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Henry

 

 

 

 

 

Quando uscì in giardino avevo già portato fuori dal capanno una cassetta di violacciocche longipetale, una di cosmee bianche e una di viole del pensiero. Rimasi accovacciato a osservarla. Indossava una gonna di lino nero con una cintura di pelle scamosciata gialla con la fibbia d’argento, e una camicia rossa e gialla. Portava un cappello di paglia rossa ed era scalza. Teneva tra le braccia una pila di libri e fogli – i suoi strumenti di lavoro – ed era diretta al tavolo. Siccome si trovava ancora in pieno sole mi offrii di spostarlo all’ombra.

«No, grazie, preferisco il sole», rispose con un tono affabile ma distaccato che mi gettò nello sconforto. Radunai le cassette vuote e le riportai nel capanno, pensando che forse era sul punto di annunciarmi che non aveva più bisogno che dormissi al cottage. Era una prospettiva spaventosa e sempre più probabile man mano che il pensiero prendeva forma. Se voleva darmi il benservito, come avrei potuto impedirglielo? Eppure dovevo fermarla. Il tempo stava per scadere, lei migliorava a vista d’occhio e in men che non si dica sarebbe tornata a guidare, avrebbe ospitato gli amici (ne aveva già parlato un paio di volte), e forse sarebbe pure tornata a Londra facendosi vedere al cottage soltanto nel fine settimana. Se mi avesse congedato in quel momento avrei perso tutto. Mi accesi una sigaretta – l’ultima – e ricordai che di solito il giovedì pomeriggio andavamo a fare la spesa. Mi venne un’idea rischiosa e dal risultato incerto, ma meritava di essere presa in considerazione proprio perché non avevo alternative. Mi sedetti sul fianco della carriola per riflettere.

Ovviamente pensai anche di aver immaginato il distacco nel suo atteggiamento. Forse la mia lettera l’aveva un po’ intimorita, e mostrarsi distante era per lei un modo di gestire l’emozione. Avrei sondato il terreno, ma decisi di fare una mossa subito per giocare d’anticipo sull’eventuale congedo: le avrei mostrato la barca.

Aveva preso l’abitudine di farsi portare il pranzo in giardino su un vassoio, e mi invitava a mangiare insieme a lei. Aspettavo sempre che me lo chiedesse, e invariabilmente lo faceva. A cena era diverso. Mangiava in soggiorno – fino a pochi giorni prima cenava davanti al fuoco – e sentivo che la mia presenza non era gradita. Di solito leggeva o ascoltava musica mentre ero fuori per una passeggiata; a volte andavo al pub per bere in totale libertà. Ultimamente ero diventato un cliente gradito perché avevo denaro da spendere. Daisy aveva insistito per aumentarmi la paga, e di molto; inoltre non dovevo neanche comprarmi da mangiare. Adesso cucinava lei, zuppe e insalate o panini per pranzo e arrosti o stufati per cena. Caspita se era brava! Dopo gli anni disastrosi con Hazel, capace soltanto di sfornare cibo scotto, monotono e indigesto, e visto il mio limitato repertorio culinario sulla barca, la cucina di Daisy era stata una rivelazione. Le erbe aromatiche e da insalata che avevo piantato per lei – ravanelli, coriandolo, basilico, cipolline, aneto e vari tipi di lattuga – venivano su senza problemi. Questo era un altro modo per rendermi meno superfluo. Tutte quelle piantine, infatti, avevano bisogno di essere annaffiate, diradate, diserbate e protette dai parassiti. Impiegai dunque il resto della mattinata in quel genere di lavoro, tenendomi istintivamente lontano da Daisy fino all’ora di pranzo. Non volevo che l’ordine di andarmene mi giungesse mentre le voltavo le spalle, buttato lì in modo noncurante; preferivo una vera e propria conversazione seduti a tavola in giardino.

Così, quando vidi che era in cucina a preparare i panini, liberai il tavolo dalle carte, poi presi i suoi panini e li portai fuori.

«Potresti prendere anche i tuoi», disse. «Vuoi pranzare, giusto?».

«Sì, grazie».

Notai che aveva portato il blocchetto per appunti, su cui aveva già steso una lista.

«È la lista della spesa?».

Annuì. «Ti serve qualcosa per il giardino?».

«Ci penso». Mi ero accorto che sotto l’apparente calma era nervosa e credeva di riuscire a nasconderlo. Osservò che forse le sarebbe convenuto comprare una lavatrice, e le diedi ragione. Sì, le avrebbe risparmiato molte complicazioni.

Rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi riprendemmo a parlare nello stesso momento. Le feci segno che parlasse lei per prima.

«Riguardo alla lettera. Non è che io non creda a quello che dici, piuttosto non so se è opportuno che tu lo dica».

Quel giro di frase – «Non so se è opportuno» – mi diede la conferma che si stava ritraendo.

«Ti ho solo chiesto di credermi. Cercherò di non dire cose che non trovi opportune».

«E adesso cosa stavi per dire?».

«Sinceramente sono preoccupato per la mia barca. È ridotta maluccio. Mi chiedevo se posso fare qualcosa per ripararla».

«Non me ne intendo di barche. Cosa ti servirebbe? Potremmo comprare l’attrezzatura necessaria oggi pomeriggio, se vuoi».

«Non ne ho idea. Prima dovrei andare a dare un’occhiata. Ultimamente l’ho trascurata parecchio».

«È perché ti sei occupato di me giorno e notte».

«Non dipende da quello. Per dirla tutta sono pigro con la manutenzione perché non mi piace abbastanza viverci. C’è gente che con le barche adora trafficarci, dipingerle, lucidare gli ottoni, strofinare... attenzioni che non dedicherebbero mai alla loro casa, mentre in barca per loro è... non so, diverso».

«È una di quelle barche carine tutte dipinte, con rose e castelli sulle porte?».

«Oh, no, per carità. È solo una motovedetta da dieci metri con il motore fuori uso da quando ci abito. È tutta scassata. Devo solo andare a controllare a che punto è arrivato lo sfascio».

«Vorrei vederla», disse Daisy dopo qualche secondo di silenzio. «Forse non è così malmessa come credi, e potrei aiutarti a dare una ripulita».

«Oddio, no! Ne rimarresti schifata. Non sopporterei di portarti in un posto simile».

«Non mi dà fastidio. Anzi, voglio proprio vederla».

Mi schermii ancora un po’, poi cedetti con grazia. Decidemmo di dare un’occhiata veloce prima di andare a fare la spesa. Avrei preferito avere più tempo per preparare la scena, ma l’importante era che vedesse la barca prima di decidere di mettermi alla porta.

Arrivammo al ponte in auto e la parcheggiammo lungo l’alzaia. Le spiegai che la barca era raggiungibile soltanto con la canoa, e lei non fece resistenze. Poi vide la barca tutta sghemba ormeggiata sull’altra sponda e ci rimase male, com’era prevedibile.

«Eh sì», dissi vedendo la sua espressione costernata, «sono settimane che imbarca acqua... tra le varie magagne c’è anche la noia di doverla svuotare regolarmente. Sei sicura di voler vedere com’è dentro?».

«Certo».

L’aiutai a salire sulla canoa, recuperai la pagaia tra le canne e salpammo. Tenni ferma la canoa mentre lei saliva a bordo, poi lo feci anch’io e la ormeggiai. Sul fondo del pozzetto c’era un velo d’acqua. Aprii la porta della cabina e la feci entrare.

«Attenta alla testa».

Sapevo che non avrei trovato la cabina in buone condizioni perché l’avevo lasciata sporca il giorno della caduta di Daisy, e poi ero tornato solo una volta per prendere dei vestiti, ma lo spettacolo che mi trovai davanti superava in orrore i miei incubi peggiori. Non soltanto l’assito era ricoperto da una patina di acqua oleosa che trasudava dallo scafo, anche la cuccetta era fradicia perché il soffitto ormai da tempo non era più a tenuta stagna, e c’erano stati diversi acquazzoni. Le coperte sul letto sfatto erano ricoperte di muffa. Avevo lasciato lo sportello della stufa aperto e la cenere umida era caduta e si era ammucchiata sul riquadro di moquette lurida che già da molto tempo volevo buttare in discarica. Sul tavolo c’erano gli avanzi della colazione di quel mattino e pure quelli della cena della sera prima; un tozzo di pane grigio di muffa e mezza bottiglia di latte rappreso di un verde spettrale. Gli oblò erano opachi di condensa e grasso, e ovunque lo strato di polvere era così spesso che avresti potuto scriverci sopra. C’era puzza di chiuso e di rancido. Il lavandino era ingombro di pentole e padelle sporche, lo scolapiatti era praticamente una fungaia. Sentivo che di fronte a quel disastro Daisy era inorridita, provava addirittura un disgusto fisico.

«Il problema è che, se anche pulissi la cabina da cima a fondo, continuerebbe a entrare acqua dallo scafo e dal soffitto».

«Non si può riparare?».

«Suppongo di sì, ma bisognerebbe portarla in secca, e chissà quante falle troverebbero. E non basterebbe rattoppare la copertura della cabina: ne serve una nuova e basta. Quando porti una barca in darsena i costi salgono alle stelle, non sai mai quanto dovrai sborsare».

«Ma è casa tua...».

«Non è di mia proprietà. Senti, usciamo di qui e ti racconto la storia di questa barca sulla terraferma, all’asciutto e al pulito». Chiusi a chiave la cabina e feci salire Daisy sulla canoa. Quando fummo di nuovo in macchina le raccontai dei Watson e di come si erano dovuti trasferire all’estero per lavoro, per tre anni, e mi avevano offerto la loro barca per viverci. Abitavano a Londra e usavano la barca soltanto nel fine settimana e per brevi vacanze.

«Perché non scrivi e gli comunichi che servono delle riparazioni, così ti dicono cosa vorrebbero sistemare?».

«Ti sembrerà incredibile, ma non mi hanno dato il loro indirizzo e a me non è venuto in mente di chiederglielo prima che partissero».

«Magari potresti far riparare la copertura della cabina e chiedere di scalare il costo dall’affitto», suggerì dopo qualche momento di riflessione.

Con questa osservazione mi tolse il terreno da sotto i piedi. Se le avessi detto che non pagavo l’affitto, si sarebbe aspettata che pagassi almeno le riparazioni; perciò, se avessi seguito il suo consiglio, le spese sarebbero risultate a mio carico. In realtà secondo i termini dell’accordo avrei occupato la barca a titolo gratuito in cambio della manutenzione.

«Pago una cifra simbolica, un’inezia, che consegnai per intero ai proprietari perché ne avevano bisogno per il viaggio, ed è talmente poco che non ci sarebbe granché da scalare sui costi. Scusami, sono inorridito dal disordine che ho lasciato. Mi metterò a pulire e magari mi procurerò un telo impermeabile da stendere sul tetto della cabina per ripararla dal grosso della pioggia, ma lo scafo è sempre stato malandato. A un certo punto i Watson volevano venderla, ma gli acquirenti si tiravano invariabilmente indietro quando vedevano quanta acqua imbarcava nonostante la svuotassi di continuo. Mi dispiace averti offerto questo squallido spettacolo».

«Ero curiosa di vederla».

Alla fine della spesa, diverse ore dopo, tornai sull’argomento. «Capisci come non si sia trattato soltanto di prendermi cura di te. Per diverse settimane mi hai permesso di dormire in un letto caldo e asciutto, per non parlare del cibo delizioso che hai cucinato. Non sarà facile per me tornare alla vita di sempre».

«Non puoi mettere piede su quella barca nelle condizioni in cui si trova».

Il sollievo che provai all’udire quelle parole fu immenso. Mi si imperlò la fronte di sudore. «Grazie, sei molto gentile. Ricordati però che quando vuoi devi sbattermi fuori».

Avevo ottenuto quello che volevo.

Caricata la spesa in macchina, Daisy propose di guidare, per vedere come sarebbe andata. «Così capisco se la gamba è a posto».

«Va bene». Cosa avrei potuto dire? Era un altro passo verso la piena indipendenza. «Se senti dolore fai guidare me, intesi?».

«Okay».

Andò tutto bene per qualche chilometro poi, poco prima di svoltare sulla strada del cottage, Daisy lanciò un grido e inchiodò. Non avevo staccato lo sguardo dal suo profilo, senza curarmi della strada, e mi accorsi solo in quel momento che eravamo pericolosamente vicini al ciglio oltre il quale c’era un fossato. Ci fermammo appena in tempo. Non avevo ancora capito cosa stesse succedendo che lei era già scesa. Scesi anch’io. Sulla strada dietro di noi c’era un mucchietto di pelliccia scura.

«L’ho preso. Quando l’ho visto era troppo tardi», disse sconvolta. Si accovacciò e sfiorò l’animale. Era un gatto giovane. «È ancora vivo. Credi che...».

Mi abbassai per osservarlo. Era agonizzante. «Sali in macchina. Ci penso io».

«Portiamolo da un veterinario, forse possiamo salvarlo...».

«No. Torna in macchina, Daisy. Ti prego».

Quella povera creatura era ancora viva e mi fissava con gli occhi color ambra sbarrati, a bocca aperta, i bianchi dentini appuntiti scoperti in uno spasmo di dolore. Lo sollevai e miagolò debolmente. Afferrai la testa con una mano mentre con l’altra gli tenevo il collo. Gli spezzai le vertebre con una torsione brusca. Quando lo lasciai andare la testa ricadde sull’asfalto con una mollezza innaturale. Non sanguinava. Lo raccolsi e lo deposi sul cerfoglio selvatico che cresceva sul bordo della strada. Quando da ragazzo cacciavo di frodo abbreviavo così la sofferenza delle bestiole ferite: sapevo come fare, Daisy non possedeva certo la mia esperienza.

Se ne stava rannicchiata sul sedile del passeggero. Mi misi alla guida.

«È morto?».

«Sì».

«Guida tu. Non ce la faccio. L’ho ammazzato». Scoppiò in lacrime.

Mi voltai verso di lei e la abbracciai, facendo in modo che appoggiasse la guancia contro la mia. Oppose una lieve resistenza iniziale, poi si lasciò andare. La tenni stretta finché i singhiozzi non si placarono, e le tirai indietro la testa per poterla baciare. Posai semplicemente le labbra sulle sue e rimanemmo per un istante con il fiato sospeso, poi mi resi conto che rispondeva al bacio. Mi imposi di non approfittare di quel momento. Se un animale selvatico ti si avvicina devi rimanere immobile e in silenzio perché è l’unico modo per farlo avvicinare ancora di più. Sin dall’inizio avevo visto Daisy sotto questa luce, come una donna che aveva imparato a non fidarsi di nessuno e a temere il prossimo; intuizione confermata dalle informazioni che avevo raccolto in seguito (dal diario e dalle lettere). Quindi rimasi fermo; non inerte, ma passivo, in attesa della sua iniziativa.

Il suo bacio non durò a lungo, ma quando si scostò da me sentii che era smarrita, incerta su come comportarsi, timorosa nei miei confronti. La lasciai andare immediatamente.

«Guido io, se vuoi. Sappi che comunque non è colpa tua, poteva succedere anche a me, o a chiunque altro. Va bene?».

Mi lanciò un’occhiata nervosa.

«Sì, guida tu».

Per tutto il tragitto di ritorno rimase in silenzio. Il sapore delle sue lacrime sulle labbra mi appagava, ero piacevolmente stordito da quel primo bacio. C’è sempre qualcosa di speciale nel primo bacio, no? E poi la certezza inebriante di essere sul punto di ottenere tutto ciò che avevo sognato e architettato così a lungo...

Avevo visto giusto. Quella sera stessa mi accolse nel suo letto.