Wilma

Ripenso a quando ha bussato alla mia porta l’ispettore insieme a un agente e per fortuna Bubi dormiva di brutto, drogato di Tavor. Dopo le dovute presentazioni mi ha investita con una raffica di domande su Carmela. Ma io l’ho fregato. Ero preparata, Mafalda me l’aveva anticipato che prima o poi sarebbero giunti da me e mi aveva anche tranquillizzata – «Non arriveranno mai a noi, siamo le creature meno sospettabili sulla faccia della Terra» –, poi mi aveva ammaestrata su cosa avrei dovuto rispondere e mi aveva prospettato scenari futuri: «Carmela non c’è più, metti anche che le indagini giungano a noi: non hanno prove per ora. Tu nega allo stremo, nega anche di fronte all’evidenza, parla il meno possibile. Un giorno questo palazzo che va in rovina pullulerà di giornalisti. Avremo la troupe di Chi l’ha visto? puntata sulle finestre. Uff, dovrò farmi il colore, almeno per la televisione...».

Avevo offerto un caffè all’ispettore affetto da strabismo e un bicchiere d’acqua all’agente rachitico. Mentre sorseggiavano, rispondevo alle loro domande. «È da un pezzo che non vedo Carmela».

«In che rapporti siete?».

«Nessun rapporto».

«Nemmeno di buon vicinato?».

«Sì».

«Cosa ci dice di lei, delle persone che frequenta... che genere di vita conduce?».

«Non saprei...».

«L’inquilina del primo piano ci ha detto che spesso la signorina Pennascia disturba il palazzo con schiamazzi. Lei non li sente?».

Ho esitato. Non potevo negare – se Nunzia avesse fatto riferimento anche a me?

«E del suo convivente Boubacar, cosa ci dice?».

«Io... niente». Ho alzato le spalle.

«Senta, signora, questa ragazza è sparita da quasi due settimane col fidanzato e la casa è in ordine. Non ci sono segni di effrazione né di furto. Dobbiamo solo capire se è espatriata o se è stata rapita dal suo fidanzato. O se, ultima eventualità, entrambi sono stati fatti sparire. Mi può aiutare con la sua testimonianza?».

«Sì».

L’ispettore ha finito il caffè. «Bene: conosce Boubacar? Che tipo è?».

«Non lo so».

«Ci ha mai parlato?».

«No».

«È un tipo strano?».

«Mah».

«Ma lei parla solo a monosillabi?».

«Boh».

Cadriano è un paesello strano che fa capo al comune di Granarolo: due rettangoli incastrati l’uno nell’altro, intagliati da rette parallele e distribuiti in innumerevoli capannoni. Qui risiede un cuore industriale e manifatturiero, il cui ultimo lato coincide con la strada maestra che la fantasia del comune ha deciso di battezzare via Cadriano, appunto. Se c’è un luogo in cui posso rincorrere le tracce di Melania, però, è questo. Mi struggo nei sensi di colpa per averla cacciata via, l’ultima volta. Ora basta, rimedierò. Certo non posso invitarla in casa, con il peso di Bubi ancora da smaltire, me tapina. Melania deve restare fuori da questa storiaccia. La mia bimba che era venuta a implorare un letto e mi aveva perfino contattata al telefono, possibile che non esista un modo per stare vicine senza scorticarci l’anima?

Parcheggio e procedo sotto l’ombrello, i capelli si arruffano immediatamente per l’umidità di questa pioggia a vapore, nonostante li abbia coperti con un bel fazzolettone di finta fantasia Vuitton annodato sotto il mento. Sono le diciassette e trenta e di gente ce n’è parecchia.

Quando, in casa, avevo recuperato lo zaino di mia figlia, avevo aperto con delicatezza la calotta e vi avevo fatto scivolare dentro una mano. Alcuni cimeli me li aspettavo: la foto del fratello da piccolo, quella dei diciassette anni in cui lui e Melania si abbracciavano come due compagni di gozzoviglie e il portachiavi della sua moto: una palla in corda del tricolore italiano, era tanto tifoso lui. Immaginavo che non avrei trovato fazzolettini né rossetti o altri gingilli femminili, figurarsi. Quello che non mi aspettavo era di scartabellarvi dentro anche una mia foto – una banale fototessera. Una mia foto. Inutile aggiungere che ero sgorgata in un pianto irrefrenabile. Non uno di quei pianti affannosi e mesti che mi ingolfavano il respiro, no, questo era un pianto liberatorio, non mi guariva ma mi apportava un medicamento, almeno. Avevo poi rinvenuto una palla accartocciata. L’avevo dispiegata, cercando di decifrare con gli occhiali da dove provenisse: “Bar da Paolo”, a Cadriano. Lo scontrino di un cappuccino. È lì che sto entrando.

Mi avvicino timidamente al tizio dietro al bancone e gli mostro la foto di mia figlia. Lui ha la barba brizzolata come i capelli, il viso scavato e due sopracciglia così lunghe che si potrebbero acconciare in due trecce.

«Scusi, conosce questa ragazza?».

Quello annuisce. Fantastico.

«Sa dirmi dove potrei trovarla?».

Alza le spalle mentre mi esamina e probabilmente mi trova pittoresca. La conosco bene la mia linea, mi controllo allo specchio appena ne sfioro uno. Piccole spalle da cui si dipartono due bracciotte che si allargano assecondando la rotondità del bacino, sono coperta da uno spolverino grigio che termina sotto le ginocchia. In mano tengo l’ombrello di Mary Poppins e la testa è incartata con un fazzolettone. Ma non demordo, anche se mi esce una voce da vecchina delle fiabe. «Mi sa aiutare? È mia figlia».

Ho una voglia da pazzi di rivedere Melania e mi scappa da piangere. Sbatto gli occhi e rimpallo dentro le lacrime, per fortuna in lui devo aver smosso qualcosa di simile all’empatia. «La ragazza non è qui, signora, ma posso aiutarla».

Aggiunge, sollecitato dalle mie domande, che la setta risiede in quella che viene chiamata “Villa”: una fattoria abbastanza lontana, in una zona di frontiera ubicata nella campagna piatta. Melania potrebbe essere là ma il barista mi sconsiglia di andarci, potrebbero reagire male.

«Cosa vuole che mi facciano? Sono una povera anziana, al massimo mi deruberanno dei pochi euro che porto in borsetta».

«In genere non hanno mai fatto colpi di testa, ma non si sa mai. C’è un altro modo per parlare con sua figlia».

«Me lo dica».

«Mi ricordo bene di lei, perché passa nella drogheria qui di fianco tutte le sere, prima che chiuda: il negoziante regala sempre qualcosa alla Villa. Sa, pane rimasto, confezioni di cibo che sta scadendo. È che quelli non hanno voglia di lavorare, la casa gliel’ha prestata il comune, sopravvivono così...».

«Come i poveracci?» domando, mentre una lacrima scende mortificata.

Io non l’ho seguito il consiglio del barista. Che ne sa lui di quanto è a pezzi una madre senza le sue costole? Sono scappata fuori dal bar e son corsa qui, in mezzo ai campi, sulle tracce della Villa. Ho setacciato ogni stradina sterrata, mi sono addentrata nei sentieri privati, ho oltrepassato una reggia circondata da siepi e roveti, mentre il cuore mi turbinava al pensiero di Melania. Che pena tallonarla in queste condizioni. Meglio una figlia così che nessuno, cerco di consolarmi, e aguzzo il radar. Niente di niente, qui tutti i casolari e le stalle si assomigliano. L’odore di terra annaffiata esala dal sottosuolo e intanto smette di piovere.

Poi fermo un contadino in bicicletta, prostrata. Avrà cent’anni, o forse è solo rosolato dalle tante estati chino sotto il sole. Gli chiedo della Villa, e lui con l’indice addita un casale diroccato quasi dietro le mie spalle. È proprio vero: fatichiamo tanto per raggiungere alcuni traguardi che quando ce li troviamo sotto il naso non ci facciamo caso. Lo ringrazio e, mentre riprende a pedalare, mi concentro sulla Villa. Intonacato di un rosa quasi tutto scrostato, in parte coperto da due grosse querce, l’edificio si sviluppa su tre piani, l’ultimo dei quali balconato. Non ha niente di sinistro né satanico, penso, mentre un cane che abbaia chissà dove mi insinua una nuova sensazione, quella di estraneità. Cosa ci faccio, qui? Non è questa la sede, né il momento. Mi rendo conto di essere abbastanza matura da essermi conquistata un privilegio inestimabile: decidere di fare un passo indietro, anche sul più bello. Ecco perché mi giro e torno indietro.

Sposto l’auto in un parcheggio più comodo che mi garantisce la visuale sulla drogheria e lì attendo un’ora senza staccare lo sguardo dal negozio. A ogni minuto mi sale l’ansia, scalpito per lei, e di tempo ne passa parecchio: sono ormai le diciannove.

Finalmente la vedo e resto pietrificata. Poi mi comando l’autocontrollo, riesco a dominarmi, scendo e le vado incontro imponendomi di non correre. Melania è di profilo, con le mani in tasca e l’aria selvaggia di chi se ne infischia del contorto intricarsi e scontrarsi delle buone maniere. Dimagrita ulteriormente, vestita come l’ultima volta che l’avevo vista.

Quando si accorge di me, Melania mi sorride. Un bel sorriso spontaneo, subito contrastato dall’imbarazzo: s’afferra una ciocca di capelli e comincia a sbertucciarsela dal basso. Sa benissimo quanto significhi una mia visita qui, devo essere stata spinta da un ottimo motivo. Anch’io mi sento turbata e, per rompere il ghiaccio, non so ricorrere ad altro che all’osservazione diretta. In quel quadretto manca qualcosa, infatti: «Il cane?».

«L’ho lasciato alla Villa».

Il silenzio scende placido sui nostri occhi che tentano di nascondersi la letizia, finché io ricorro alle urgenze primarie: «È quasi ora di cena. Andiamo a mangiarci una pizza in città?».