Wilma

Non voglio nemmeno pensare cosa Mafalda abbia combinato con Bubi. Ho sentito bastonare, annaspare, mi è giunto alle orecchie il fruscio di un corpo trascinato, ma ho preferito non intromettermi: questa volta non saprei come tenerle testa, lui l’ha fatta grossa. Aveva ragione la mia vecchia amica: non era il caso di lavarlo. Lui ne ha approfittato senza farsi scrupoli.

Mafalda torna da me asciugandosi la fronte prima con uno, poi con l’altro avambraccio. Le vado incontro allarmata. «Ora che facciamo? Casimiro sarà corso giù a riportare tutto per filo e per segno a sua sorella... cosa le raccontiamo?».

Mafalda si mette in pausa per un lunghissimo minuto, poi sentenzia: «Wilma, noi abbiamo il coltello dalla parte del manico. Casimiro fa sempre sogni strani, ricordi sabato cosa ci ha raccontato Nunzia? Facciamo finta che si sia inventato tutto».

«Parli tu, però».

«Parlerò io».

«Funzionerà?».

«Quando mai le mie idee non funzionano?».

Scendiamo le scale, raccogliamo il limone appiattito e in breve siamo davanti alla porta di Nunzia. Come d’abitudine, bussiamo chiamandola per nome. Ignorando le resistenze di Casimiro che la scongiura di non aprire, lei ci riceve in casa con aria di scuse.

«Ci sei anche tu, Mafalda! Amiche mie, mi dispiace tantissimo per mio fratello».

Mafalda coglie la palla al balzo e passa il limone a Nunzia. «Non capiamo cosa gli sia preso. Si è messo a urlare senza motivo, all’improvviso...».

Casimiro scruta guardingo Mafalda, lei lo evita e prosegue il discorso: «È andata così: io ero in bagno, a un certo punto sono uscita e sono andata verso il salotto, non mi aspettavo di trovare Casimiro, mi sono spaventata e ho fatto un urlo. Lui mi ha vista e si è spaventato più di me».

Wilma si intromette: «A te cosa ha raccontato?».

«Che in casa tua c’era una mummia con la barba».

Ridiamo tutte e tre. Ridiamo così di gusto che Nunzia non scorge la nostra nota isterica e perfino a Casimiro sfugge un mezzo sorriso, ricomposto subito in un’espressione di cautela.

«Una mummia!». Mi batto le mani sulle tasche del vestitino a fiori. «Questa è bella!».

Cerco di coinvolgere Casimiro, facendo leva anche sull’ascendente che posso vantare, e mi rivolgo a lui con voce suadente e occhi che sfoggiano un’antica civetteria: «Casimiro, ma lo sai che potresti scrivere un libro horror?».

«Davvero?» sollecita lui lusingato.

«Mah, io sono un po’ preoccupata. Pensavo di portarlo dal dottore domani» si inserisce Nunzia.

«Macché dottore!». Continuo a sorridere a Casimiro, pur rivolgendomi alla padrona di casa: «Tu devi considerare la sua fantasia come una risorsa. Sono pochi a fare sogni strani come i suoi, lo sai?».

«Mah, Wilma, penso che sia messo male. O si cura o se ne va».

«E come farai senza di lui? È così bravo in casa...».

«È bravo a farmi andare giù di testa».

«Non pensi di essere esagerata? Tutta quella fantasia potrebbe rivelarsi un talento» insisto, mentre Casimiro mi inonda della sua incredulità. Io, che ho sempre snobbato i suoi corteggiamenti, ora mi sdilinquisco in elogi.

Finalmente riesco a chiudermi in casa da sola. Sola: si fa per dire. L’estraneo giace stordito dal sonnifero somministrato dopo le bastonate, ma fingerò che sia assente. Vorrei dedicarmi al mio hobby ristoratore, ma manca lo spirito, non mi entusiasma più nemmeno la guêpière. Niente mi scuote. Anche se dovrei essere soddisfatta per aver intrapreso il primo passo alla conquista dell’ambito progetto, non riesco a godere del traguardo raggiunto. La tomba di famiglia per Juri – ne ho scelta una perfetta, lunedì mattina, guidata dal nuovo fidanzato di Betta. Gerardo mi ha consigliata, mi ha fatto vedere cinque dépliant da quaranta pagine ciascuno, ha risposto con pazienza a tutte le mie stranezze, mi ha perfino garantito che avrebbe fatto il possibile per agganciarvi dentro la moto del defunto.

Perché nemmeno ora che stringo la meta sono felice?

Perché penso a Melania. Come si è allontanata da me l’ultima volta, quanta delusione ammorbava i suoi occhi mentre mi volgeva le spalle.

Melania, il cordone maltrattato e ferito.

Immagino di abbracciarla, anche se so che non ne avrò mai il coraggio.

Comunque ho bisogno di vederla. Presto, più presto che posso. Ho bisogno di guardarla negli occhi a un metro di distanza e credere di accarezzarle i capelli, di stringerle le mani. Come quando mi è accanto: non oso toccarla, mi basta la sua aria.

È una necessità così violenta che mi sembra di sanguinare dal naso.

Entro furtiva in quella che ormai inquadro come la stanza del male, il ragazzo è un ammasso statico di lividi e bende. In punta di piedi raggiungo il vecchio mobiletto di fianco alla finestra, dove sospetto che Melania abbia nascosto il suo zainetto, lo apro con delicatezza per evitare che cigoli – uno stridio parte lo stesso, ma non sortisce alcun effetto sul dormiente – e in quattro e quattr’otto mi ritrovo in salotto, seduta sul divano, con lo zaino vicino al grembo.

Quello che ci trovo mi fa tremare le vecchie mani e l’angina schiocca al cuore un pizzicotto dispettoso. Le cascate di dolore dentro di me svincolano gli argini. È il momento dell’alluvione ed erompo in un pianto dirotto.