Quando arriva la pizza – margherita per me e superbomba per Melania – lei la riduce a un quarto ripiegandola due volte. La addenta con ingordigia partendo dal vertice. Con suo fratello gareggiavano su chi ordinava la pizza più farcita – ogni ingrediente aggiunto valeva tot punti – e soprattutto su chi la finiva per primo. Comincio a tagliare lentamente una fetta di margherita, ho lo stomaco serrato col lucchetto. Vorrei dirle qualcosa che non ho mai affrontato, ma non so come.
«Mi dispiace averti chiuso la porta in faccia...». La guardo mentre addenta la pizza con la bocca ancora piena e fisso il suo bicchiere colmo di birra.
«Vorrei che tu mi credessi quando dico che non potevo farti entrare. Ho un problema in casa e non voglio coinvolgerti. Più di questo non posso aggiungere».
Melania interrompe la masticazione. Poi mi domanda – boccone pieno che trabocca di salame maciullato, pomodoro e peperoni, si intravede perfino il giallino del mais: «Hai un uomo in casa?».
Sobbalzo.
Come fa mia figlia a saperlo?
Ho la coda di paglia, ecco cos’ho. Lo scopro subito, quando lei insiste: «Ti sei messa con uno? Guarda che io non ti giudico, anzi: sono contenta per te se ti trovi un fidanzato».
Questa, poi.
Un sospiro di sollievo, scuoto la testa, bevo un sorso d’acqua.
«No. Nessun fidanzato».
«Però...?».
«Però niente, ti ho detto che non posso dirti altro. Per favore: appena avrò sistemato la faccenda ti chiamerò. Prima non posso riceverti, né te né nessun altro. L’altro giorno, quando hai visto Betta, la stavo mandando via, non volevo nemmeno lei in casa, ma tu hai frainteso». Estraggo dalla borsa la confezione di un cellulare.
«Questo è per te. Dentro c’è la sim prepagata e ci sono anche tremila euro, attenta a non perderli quando scarti la confezione».
«Gnimamma gnogn voglio sogldi» mi interrompe Melania con il triangolo di pizza già concluso a metà.
«Invece li prenderai. Te lo chiedo solo per stavolta: fidati di me. Ascoltami e non chiedermi spiegazioni».
Scanso il piatto con la pizza ancora quasi intera, lo stomaco è chiuso. Il discorso che sto per affrontare è più difficile di qualsiasi altra cosa abbia mai fatto. Per questo, ancor prima di cominciare, mi si bagnano gli occhi e mi macero, perché non ho abbastanza forza per reprimere le lacrime, so che Melania disapprova, ma non posso farci nulla, parlo e piango con delicatezza.
«Devo dirti una cosa molto importante. Ti chiedo di ascoltarmi fino alla fine e non interrompermi».
Mia figlia annuisce stupita. E curiosa, anche. Ingozza l’ultimo pezzo di pizza.
«Lo sappiamo tutte e due che c’è qualcosa tra di noi che non funziona. Non so cosa sia, però non riusciamo a prenderci. Inoltre non c’è bisogno che ti dica io quanto sia stupida la storia della setta. È solo un tuo colpo di testa per farmi un dispetto. Ma se vai a fondo, sei la prima a capire che chi si tatua una svastica è solo un imbecille o una persona molto fragile, come nel tuo caso. Tuo nonno era un antifascista. Ne ha subite di tutti i colori pur di non prendere la tessera fascista: botte, prigione, olio di ricino. Non stai facendo una ripicca a me, andando con quelli. Lo stai facendo a te. Allora io... io... io pensavo che un modo per rimettere in sesto il nostro rapporto forse c’è. Ci ho pensato e ripensato, non credo di avere una soluzione sicura, però forse varrebbe la pena di tentare. Torna da me».
Melania deglutisce attonita. Io, ovvero quella vecchia madre dai capelli biondo-bianco ben pettinati, dagli occhi truccati con l’eyeliner che sta colando e dalle dita cicciotte con le unghie smaltate che si agitano sotto il tavolo, piango mentre le propongo una nuova famiglia. E lo faccio con le guance rigate di trucco bagnato, incurante degli ospiti agli altri tavoli o dei camerieri che mi notano a ogni passaggio.
«Ti chiedo alcune cose. Ti chiedo che torni a vivere da me e provi un’altra vita».
«Ma non mi permetteranno mai di mollarli così...».
«Sì che te lo permetteranno. Se faranno delle storie, andremo assieme dalla polizia e risolveremo le cose. Son pronta a lottare, per te».
«Ma...».
«Fammi finire». Continuo a piangere, ma questa volta libera dal magone. «Ora non posso farti tornare a casa. Mi occorre almeno una settimana per risolvere il mio problema. I tremila euro ti serviranno per questa settimana: vattene via, corri, subito. Fatti un viaggio, poi torna da me. Ti potrò mantenere io finché non troverai un lavoro che ti piace. Provvederò a qualsiasi cosa. Mi sforzerò di non essere pesante, di evitare le cose che ti danno fastidio, ti prometto che non chiamerò più Juri né farò più i confronti tra voi...».
Melania sprizza disaccordo dagli occhi. Ma mi segue muta e io proseguo: «Vieni da me solo il tempo che ti occorre per riacquistare la tua autonomia. Se vuoi, puoi riprendere a studiare, se non vuoi, no. Poi ti cercherai una casa, te ne andrai e tornerai a trovarmi solo quando vorrai. Sperimentiamo quest’ultima soluzione. Se non funziona, amen. Però almeno ci avremo provato».
Melania indica la mia margherita, capisco al volo. «La vuoi tu? Prendila».
Mentre su di essa esegue la stessa operazione di ripiegamento già effettuata sulla superbomba, io riprendo il discorso: «Tra una settimana, appena avrò sistemato il mio problema, ti chiamerò al cellulare, tu intanto comincia a pensare a cosa vuoi fare, ai progetti... Ascoltami, abbiamo solo questa vita, e non l’abbiamo nemmeno tutta...». Le lacrime si intensificano, la voce si piega al dolore, gli occhi ormai rosseggiano. «Scusa se lo nomino di nuovo, ma... io sono sicura che se Juri ci vedesse, gli piangerebbe il cuore per come si è rovinato il nostro rapporto, ma non per me...».
Melania interrompe il trituramento della seconda pizza, inghiottisce in fretta e lancia sul piatto quello che ne rimane, tutta assorta nello scorrere disperato delle mie verità. «Lui si contorcerebbe per te, perché eri la persona al mondo che amava di più, e io...». Tiro su col naso, prima di recuperare urgentemente un fazzolettino dalla vecchia borsa nera. «...io sono sicura che, se tornasse qui all’improvviso, ti prenderebbe per un braccio e ti strapperebbe via da quei cretini. Magari non ti porterebbe da me, perché lo sa che non andiamo d’accordo, ma di certo non ti lascerebbe così...».
«Cazzo, mamma, mi stai facendo tornar su la roba». I suoi occhi si caricano di malinconia.
«No, no... fammi finire. Finché non sarai tu a chiedermelo, questa è l’ultima volta che ti parlo di lui, quindi non voglio dimenticare niente. Sai cosa ti direbbe anche, tuo fratello? Di smetterla di dannarti così, perché tanto questa è la vita, si parte, si torna, si muore, si sparisce. Non importa che tu creda in qualcosa di ultraterreno o no, alla vita ci devi credere per forza: ci sei finita in pieno, come se ti fossi svegliata nel bel mezzo di una tempesta, volente o nolente questi venti ce li dobbiamo beccare. Quindi basta rovinarla, questa vita, goditi le stelle quando si vedono e portala avanti sopravvivendo meglio che puoi, tanto prima o poi passa».
Si avvicina un cameriere, preoccupato dal mio viso costernato e forse sospettoso che l’ingorda che mi siede di fronte sia un’imbrogliona, con loschi intenti. «Tutto bene, signora?».
Io e Melania lo guardiamo come si guarda un intruso intrufolatosi nel posto sbagliato nel momento meno opportuno. «Sì, grazie, tutto bene» lo tranquillizzo tamponandomi guance e occhi col fazzoletto. «Io e mia figlia stiamo ricucendo una vecchia ferita».
«Scusatemi tanto». Il cameriere si dilegua. Non tornerà nemmeno per chiedere se vogliamo il caffè.
Sorrido a Melania. Non sigliamo promesse, non scappa nemmeno un bacio tra noi. Ma forse un futuro diverso, in agguato, ci stringe con la sua chela potente.
«Ah, dimenticavo... Ho comprato una tomba di famiglia. Presto ci sposteremo Juri. So che non ti piacciono i cimiteri, quindi non ti chiederò di venire in Certosa con me, stai tranquilla».
«...».
«Ci sistemeremo anche la sua moto, se avrai voglia la andrai a vedere. La tomba è bellissima, grande, una specie di cappella privata, c’è tanto posto: ci staremo anche noi un giorno, sai?».
Melania mi sorride scherzosa, un sorriso genuino, da bambina un po’ birba. «Fantastico. Non vedo l’ora».