Nunzia è vestita da casa, in ciabatte, nell’antigarage su cui si affaccia il retro del palazzo. Circondata da facce conosciute e non – si sono uniti al gruppo diversi estranei attratti dalle gesta dei pompieri, è arrivata perfino una giornalista del Resto del Carlino –, rintraccia un po’ di intimità stringendosi la vestaglia. Da lontano si sta avvicinando Casimiro.
I vigili del fuoco hanno evacuato il sette primo e l’hanno isolato: il resto del palazzo è salvo. Nunzia nota una striscia nera che parte dalla finestra di Giorgio e sale su fino al tetto: quando arriva la stessa ambulanza che aveva visto il giorno in cui era morta la mamma di Corradino, le martella in cuore un bruttissimo presentimento.
Si rivolge a uno dei pompieri chiedendo spiegazioni. Ripete e insiste caparbia, ma lui non può scucire niente, ordini superiori. Si giustifica che nessuno si è buttato dall’appartamento, anzi: una donna anziana ha aperto la finestra e inspiegabilmente l’ha richiusa. Mai successo in tutti gli interventi fatti in vent’anni di carriera. Spiega anche che loro hanno tentato di accedere dall’ingresso per sedare l’incendio, ed effettivamente sono riusciti a placarlo, ma non sono arrivati in tempo.
«In tempo per cosa?» domanda intimorita Nunzia.
Lui scuote la testa dispiaciuto, come a ribadire che non può parlare, ma è successa una sciagura. Nunzia si aggrappa a Casimiro, che ora le sta accanto, perché quando scendono i necrofori, trasportano due barelle.
«Wilma, è morta Mafalda». Nunzia esce sul pianerottolo appena avverte la salita affaticata dell’amica.
«Oddio, cosa dici mai?».
«È successa una disgrazia, un incendio».
«No! Non è possibile!». Wilma comincia a piangere, l’aria attorno la avvolge fredda, mentre l’amica la raggiunge e la abbraccia stretta stretta.
«Siamo rimaste io e te, Wilma. Solo io e te...», e anche Nunzia attacca a lacrimare. Il suo, però, è un pianto sommesso e interrotto, come se a tratti avesse il singhiozzo. Wilma si libera dall’abbraccio, le guance ancora grondanti. «Come è scoppiato?».
«I vigili non hanno detto molto. Ho sentito che in casa c’era un disastro: tutto andato a fuoco, i vetri esplosi, i mobili carbonizzati. L’incendio sembra sia partito dal salotto, forse per colpa del televisore».
Wilma strizza gli occhi come da piccola, al basso sorvolo dei Pippo, quando lei tremava come una foglia nascosta nei fossi secchi o in buche improvvisate. Il tic dell’angoscia, lo spremere compulsivo degli occhi come se le avessero asperso dentro dello spray al peperoncino.
«Non ci credo... Non riesco a crederci...».
«Eppure è così, amica mia... è terribile». Nunzia singhiozza più rumorosamente, prima di dare il suo contributo escatologico. «Il Signore l’ha voluta lassù. Ora sta meglio, ne sono sicura».
«Scusami». Wilma si libera dall’abbraccio che è già un labirinto di pensieri e arranca su per le scale. «Scusami, non riesco a rendermene conto, sono scioccata, devo tornare a casa, scusami ancora...».
«Entra che ti faccio qualcosa di caldo».
«No, devo andare, ho bisogno di restare sola». Ansima per la fretta che l’ha sospinta fino al terzo piano, respira con la bocca aperta e sfiata con la gola un rumore stanco di caverna. Apre la porta, la richiude, butta a terra borsa e spolverino e si incammina dritta al magazzino, che spalanca. L’accensione della luce provoca un accecamento momentaneo in Bubi, abituato a vegetare al buio.
È ridotto malaccio. La bocca è piena di herpes, il naso e le guance sono sporchi di bava asciutta, la pelle sembra quasi squamata da quanto è disidratata. A Wilma sale una pena incredibile – una pena intrisa di pietas e di senso materno e di bisogno di comunione con la vita, una pena che sovverte, per il momento, la sofferenza lancinante per la morte di Mafalda – e gli parla mentre lui tiene ancora gli occhi sprangati: «Se ti libero, prometti che te ne vai via e che non torni più?».
Lui è troppo stordito per rispondere.
«Hai capito? Rispondi sinceramente: se ti lascio andare, mi farai del male?».
Il ragazzo disserra gli occhi e li richiude ripetutamente, mentre esce impaurita la sua voce nasale: «Se uscirò vivo da qui, correrò talmente lontano da voi che non mi vedrete nemmeno mentre scappo. E non mi troverete mai, né voi né la polizia».
«Devi scordarti il bottino».
«Che mi importa del bottino, se ho salva la vita?». Effettivamente lui aveva perso ogni speranza. Quando percepiva i passi delle due, fuori dalla porta, si sentiva teletrasportato nei pressi di un sabba di streghe al quale era convinto che non sarebbe mai sopravvissuto.
«Non ti vendicherai?».
Finalmente lui sgrana bene gli occhi e le risponde guardandola dritto nei suoi: «Che vendetta? Senza offesa, ma io con voi tre non ci voglio mai più avere a che fare».
Wilma pare soddisfatta, ma qualcosa in testa non le suona bene. Indugia un secondo, poi indaga con sopracciglia stupefatte: «Come: voi tre?».
Nunzia è rientrata in casa e osserva dalla finestra – quella del salotto, che si affaccia sulla parte anteriore del palazzo –, il camioncino dei pompieri si dissolve a luci spente e intanto il lezzo di incendio permane nei capelli e nelle tende. Casimiro le sta al fianco.
Nel buio delle ventidue di ottobre scorgono una sagoma non troppo alta uscire barcollando dal portone del loro palazzo. Pare che abbia parecchia fretta, cammina a grandi passi claudicando, come se inciampasse di continuo.
«Nunzia, guarda!». Casimiro la sgomita con veemenza. «Guarda quell’uomo scuro in giardino! Era così che camminava la mummia a casa di Wilma!».
La vecchia affila la vista e lo riconosce. Il suo africanlover. L’avventura proibita consumata nell’ombra di uno squallido magazzino. La grande colpa. Lo segue con gli occhi, mentre il cuore impazza il battito.
«Nunzia, è lui! Ma sai a chi assomiglia? Al tipo di Carmela, vero?».
Non scoprirà mai, Nunzia, che vincolo sia stato decretato tra il fato del senegalese e quello delle amiche, ma ciò che avverte nitidamente, ora che lo scorge traballante in giardino come un folletto storpio, è che non lo rivedrà più. Per questo seda ogni sospetto nel fratello, che insiste: «Lo vedi?».
«Io non vedo niente».
Wilma bussa alla porta di Nunzia, che la accoglie in casa rinfrancata dalla sua vicinanza. Ha gli occhi arrossati dal lungo pianto, i capelli acconciati come una diva del cinema degli anni Cinquanta dopo che ha attraversato un ciclone.
«Nunzia, ti devo parlare». Wilma fa un cenno indicando Casimiro, è meglio che lui non ascolti. La sorella lo manda in cantina a rifornirsi del suo fiasco di vino.
Rimira dispiaciuta l’amica, forse crede che sia venuta per farsi consolare. «Wilma, lo so che è un vuoto infinito quello che provi ora... pensa che in qualche modo verremo ripagate di tutto questo male».
«Non lo so, Nunzia. La vecchiaia si sconta anche sopravvivendo».
«Ma lassù...».
«Io sono quaggiù, ora. E sto da cani per Mafalda. Con tutti i suoi difetti, le volevo bene come a una sorella. Ma non sono qui per questo».
«Dimmi: che succede?».
«Hai sentito tua figlia?».
Nunzia batte le mani sui coscioni, già piccata.
«Sì, me l’ha detto. Come le è saltato in mente di mettersi con un becchino? Che dispiacere sta dando alla sua mamma».
«Shhh, Nunzia! Ascoltami. Tu accetterai Gerardo. Loro due si amano, io li ho visti insieme, sono felici».
«Come, li hai visti?». A Wilma sembra di ravvisare un briciolo di gelosia.
«È successo per caso, quando sono andata a comprare la tomba di famiglia. Non so come andrà a finire, ma quello che ho visto io era molto bello».
«No! Io non accetterò mai un becchino come genero, scordatelo».
«Sì, invece. Tua figlia ha sofferto molto, ora ha finalmente trovato l’altra metà e tu le permetterai di vivere serenamente questa storia». Le tocca le braccia con delicatezza.
«Non ce la farò».
«Sì che ce la farai. So tutto di Bubi».
Nunzia sussulta, occhi fuori dalle orbite e guance all’improvviso tinte di bordeaux. «Cosa?».
«Mi ha raccontato tutto. Che sei salita e cosa avete fatto».
«Non è vero!».
«Sì che è vero, nessuno si sarebbe mai inventato una storia simile. Ma non mi interessa. Dimenticherò tutto. Anche tu dimenticherai di averlo visto, e di questa faccenda non parleremo mai più né tra noi né con anima viva».
Nunzia guarda Wilma come si guarderebbe un albero se si animasse all’improvviso. E quella rincara: «Saremo mute come pesci. Fa’ quello che ti ho detto con tua figlia e, per me, in quella stanza è come se tu non ci avessi mai messo piede. Va bene?».
Nunzia annuisce costernata, prima che l’altra l’abbracci.
«Ora ti saluto, torno a casa».
«No, Wilma... resta un po’ con me, sono tutta sottosopra...».
«Verrò domani, se vuoi. Ora devo salire e sgurare da cima a fondo l’appartamento», e se ne va triste ma anche speranzosa, con un pensiero che le martella i propositi e che le esce sottovoce: «Ché domattina, quando la casa sarà pronta, telefonerò alla mia Melania e le dirò di fare come se la settimana fosse già trascorsa».