua, poi spiega concitata, sottovoce: «Non posso non rispondere, lo sanno che sono in casa! E sanno che un limone non manca mai nel mio frigo. Adesso vado a darglielo e me ne libero in un minuto. Tu tieni buono Bubi».
Ignorando lo sguardo di disapprovazione dell’amica, Wilma corre in corridoio, avvisando il postulante con un “Arrivo!”, agguanta un limone dal frigo e socchiude la porta. Giusto quei quindici centimetri per consegnargli l’agrume in fretta. Ma Casimiro pare non avere alcuna premura. «Stai bene, Wilma?».
«Sì, grazie. Devo andare, sto per fare il bagno».
«Mmhh... devi fare il bagno...». Stringe viscidamente il limone «Hai bisogno che ti lavi la schiena?».
Lei sta per proferire un no secco e chiudergli la porta in faccia. Ma, mentre Casimiro pronuncia l’ultima parola, nel bagno succede il patatrac. Bubi approfitta di un momento in cui Mafalda ha posato il rasoio ed è alle prese con la manopola del lavandino. Appena sente che la catena viene allentata, dà uno strattone per liberarla, con una spallata sbatte la donna contro la vasca, in due passi è alla porta e, mentre la vecchia tenta di rialzarsi lamentandosi, lui armeggia coi denti per aprire la maniglia della porta. Nel momento in cui riesce nel suo intento, Wilma si gira verso l’interno e Casimiro, incuriosito dai rumori, spinge la mano sulla porta, per aprirla di modo da intrufolarvi dentro il naso. Quello che vede lo segnerà per i mesi a seguire.
Dal corridoio in ombra sbuca una creatura oscura che grida qualcosa di incomprensibile. È in mutande e nera, sotto, e sopra fasciata fino al collo. Claudica anche se dalle spalle proviene una forza selvaggia che la spinge in avanti. Una barba bianca copre quasi tutto il viso e gli occhi spiritati. In due secondi Casimiro si fa la pipì addosso e per fortuna che indossa il pannolone. Grida atterrito, sembra che quell’essere si stia dirigendo verso di lui con una veemenza inaudita – di fatto è così, ma Casimiro non ha riconosciuto il suo vicino di casa – e l’urlo dell’uno si sovrappone al panico dell’altro, in qualche effimero istante di caotico putiferio.
Casimiro non fa in tempo a vederlo alla luce, perché, prima che Bubi raggiunga il salotto illuminato dal sole pomeridiano, Wilma gli richiude il portone letteralmente in faccia. All’uomo sembra di ricevere una scantonata da uno struzzo mentre, nell’impatto, gli scivola il limone ruzzolando giù dalla prima rampa di scale.
Intanto, nell’appartamento, sopraggiunge Mafalda furente, ha in mano lo scopettone raccattato al volo in bagno. Ignorando i dolori e la cervicale di nuovo esplosa, si avventa alle spalle del fuggitivo con la violenza di un ciclope. Due bastonate e lo fa inginocchiare tra lamenti mesti. «Zitto!» gli urla. «Se fiati ti fracasso il cranio!». Con la terza bastonata diretta alla nuca – lo fa rannicchiare. Con la quarta – alle spalle – lo stende a terra, con la quinta lo fa sobbalzare e con la sesta gli spara una mazzata micidiale in mezzo alle gambe. Lui piega ancor di più le ginocchia e non urla, no, si trattiene: ma gli occhi spremuti all’inverosimile, il volto sformato nella sofferenza e la bocca aperta sui denti rompono, con un soffio feroce, quel silenzio orripilante. Lui è steso, ormai, e la settima bastonata arriva così, senza motivo.
Casimiro si precipita giù per le scale e per poco non capitombola per colpa del limone fermo a metà tra secondo e terzo piano, sul quale ha negligentemente appoggiato il piede. Si aggrappa alla ringhiera e riprende la corsa imbizzarrita giù per i gradini. Le rampe per raggiungere il suo portone gli sembrano decuplicate, ma finalmente eccolo lì a bussare a forti pugni, con la voce di chi ha visitato l’oltretomba. «Nunzia, apri! Apriiii!!!».
La sorella dischiude placida l’uscio. Lui la scansa facendo pressione con la mano sulla spalla, rientra velocemente in casa, subito si richiude la porta dietro di sé e aggiunge una doppia mandata al giro di chiavi.
«Che succede?» domanda lei.
Casimiro la guarda con occhi costernati. Respira sommessamente facendo rumore dal naso, come se avesse le narici chiuse, non riesce a parlare.
«Non mi hai portato il limone?».
La guarda dritto negli occhi e finalmente lei capisce di avere di fronte un uomo sconvolto. «Nunzia, è... terribile!».
«Che succede?».
«Su da Wilma... su da Wilma...».
«Che c’è su da Wilma?».
«C’è una mummia con la barba bianca!».
Nunzia si porta una mano alla bocca, chiaramente preoccupata per lo stato del fratello.
«Lo so che non sembra vero, ma credimi: è apparsa all’improvviso in corridoio, è una mummia! Ha la barba bianca e grida come una bestia!».
Nunzia si fa il segno della croce.
«Dobbiamo scappare, dobbiamo chiamare la polizia! Non era un sogno, c’è una mummia a casa di Wilma!».
«Casimiro, devi diminuire l’alcol... Ma Wilma non c’era?». La voce della sorella gli pare indagatoria.
«Sì che c’era, mi ha aperto lei».
«Lei l’ha vista, la mummia?».
Lui resta interdetto. Chiaro, sua sorella non gli crede e vuole testare il suo livello di attendibilità.
«Rispondimi, Casimiro: anche lei si è spaventata per questa mummia?».
«Non... non so se l’ha vista...».
«Era di fianco a te e non l’ha vista? Non ha gridato?». La sorella alza le sopracciglia come se il rimprovero che a breve sarebbe seguito fosse la logica conseguenza dei suoi deliri. «Perché se davvero ci fosse una mummia in casa sua, sarebbe plausibile che lei fosse scesa qui giù con te. Invece è rimasta in casa tranquilla?».
Lui abbassa gli occhi. «Sì».
«Allora non ti balza in mente che forse sei tu quello che ha le visioni, sei tu quello che ha sognato», e a ogni “tu” gli punta l’indice sul petto, «...sei tu quello caduto in errore, sei tu che nemmeno sei capace di portarmi un limone per la mia maionese?».
Lui tenta un’ennesima, debole difesa appellandosi allo sguardo di lei. «Ma io... non era come gli altri sogni, sembrava così vero...».
«Appunto che la situazione è ancora più grave e dobbiamo andare presto da un dottore».
Nunzia ritiene che lui abbia raggiunto il fondo e che sia opportuno intervenire d’urgenza. Non vuole uno scimunito in giro per la casa. Aveva chiuso un occhio riguardo alla sua dipendenza, purché se ne stesse buono e non alzasse le mani su di lei. I loro patti di serena convivenza prevedevano dei limiti imprescindibili, ma lui li aveva oltrepassati. Il primo dubbio di Nunzia, infatti, è che Casimiro abbia aumentato la quantità di vino quotidiano. E lui le legge nel pensiero. «Non è come pensi! Non bevo molto più di quanto ti ho promesso».
La voce di lei è una discarica di acredine. «Non so se crederti. Ma se è come dici, c’è comunque qualcosa che non va e dobbiamo andare a fondo».
«Cosa dovrei fare?».
«Devi andare dal dottore, domani».
«A fare che?».
«Gli racconti cosa ti succede e sentiamo che ti dice».
«Cosa potrà mai fare?».
«Non lo so, ma così non ti voglio in casa».
Lui contrae i muscoli del viso, poi cerca un contegno.
«Va bene, ci andrò dal dottore, ma... pensa un attimo... solo per un attimo, ti prego, fammi questo favore e pensa: se io avessi ragione e davvero ci fosse una mummia in casa di Wilma?».
Lei scuote la testa seccata. «Smettila. Questa è tutta colpa del vino».
«No!».
«Invece sì. È anche colpa tua. Forse è l’età. Probabilmente non reggi più l’alcol come una volta. Cosa credi, di poter fare lo svitato per tutta la vita? Guardati», e lo attraversa da capo a piedi con uno sguardo denigratorio. «Hai settantasei anni e non hai combinato niente di buono. Cos’hai lasciato alle tue spalle? Solo donne deluse e piene di malanimo. Non hai figli, non hai una casa. Pensi solo a bere. Non te l’ha insegnato la vita? Prima o poi il tuo nulla ti si rivolterà contro».