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Henry

 

 

 

 

 

Mi ha lasciato. Quest’ultimo colpo, il più tremendo di tutti, mi ha messo al tappeto. Non riesco a soffermarmi su questo pensiero abbastanza a lungo da farmi un’idea pur vaga del perché sia accaduto. Era innamorata di me – ne sono certo – oppure si trattava di semplice attrazione sessuale? Credevo che la mia considerevole esperienza in fatto di donne – in fondo ho più di sessant’anni – mi avesse insegnato quanto siano incredibilmente diverse dalla maggior parte degli uomini. Mi escludo dalla maggioranza di essi perché ritengo di aver sempre posseduto una comprensione intuitiva delle donne di cui mi sono innamorato. Sono relativamente poche, ma le ho conosciute meglio di quanto esse stesse si conoscessero. Adesso ritengo che, se ho sempre fatto fatica ad andare d’accordo con gli uomini, è perché ciò che so sul loro conto l’ho appreso principalmente dalle donne. Dalle loro confidenze, a volte semplicemente da come reagiscono, ho capito già molti anni fa con quanta poca cura siano trattate, come la precoce e affascinante consapevolezza della loro sessualità e delle loro inclinazioni romantiche sia troppo spesso soffocata sul nascere. Nascono così le fanciulle di ghiaccio, le arpie, le ninfomani, i grigi angeli del focolare e le madri di famiglia isteriche e sentimentali. La responsabilità di tali tristi risultati è degli uomini, e per questo io li critico, così come tutti criticano i genitori se i figli diventano delinquenti.

Ho avuto la fortuna e ovviamente il piacere di poter rimediare ad alcuni di questi danni; anzi, posso dire in tutta onestà che la più grande gioia della mia vita sia derivata dall’aver reso felice una donna, insegnandole a vivere il suo corpo con piacere e orgoglio. A un simile risultato non si arriva con le semplici prodezze sessuali. Non ho modo di confrontarmi con le prestazioni di altri uomini né mi interessa farlo, dico solo che i miei risultati derivano da un insieme di affetto, cura e amorevolezza che non può essere dato per scontato e che quando è presente richiede di essere espresso con costanza. Le donne non hanno soltanto bisogno di essere amate, ma anche di sentirselo dire. Mi sembra che George Eliot avesse un’opinione ben precisa in proposito.

E allora mi chiedo: con tutte le cose che so, com’è possibile che mi abbia lasciato? Perché l’ha fatto? Cosa l’ha spinta a gettare alle ortiche la sua felicità? Insieme alla mia, è chiaro: anche io ho molto da perdere, secondo alcuni più di lei, da questo allontanamento.

Ho impiegato mesi a trovarla; ci sono voluti tempo e ingegno per combinare un incontro, poi altri mesi e montagne di lettere per rassicurarla che ero quello giusto. Devo confessare che all’inizio di tutto non ero affatto sicuro che ci sarei riuscito. La consideravo un po’ una sfida, ma ho un carattere romantico e avventuroso, e in quel momento non avevo niente da perdere. Nell’arco di pochi mesi, infatti, mi ero ritrovato senza lavoro e senza moglie. Nonostante si trattasse di eventi più fastidiosi che tragici, il fatto che si fossero verificati contemporaneamente rendeva la cosa assai spiacevole, perlomeno da un punto di vista finanziario. In un istante mi ero ritrovato solo e indigente.

Vivevo da due anni in un piccolo cabinato appartenente a una coppia che si era trasferita all’estero lasciandomi il compito di venderlo per loro. Ricevo una pensione, che per un certo periodo ho arrotondato sottraendo di nascosto piccole somme dal conto bancario che condividevo con Hazel. Sono proprio contento di essermi liberato di quell’arida impicciona con la mania del controllo. Aveva da ridire su qualsiasi cosa facessi, ma per fortuna il suo lavoro sicuro e ben pagato la teneva sempre occupata, così negli ultimi anni del nostro matrimonio non abbiamo dovuto trascorrere molto tempo insieme. Il rancore che mi serbava perché non guadagnavo quanto lei – ma soprattutto perché sentiva di non contare niente per me – si esprimeva con periodici scoppi di una rabbia amara, così che nel tempo la mia indifferenza nei suoi confronti si è cristallizzata in un sentimento molto simile all’odio. Andare a vivere in barca fu un sollievo. Finalmente potevo restarmene a letto per tutta la mattinata se mi andava, mangiare quello che mi pareva quando ne avevo voglia, leggere per tutta la notte e sapere che le mie carte erano al sicuro. Le persone interessate all’acquisto del cabinato erano pochissime e non ci voleva molto a scoraggiarle. Prima che arrivassero per visitarlo riempivo le sentine, poi spiegavo loro che era tutta la mattina che cercavo di svuotarle con la pompa e che ogni giorno era la stessa storia. Per riparare lo scafo sarebbe bastato tirare l’imbarcazione in secca, ma a quel punto chissà quali altri problemi sarebbero spuntati fuori. La mia franchezza era molto apprezzata, e la cosa finiva lì. Non provavo alcun senso di colpa: in fondo i proprietari possedevano una casa dove, al loro ritorno, l’anno successivo, sarebbero andati a vivere. Ero soddisfatto. Non sono il tipo che si annoia; se mi mancava la compagnia, andavo al pub del paese.

Una volta a settimana prendevo l’autobus e andavo in biblioteca a restituire i libri e a prenderne di nuovi. Per un anno non feci altro che leggere e studiare romanzi di autrici del diciannovesimo e ventesimo secolo; loro sì che sapevano gettare una luce diversa e affascinante sui rapporti tra i sessi.

Tuttavia verso la fine del primo anno in barca cominciai a sentire il peso del futuro che incombeva. La comoda situazione in cui mi trovavo non era destinata a durare. È vero che a un certo punto sarebbe arrivato il divorzio e con esso anche qualche soldo, che l’appartamento che avevamo acquistato insieme era intestato a me e che presto Hazel avrebbe cominciato a percepire una lauta pensione dai suoi datori di lavoro, ma tutto ciò non solo non mi sarebbe bastato per vivere, ma avrebbe anche inciso negativamente sull’entità del sussidio che ricevevo dallo Stato. Insomma, mi toccava darmi da fare.

I primi tentativi furono un buco nell’acqua. Cominciai dal pub del paese, l’unico posto oltre ai negozi dove avevo contatti sociali. Certo, si trattava di scambi superficiali soprattutto con altri uomini, e se capitavano delle donne erano invariabilmente mogli o fidanzate: le prime ringraziavo il cielo di non averle avute per madri; le seconde erano tenute sotto sorveglianza talmente stretta che sarebbe stata una follia cercare di avvicinarle. Presi in considerazione la proprietaria, una vedova formosa prossima ai cinquanta, ma nelle sue reazioni c’era qualcosa di meccanico e banale che mi respingeva. In quel posto non ho mai incontrato una donna che potesse ispirarmi la minima scintilla di romanticismo, cosa di cui invece ho assoluto bisogno per funzionare a dovere. Così capii che dovevo estendere quella ricerca oltre i confini di quel piccolo paese a poche centinaia di metri dalla mia barca.

Negli anni ho imparato che se da un lato non bisogna mai smettere di cercare le opportunità, dall’altro è necessario avere ben chiaro il genere di opportunità che vale la pena trovare. In quel momento cercavo una donna più giovane di me di una decina d’anni. Se fosse stata più giovane di così avrei dovuto vedermela coi sintomi della menopausa, e poi una donna sulla trentina o addirittura più giovane avrebbe richiesto prestazioni sessuali che alla mia età non mi sentivo più di garantire, oppure – peggio ancora – avrebbe preteso un figlio che non avrei potuto darle perché ho provveduto a escludere una simile eventualità. Possono sembrare parole spietate, ma non lo sono. Se possedete un temperamento appassionato come il mio, e finite ogni volta per essere completamente assorbiti dall’oggetto del vostro amore – sono fatto così, mi conosco – un po’ di prudenza all’inizio dell’impresa vi ripagherà ampiamente degli sforzi.

Molte notti trascorse a meditare sulla questione mi consentirono di definire le caratteristiche della donna che cercavo: una persona che nella vita avesse affrontato modesti ostacoli e che si accingesse a percorrere in solitudine l’ultima tratta. Sfiorita, ma con i segni evidenti della bellezza di un tempo, doveva conservare un’aura di antico romanticismo, come una di quelle solide e armoniose costruzioni in stile neoclassico ormai in stato di abbandono nel parco di una grande tenuta. E potrei spingermi oltre nell’analogia: l’edera della sua esperienza la stava soffocando da anni e io, con il mio tocco delicato ed esperto, gliel’avrei strappata di dosso...

Doveva aver già soddisfatto da tempo le banali ambizioni femminili in fatto di matrimonio e figli; qualsiasi obiettivo raggiunto in un’eventuale professione o carriera sarebbe stato un bonus gradito: ho sempre considerato il successo un afrodisiaco potente. Doveva essere delusa dai rapporti sentimentali con gli uomini ma provare ancora attrazione per il sesso maschile; tuttavia, se anche avesse preferito le donne, non avrei avuto nulla in contrario, anzi, per un paio di settimane mi crogiolai nella fantasia di trovare una donna che fosse innamorata di un’altra, così da dare vita a un bel rapporto a tre. Ma so distinguere la fantasia dalla realtà, e so quanto sia improbabile una simile vincita alla lotteria del sesso. Ovviamente fantasticavo anche sui dettagli fisici: la immaginavo di corporatura minuta, con seni prosperosi e mani e piedi piccoli, e una folta chioma bionda dai riflessi rossastri, tagliata corta sulla nuca con la sfumatura a punta. Insomma avevo in mente una sua immagine piuttosto compiuta ma questo non mi aiutava nemmeno un po’ a trovarla nel mondo reale.

Una volta che ero in biblioteca mi venne l’idea di dare una scorsa agli annunci per i cuori solitari. Trovo interessante che si somiglino tanto tra loro. Le donne cercano un non fumatore col senso dell’umorismo e appassionato di arte in generale, tra i trentacinque e i cinquanta. Insistono per avere una foto. Io fumo, ma se serve posso smettere, e in ogni caso ho dovuto tagliare drasticamente il consumo di sigarette perché non me le posso più permettere; inoltre ho un certo senso dell’umorismo, anche se gran parte delle donne con cui ho avuto a che fare nella mia vita adulta non sembrano averlo apprezzato. Non posso dire che le arti mi interessino; il cinema per esempio non mi tocca più di tanto. La donna che voglia stare insieme a me deve farsi bastare il mio moderato apprezzamento della musica e la mia notevole conoscenza della letteratura. Quanto alle foto, ne ho accumulate moltissime, tra cui alcune di quando ero piccolo, ma quella più recente risale a un decennio fa. In ogni caso, se cinquant’anni fosse l’età massima, una delle ultime dovrebbe andare bene.

Ne scelsi una in cui me ne sto appoggiato a un grande albero, indosso una camicia con il colletto aperto e sorrido al fotografo. Ho i capelli mossi dal vento – con mia grande soddisfazione sono sempre stati ricci, folti e scuri, quasi neri – e appaio sicuro di me, quasi sexy, se posso dire. Mentre ne facevo stampare alcune copie (non mi aspettavo certo di far centro al primo colpo) cominciai a scrivere la lettera d’accompagnamento. Siccome i miei capelli sono passati inesorabilmente dall’essere brizzolati a un grigio rispettabile, dovetti inventarmi qualcosa per giustificarlo. Non fu difficile. Decisi di raccontare che ero diventato vedovo di recente, non di Hazel – che neppure con la fantasia più sfrenata sarei riuscito a trasformare in una figura romantica – ma di una donna assai più giovane e amabile. Mi era venuta in mente la povera, intelligente Helen Burns, l’amica di Jane Eyre che muore di tubercolosi dopo mesi di inedia, vessazioni e disinteresse da parte del personale della scuola e delle compagne. Helen sarebbe stata la povera moglie di cui mi ero preso cura fino alla fine.

Una volta individuato il modello, gli spunti per la storia iniziarono praticamente a piovermi addosso. Helen Burns era orfana, e anche mia moglie lo sarebbe stata: un’orfana sfortunata, sola e infelice. Finché non mi aveva incontrato. Con me era rifiorita: il mio amore, le mie premure e la mia costante attenzione alla sua tranquillità avevano dato una svolta alla sua breve e tragica esistenza. Che terribile colpo quando avevo scoperto che era malata! Ricordo di aver letto da qualche parte che Rex Harrison aveva nascosto a Kay Kendall la gravità della sua malattia, così era morta ignara che lui l’avesse sposata perché sapeva che la fine era vicina. Anch’io, dunque, avevo nascosto a Helen ciò che sapevo del suo stato di salute. Da questo all’averla sposata sapendo che presto sarebbe morta il passo era breve.

Il semplice atto di inventare quella storia mi assorbì al punto che per un paio di settimane dimenticai il motivo per cui lo stavo facendo. Piangevo per Helen, sempre più viva nella mia mente pur nel racconto della sua morte. In capo a quindici giorni, quando andai a ritirare le stampe della foto, sapevo tutto di lei e avevo scritto più di settanta pagine. Rileggendo (ovviamente sapevo che non avrei mai potuto usare quello scritto per la lettera) mi resi conto non solo di quanto amassi Helen ma anche di aver imparato moltissimo da quell’esperienza. Capivo con chiarezza due cose: che non avevo mai amato nessuna come lei, e che per nobilitare e realizzare la parte più profonda della mia natura avevo bisogno di un amore così. Mi rimisi a scrivere la lettera di presentazione con rinnovato entusiasmo.

Istintivamente sentivo che era meglio non dilungarmi troppo, ma dovevo capire come presentarmi nel miglior modo possibile evitando di apparire compiaciuto. Quelle settanta pagine erano colme della tenerezza, dell’adorazione e del coraggio che avevo saputo mostrare a Helen mentre la fine si avvicinava, e il modo migliore di mettere in luce tutto ciò era parlare del mio grande amore. Ma forse non sarebbe stato saggio dare l’idea di un amore troppo grande, o le destinatarie avrebbero pensato di non avere alcuna speranza di prendere il posto di Helen, e a nessuno piace essere la seconda scelta di un altro. Ovviamente avrei potuto collocare la morte di Helen più lontano nel passato, ma ciò mi avrebbe precluso la possibilità di usare il dolore del lutto come causa dei miei capelli grigi. Quindi doveva essere accaduto negli ultimi dieci anni, così da garantirmi abbastanza tempo per superare il dolore e capire che volevo rifarmi una vita con una nuova compagna. Dovevo dunque porre l’accento sulla mia eccezionale capacità di amare piuttosto che sulla figura di Helen. Decisi di farla semplice: ci eravamo sposati, poi lei si era ammalata ed era morta.

Passò l’inverno. Dapprincipio spedivo una lettera per volta, ma le risposte – quando arrivavano – erano così invariabilmente deludenti che cominciai a scriverne tre a settimana, e le spedivo tutte in una volta. In due occasioni andai a Londra per incontrare donne le cui lettere mi avevano dato da sperare, e dovetti sopportare un totale di due ore di chiacchiere e tè al Charing Cross Hotel.

La prima era una vedova, e non la smetteva di fare domande impertinenti sulla mia professione, senza curarsi di nascondere l’interesse verso la mia situazione economica. Le dissi che ero in pensione e lei mi accusò di averle mentito sull’età, quando in realtà non gliene avevo mai parlato. Già dopo qualche minuto mi ero reso conto che non eravamo fatti l’uno per l’altra, ma per educazione non me la sentivo di dirglielo in faccia, così tenni duro finché non osservò che riscontrava in me una mancanza di quell’ambizione che lei cercava in un uomo, aggiungendo che alla mia età avrei comunque potuto rifugiarmi in qualche hobby. La sua espressione condiscendente mi fece infuriare e replicai che possedevo la collezione di materiale porno più completa di tutto il paese e che mi interessavano più i culi che le poppe (nel suo caso entrambi fuori misura). Se ne andò immediatamente; pagò il conto – salato – e corse a prendere l’autobus.

Di primo acchito l’altra mi era sembrata più promettente: giovane, carina e nervosa al punto giusto, peccato avesse la tendenza a sottolineare qualsiasi cosa dicessimo con una risatina irritante. Aveva sempre vissuto con una madre che la teneva occupata anche nel tempo libero – faceva l’assistente in uno studio dentistico – e che non aveva mai accettato che avesse dei fidanzati. Poi, di recente, era morta e le aveva lasciato la casa in eredità. Mi faceva pena, ma non provavo nessuna attrazione per lei, né mi ispirava in alcun modo. Per mettere fine all’incontro le dissi che dovevo correre a prendere l’autobus e che le avrei scritto. «Non lo farai, vero? Non mi scriverai», disse allora. Stavo giusto cominciando a sentirmi dispiaciuto per lei, quando fece una delle sue risatine.

Di ritorno alla mia barca capii che con quel sistema non avrei mai trovato la donna che cercavo. E poi non meritavo forse qualcosa di meglio di una donna che mette annunci sentimentali sul giornale?

Non scrissi più lettere. Mi concentrai sulla mia Helen, ricamando sui momenti felici che avevamo vissuto insieme, e vi aggiunsi una miriade di dettagli sul suo aspetto e il suo modo di fare, al punto che divenne ancora più reale e me ne innamorai alla follia.

Trascorsi così il secondo autunno sulla barca. All’inizio dell’inverno avevo finito di leggere George Eliot, così andai a cercare nuovi titoli in biblioteca. Mi portai a casa Iris Murdoch, Virginia Woolf, Ouida ed Elinor Glyn, un titolo per autrice. Potrebbe sembrare una strana accozzaglia, ma a me piace spaziare liberamente nelle letture perché non sono un intellettuale snob. Menziono quella visita specifica in biblioteca perché fu quella sera, mentre rientravo a casa, che notai il cottage. Non che fosse la prima volta che lo vedevo, era parte integrante del panorama nelle mie passeggiate dalla barca al paese e viceversa, e mi era sempre parso disabitato. Quella volta invece le luci erano accese, e notai che una stanza aveva pareti rosse che irradiavano un bagliore rosato nel grigio crepuscolo autunnale. Il contrasto tra quell’immagine di confortevole tepore domestico e la mia dimora umida e triste mi colpì profondamente. Se la mia vita non fosse stata costellata di sventure, anch’io avrei potuto avere una casa così, più modesta di quanto mi imponessero le mie ambizioni, ma di sicuro assai migliore di quella in cui vivevo.

Quella sera, mentre finivo un avanzo di pasticcio di carne e rognone, feci un bilancio della mia situazione e mi lasciai prendere dallo sconforto: sessantenne, a carico dello Stato, senza fissa dimora (o sul punto di diventarlo: i proprietari mi avevano annunciato per lettera che sarebbero tornati prima del previsto), senza una donna, o qualcuno che mi tenesse compagnia. Come avevo fatto a ridurmi così? Se ripensavo alla mia giovinezza e a quanto mi fosse sempre stato facile attirare l’interesse delle ragazze che interessavano me, mi sembrava incredibile che avessi finito per restare solo. Donne di tutte le età avevano capitolato di fronte alle mie attenzioni. Se avessi sposato Daphne sarebbe andata diversamente? E se non avessi sposato Hazel forse il successo mi avrebbe arriso? Ogni volta che avevo avuto fortuna, non era durata più di qualche settimana, qualche mese a dire tanto. Non capivo perché, pur essendo dotato di un talento raro rispetto a molti altri uomini, non avessi mai goduto di quelle comodità emotive e di altro genere di cui la mia natura aveva tanto bisogno. È pur vero che diversi anni fa, all’epoca di Daphne, le mie prospettive e ambizioni erano assai superiori a quelle di adesso. Lo so, chi si loda s’imbroda, ma ero proprio un bell’uomo. Ed ero anche intelligente. Alle superiori, la mia professoressa d’inglese mi disse che dovevo continuare a studiare: se mi fossi impegnato avrei ottenuto una borsa di studio per l’università. Ma Daphne ci mise lo zampino, seguita – fortunatamente, come compresi in seguito – dalla guerra. In realtà fu mio padre a convincermi – più con le cattive che con le buone – a imparare il suo mestiere, anche se per me la professione di giardiniere rimane servile e carica di uno stigma che neppure un esercito di signore altolocate di mezza età in stivali di gomma verdi potrà mai cancellare. Per quanto blaterino di rose antiche a cespuglio e giardini bianchi, c’è sempre qualcun altro che vanga, che concima, che pota le siepi, che dirada e invasa e svolge una miriade di altri compiti ripetitivi e perciò stancanti. Quando ero ragazzo mio padre mise una buona parola per me – come diceva lui – e così mi è toccato fare questo lavoro. Poi ci mettevo un’eternità a lavarmi le mani per rendermi presentabile e poter uscire con Daphne.

Quella sera, uscendo dalla cucina con una tazza di caffè solubile, mi chiesi pigramente cosa avrebbe pensato Daphne – e tutte le altre, ovvio – se avesse visto come vivevo. Osservai il soggiorno con occhio critico. La vita domestica non mi ha mai attirato (uno che non riesce a trovarsi una donna che pulisca la casa e si prenda cura di lui non ha il diritto di definirsi un vero uomo), ma dovetti riconoscere che mi ero davvero lasciato andare: mi decidevo a lavare le stoviglie sporche solo quando non c’era più nulla di pulito. Chiunque abbia dovuto riempire la cisterna di una barca e poi scaldare l’acqua sul fornello ogni volta che ne aveva bisogno, capirà cosa voglio dire. Quell’autunno avevo cominciato a mangiare sulle pagine del «Sunday Times» e a bere sempre nella stessa tazza macchiata di tannino, o direttamente dalle lattine. Nel soggiorno e nell’angolo cucina c’erano montagne di cartacce, briciole e schizzi rinsecchiti di Guinness, marmellata di fragole e quant’altro. Il piccolo tappeto era lurido, gli oblò opachi per i fumi della paraffina e la condensa. Le lampade a olio si erano ricoperte di morchia nera, generata dallo stoppino non tagliato, e la cucina faceva ribrezzo. L’unica parte della barca che mantenevo pulita era la toilette (lo squallore in bagno non l’ho mai sopportato). I libri erano ricoperti da una patina di polvere mai smossa. Mi rendevo conto di tutto questo perché ogni volta che rientravo e aprivo il portello della cabina la puzza di paraffina, muffa, vestiti sporchi e tabacco mi aggrediva le narici. Se mai avessi trovato una donna, pensavo, le manovre di seduzione sarebbero avvenute sul suo terreno, non sul mio. Sono capace di elevarmi sulle difficoltà materiali, ma ciò non significa che obblighi gli altri a fare lo stesso. Non si tratta di priorità: per me l’amore è sempre l’unico fattore decisivo.

E l’ho perso ancora una volta! Strano come la mente si tenga alla larga dalle realtà insopportabili e cerchi rifugio nei dettagli più banali del passato, in frammenti inutili di ricordo o in congetture su ciò che sarebbe stato se un particolare aspetto secondario fosse stato diverso. Qualsiasi cosa pur di proteggerci per qualche secondo da una sofferenza atroce, anche se so che a lungo andare il dolore si affievolirà fino a scomparire. Immagini di lei scorrono nella mia mente con una muta intensità che mi spinge a gridare; ma pian piano la ripetizione (strano come il ripetersi sia il movimento principale della memoria) degenererà in un familiare dispiacere. Per ora la perdita è troppo recente per poter pensare che il dolore diminuirà. E il peggio è che io, in assoluta coscienza, non voglio che diminuisca: mi ci aggrappo come se fosse l’ultima occasione di provare un sentimento qualsiasi prima che si insedi la grande glaciazione della senilità che mi renderà un vegetale. E ne ho visti di vecchi dallo sguardo vuoto, la bava agli angoli della bocca mentre le mascelle biascicano senza sosta, e le mani, con le vene in rilievo e la pelle come cartapecora maculata, che lisciano capelli immaginari e abiti lisi. Ormai temo la vecchiaia molto più della morte.

Ricordo che quando ero giovane, appena un ragazzo, consideravo la vecchiaia con un misto di noia e incredulità. Non mi riguardava perché non sarei mai diventato vecchio. Il mio orizzonte arrivava fino all’età adulta, al momento in cui sarei diventato un uomo affascinante e nessuno avrebbe più potuto darmi del ragazzino o comandarmi a bacchetta. Strano come, quando siamo molto giovani, identifichiamo l’età adulta con la libertà. Crediamo che, una volta liberi dal dominio dei genitori, potremo davvero fare come più ci piace; non pensiamo che ci toccherà guadagnarci da vivere. E poi, quando cominciamo a lavorare, la vecchiaia si avvicina di colpo; perlomeno nel mio caso è andata così. Da allora è avanzata di soppiatto mentre non guardavo, come nel gioco che piaceva tanto alle mie compagne di scuola, un due tre stella. Ricordo che, poco prima di lasciare Hazel, un mattino sono stato svegliato da una fitta al fianco, mentre cercavo di girarmi ho guardato l’ora e mi sono reso conto che senza occhiali non ci vedevo. In quel momento ho compreso che la vecchiaia era arrivata furtivamente e mi aveva svegliato con un colpetto sulla spalla. Ero vecchio; in forma, certo, ma incontestabilmente vecchio.

Quel giorno, per contrastare il panico, passai in rassegna le risorse di cui ancora disponevo: il cuore e la pressione andavano bene; la memoria non era più quella di una volta ma ancora niente male; i capelli erano grigi ma folti; i denti, a parte un piccolo ponte, erano tutti miei. E in fondo, che usassi gli occhiali per leggere non giustificava una diagnosi di senilità. Con Hazel, a letto, non andava molto bene (bisogna essere in due per ballare il valzer, e Hazel era una pessima ballerina), ma anche da quel punto di vista funzionava ancora tutto. Eppure, chi mi vedeva per la prima volta avrebbe detto che ero vecchio. Magari avrebbe usato un termine più gentile, tipo “attempato”, ma l’impressione che davo era proprio quella di un uomo vecchio.

Per esperienza sapevo che sarebbe stato facile convincere me stesso che non era vero niente. Wells aveva ragione quando diceva che alle donne non importa nulla dell’aspetto di un uomo purché riesca a parlare. E, aggiungo io, ad ascoltare. In ogni caso, comunque, non avevo molto tempo per inventarmi una nuova vita non del tutto priva di piaceri. Se avessi avuto una donna sottomano me ne sarei innamorato senza problemi; ma la mia capacità di inventarmi i sentimenti non poteva fare a meno di un oggetto su cui proiettarsi.

Pensieri che mi tornarono in mente in quella serata umida. Ricordo tutto nei minimi dettagli perché fu l’ultima sera che trascorsi in quel modo. Quando ebbi finito il caffè e fumato l’ultima sigaretta del pacchetto mi venne una gran voglia di vodka, ma non avevo il becco di un quattrino. Misi a bollire dell’acqua e pulii finché non ne ebbi più. Adesso il resto della cucina sembrava davvero uno schifo, per cui misi su un altro bollitore e mi diedi da fare. Lavorai fino alle quattro di notte e poi crollai sul letto, la testa completamente vuota, nessun pensiero né per Helen né per chiunque altra.

Mi svegliai tardi. La nebbia densa e bianca che la mattina ammanta il canale come fumo si era dissolta quasi del tutto. L’esterno del sacco a pelo era umido di condensa, così rimasi disteso ancora per qualche minuto a riflettere sullo scomodo, noioso e deprimente processo che dal tepore del giaciglio mi avrebbe portato in soggiorno, dove mi sarei seduto con una tazza di tè bollente tra le mani. Il pensiero di un altro inverno in barca non era per niente confortante. Mentre mi infilavo i jeans e il maglione di lana grezza mi venne in mente l’idea malvagia di rimettere in sesto la barca, venderla come se fosse mia e scappare con i soldi per rifarmi una vita altrove. Ovviamente non diedi corso a quell’ipotesi, sono più onesto di tanti, ma a volte trovo divertente cullare pensieri così estranei al mio modo di fare.

Non ho nulla contro i voli di fantasia, anzi mi sembrano un modo innocuo per arricchire la propria vita interiore. Ricordo come ci rimanevo male da bambino quando i miei genitori e gli insegnanti mi accusavano di sognare a occhi aperti, come se ciò fosse un reato. Ma il fatto è che quel giorno, un sabato banale e monotono verso la fine dell’estate di San Martino, esigeva da me una bella dose di ottuso senso pratico. Dovevo riempire la cisterna, il che voleva dire tirare la barca oltre il primo ponte del canale fino alla chiusa, dove potevo attaccarmi al tubo di una casa vuota e riempirmi di straforo il serbatoio. Inoltre dovevo fare la spesa e ritirare i vestiti puliti in paese. Buttai giù la solita lista: uova, bacon, salsicce, carne in scatola, patate, cipolle e carote, una pagnotta grande, pomodori, latte e un barattolo di Nescafé. Mi servivano anche detersivi e tutto l’occorrente per le pulizie: non sarebbe bastato un solo viaggio.

Mentre ci passavo accanto notai che al piano superiore del cottage le tende erano tirate: nessun segno di vita. Notai anche che il giardino – perlomeno la parte che riuscivo a vedere – era completamente inselvatichito. Qua e là cumuli di sfalci fradici, ortiche annerite dalla brina, vitalbe, cardi e persino seneci. Poi, nel punto più distante, oltre la siepe che lo circondava, vidi l’auto più bella su cui avessi mai posato lo sguardo. Era una Mercedes decappottabile a due posti, avrà avuto una ventina d’anni, con la capote nera in elegante contrasto con la carrozzeria grigio-verde metallizzata. Un’auto così poteva appartenere soltanto a un riccone romantico alla Gatsby. Non potei fare a meno di avvicinarmi per osservarla meglio. Era in ottime condizioni. La bella carrozzeria dalla forma allungata era tirata a lucido, le cromature scintillanti. Aveva il cruscotto in radica di noce e la selleria in pelle nera. A chiunque fosse il proprietario di certo non mancava la grana. Forse era un regista o una pop star, il genere di persona che si circonda di accessori come cottage in campagna e auto di lusso. E ovviamente il giardino trascurato faceva parte del profilo del proprietario, un neo-arricchito che veniva dalla metropoli. Per il resto della camminata mi crogiolai in un sentimento di purissima invidia, non tanto perché volessi anch’io un’auto come quella, ma perché avrei goduto moltissimo a essere nella posizione di poter scegliere se volerla. Il lato peggiore della povertà è proprio la mancanza di opzioni. Pensai: e se dovessi scegliere tra comprare il cottage o l’auto? Persino quella scelta era ben oltre le mie disponibilità economiche al momento.

Mentre facevo la spesa domandai chi abitasse nel cottage vicino al ponte sul canale. Una signora di Londra che si era appena trasferita, di nome Redfearn. Esisteva per caso un signor Redfearn? Non si sapeva. Ripensandoci, già in quel momento pensavo alla possibilità che la sconosciuta fosse disponibile. Se fosse esistito un signor Redfearn non mi sarei spinto oltre. L’esperienza mi ha insegnato che non ha senso corteggiare le donne sposate, sia che si tratti di un matrimonio serio o anche solo di convenienza, perché bisogna combattere contro la loro buona coscienza – la parte invariabilmente più tediosa – con il rischio che il marito scopra tutto al momento sbagliato. E poi, con tutte le donne che ci sono in giro, non ha senso andare dietro a quelle già occupate. Forse quando ero giovane non coglievo questo aspetto, anzi, la presenza di un marito rendeva l’inseguimento ancora più romantico ed eccitante, e del resto ci sono anche donne – io in vita mia ne ho incontrata una sola – la cui posizione sociale ed economica vale qualsiasi sforzo, anche il più temerario. Povera Charley, pensai, povera ragazza ricca! Incredibile quanto può essere distruttiva la famiglia quando vuole decidere per te. Nel caso di Charley non pensavano ad altro che ai soldi, proprio perché ne avevano già tanti, ed erano pronti a fingere che quell’ubriacone senza speranza del marito fosse per lei un compagno migliore di quello che potevo essere io. In ogni caso, dopo quella débâcle cominciai a evitare le donne sposate.

Tornando a casa con il primo carico di borse della spesa, notai che l’auto era scomparsa. Dal camino però usciva del fumo. Forse Mrs Redfearn era semplicemente uscita per pranzo, da sola o con il marito. Seguendo un impulso improvviso, attraversai il giardino in abbandono per dare una sbirciata all’interno. Se in casa ci fosse stato qualcuno, avrei detto che ero andato a chiedere se avevano bisogno di un giardiniere. Il soggiorno aveva davvero le pareti rosse, un colore che faceva a pugni con il rosa delle tende. C’erano due ampi divani e, al centro della stanza, alcune casse di legno piene di libri. Vidi anche diversi cuscini di grandi dimensioni ricamati con pezzetti di vetro colorato. Nel vasto camino un focherello stentato faceva molto fumo. Non c’era nessuno.

Mi spostai sul lato del cottage dove immaginavo si trovasse la cucina. Se avessi visto un certo numero di tazze o tazzine in giro mi sarei fatto un’idea di quante persone avevano fatto colazione quel giorno.

La cucina aveva finestre anche sul retro; erano due stanze comunicanti. Oltre al normale arredo c’era un grande tavolo rotondo di pino sul quale erano sparsi gli avanzi di una colazione per una persona. Ne dedussi che Mrs Redfearn era venuta da sola. Per quel che ne sapevo, in quel momento poteva essere alla stazione a prendere il marito. Non so come (e non è senno di poi, perché ricordo chiaramente quella sensazione), ma intuii subito che viveva da sola ed era divorziata o vedova.

Rammento molto bene quello strano pizzicore che si avverte quando di colpo si è sicuri di una certa cosa pur senza saperla veramente. In un attimo seppi che Mrs Redfearn avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella mia vita futura. Potevo smettere di cercare: ora c’era lei.

Mentre facevo tutte queste scoperte sentii il rumore dell’auto che si avvicinava. Ebbi appena il tempo di tornare indietro sul vialetto e uscire dal cancello, che lei sbucò dall’angolo della siepe. Era alta, indossava un impermeabile lungo, stivali e un cappello di feltro nero di foggia maschile che le era scivolato all’indietro. Era carica di borse della spesa, e quando mi vide si fermò un istante.

«Ha bisogno di qualcosa?».

«In realtà credo che sia lei ad avere bisogno di me».

«Ah, sì?». Era arrivata al cancello ed eravamo molto vicini. Nei suoi occhi grigi c’era diffidenza. Le propinai un discorso ben collaudato sullo stato del giardino.

«Credo che abbia ragione», disse. «Non ci avevo ancora pensato. Aspetti, vado a posare le borse».

Mentre entrava in casa squillò il telefono. Riapparve dopo qualche minuto e mi chiese se potevo tornare quel pomeriggio verso le tre.

Accettai la proposta. Mentre mi dedicavo alle faccende di casa riflettei su quante donne – la stragrande maggioranza, se non tutte – sono drogate di telefono. Volevo trovare qualcosa di ordinario in lei per tenere a bada l’eccitazione violenta generata dall’incontro. Potrà sembrare straordinario a un osservatore esterno, ma mi era bastato guardarla per trovarla bella. Ho una teoria al riguardo, perché mi è capitato diverse volte nella vita, e quando ne ho parlato alle donne in questione esse hanno sempre sollevato dubbi, e in alcuni casi mi hanno completamente frainteso. Quando vediamo un viso per la prima volta, possiamo guardarlo senza idee, immagini, forme preconcette. Se voglio, posso guardare un volto nuovo sperimentando un senso di totale scoperta e al tempo stesso di riconoscimento. In quel momento conosco la persona che ho davanti, e inevitabilmente – per tutta la durata dello sguardo – amo ciò che vedo e che so. Una donna una volta mi ha detto che tutto ciò poteva essere vero solo se io fossi stato predisposto ad amare ancora prima di incontrare la persona, al che ho ribattuto che un sentimento può benissimo essere vero per una persona in particolare senza esserlo anche per tutti gli altri. Di certo non amo tutti indistintamente, infatti vedo poche persone, ma quelle poche le amo, o le ho amate in passato.

E ora Mrs Redfearn fa parte del club.

C’è anche da dire che quella prima immagine si fissa nella mia mente in modo indelebile. Nonostante ormai possieda una miriade di immagini di lei, in qualsiasi momento posso sbarrare l’accesso al presente e richiamare quella prima visione, quando mi trovavo a mezzo metro da lei e ci siamo guardati per la prima volta. Sapevo che mi stava studiando, o che almeno ci provava; ma nel suo sguardo c’era anche qualcos’altro: selvatichezza, paura, familiarità con le delusioni; bagliori fugaci che gran parte delle persone non avrebbero colto ma che io riesco a individuare a colpo sicuro dopo una vita intera di appassionata osservazione delle reazioni delle donne in tutte le loro sfumature. Credo di aver capito in quel momento che gran parte della sua vita era stata improntata alla sopportazione e non al piacere.

Notai altri dettagli. Doveva avere circa cinquantacinque anni: era di carnagione chiara, la pelle del viso perfetta ma solcata da una miriade di rughette sottili attorno agli occhi e alla bocca, più profonde tra le sopracciglia, che erano simmetriche e molto arcuate, come nei ritratti dell’epoca elisabettiana. Potrei continuare a descriverla nello stile shakespeariano: naso aquilino, labbra sottili, pallide, atteggiate a sussiego ma capaci di volgersi repentinamente al sorriso. Ma sto precorrendo i tempi, perché ancora non mi aveva sorriso, né si era tolta il cappello.

Ovviamente in seguito ho avuto modo di conoscere molti altri dettagli, fisici e di altro genere, ma nulla ha modificato o smentito questa prima impressione.

Alle tre tornai al cottage. Non c’era un alito di vento. La luce del sole, fredda e grigia, dava un tono plumbeo al verde della vegetazione sul sentiero lungo il canale. Dal ponte si vedeva il tetto di ardesia dell’edificio. Dal punto in cui mi trovavo la strada per il villaggio proseguiva in discesa per circa un chilometro e mezzo. Dal comignolo non usciva fumo, e per un istante pensai che fosse ripartita, ma poi immaginai che il fuoco nel camino si fosse spento – i londinesi non sono abituati a mantenerlo acceso – e fu allora che mi venne in mente che avrei potuto offrirmi di riavviarlo.

Avevo ragione riguardo al fuoco. Si era tolta l’impermeabile. Ora indossava un dolcevita nero che sembrava di cashmere e una giacchetta di lana pesante ricamata con un motivo di papaveri.

«Oh... salve. Grazie di essere tornato. Mi spiace per prima. Sa, era un’interurbana, non volevo perderla e poi dover richiamare. Cosa pensa di poter fare per il giardino?».

«Non ho ancora guardato. Possiamo andarci insieme».

Sentii il suo sguardo su di me. «Be’, non farà certo più freddo che in casa».

Facemmo qualche passo sul vialetto invaso dalle erbacce.

«L’ho appena comprata», disse in tono dubbioso, come se non fosse convinta di aver fatto bene.

«Fuori è una vera e propria giungla. I cottage devono avere un ambiente adatto tutt’intorno, un giardino, per quanto piccolo. Pensi a Lark Rise. I cottage hanno sempre un giardino, nell’idea che ne abbiamo».

«Cosa?».

«Flora Thompson, Lark Rise to Candleford. Sulla vita quotidiana in un villaggio all’inizio del secolo. Molto diversa da adesso».

«Ah, sì. L’ho letto... anni fa». Mi fissò, e distolse lo sguardo. «Mi chiedo cosa mi sia preso a comprarlo».

«So che se lo chiede».

Mi lanciò un’altra occhiata furtiva. «Ovviamente mi servirà un preventivo». Sentii che se avessi continuato leggerle nel pensiero l’avrei innervosita e si sarebbe ribellata come una giumenta inquieta.

«Devo solo prendere qualche misura approssimativa, poi potremo rientrare per parlare di cosa le piacerebbe, se vuole».

«Il fuoco si è spento e ho finito gli inneschi».

«Non mi servono inneschi».

Non replicò. Si limitò a tenere ferma l’estremità del metro a nastro mentre prendevo le misure e le scrivevo sul retro di una busta con la penna d’oro di Charley. Sono certo che notò il fatto che era d’oro. Rimanemmo in silenzio finché non ebbi finito (non ci volle molto) e non fummo rientrati in casa. «Mi scuso se poco fa sono stato un po’ invadente, ma sono una di quelle persone che non vedono l’ora di poter accendere un bel fuoco nel camino».

«Faccia pure. In quella cesta ci sono legnetti e carta di giornale».

«E legna un po’ più grossa non ne ha?». Accanto al camino c’era soltanto un grosso ceppo, una specie di trave.

«Dovrebbe essercene in fondo al garage. C’è una carriola piena di legna, l’ho vista proprio fuori dalla porta sul retro».

«Bene, vado a prenderla».

Pensai alla sua voce mentre caricavo la legna e spingevo la carriola verso l’entrata secondaria. Non vorrei usare l’aggettivo “fanciullesca”, ma era acuta e molto limpida. In un certo senso provai uno shock nel sentire che veniva da una donna come lei, perché me la faceva immaginare molto più giovane e vulnerabile di quanto il suo aspetto attuale lasciasse intendere. In ogni caso era una voce leggiadra, senza età e affascinante.

Sono molto sensibile alla voce delle persone, alla tonalità, al timbro e all’accento. So imitare le voci altrui e anche la mia di quando ero giovane (negli anni ho notevolmente modificato la mia dizione). Se mio padre mi avesse chiamato al telefono negli ultimi vent’anni non mi avrebbe riconosciuto. Insomma fu una fortuna che lei avesse una voce capace di affascinarmi. A quel punto avevo deciso che volevo essere affascinato. Ma ero anche molto nervoso perché mi trovavo nella fase in cui persino il dettaglio più insignificante avrebbe potuto mettere a repentaglio tutta l’impresa. Inoltre, come sapevo dalle esperienze passate, in quella fase dovevo fare in modo che Mrs Redfearn si interessasse a me. Si trattava di una sfida, di un’avventura, di un susseguirsi di schermaglie eccitanti più che di un momento in cui erano in gioco i sentimenti. Quello che dovevo fare ora, dunque, era innescare un processo in cui ogni cosa ne provocasse un’altra.

Tornai con la legna e mi dedicai all’accensione del fuoco. Mi offrì una tazza di tè, che accettai. Le chiesi se aveva un foglio sul quale disegnare il progetto del giardino. Sentii che questo atteggiamento formale la rassicurava. Rimasi più a lungo del necessario seduto sul pavimento a osservare le fiamme e l’andirivieni della padrona di casa dalla cucina al soggiorno. Aveva soltanto della carta per foderare i cassetti, disse. Posò il vassoio del tè su uno dei cuscini ricamati. «Non ho ancora un tavolo. Devo comprarlo», disse.

Il fuoco scoppiettante riscaldò subito l’atmosfera. Intanto il crepuscolo tingeva il cielo di colori cupi. Quella notte avrebbe gelato. Lo notai mentre lei chiudeva le tende per preservare il calore.

Dopo un po’ ci ritrovammo seduti sui divani, uno di fronte all’altra. Mi offrì una sigaretta. Mi alzai per accendergliela.

«Porta sempre il cappello?».

«Certo che no. Ho solo dimenticato di togliermelo». Se lo tolse e girò il viso verso la luce.

Non avevo mai visto capelli come i suoi in tutta la mia vita. Erano scuri, striati di bianco candido, un’esplosione di ricciolini fitti. Se avesse avuto i capelli lunghi sarebbero stati boccoli perfetti. Ma la cosa più strana era la loro finezza, quasi di ragnatela, la capigliatura di una fata. Chiunque li avesse visti per la prima volta avrebbe desiderato toccarli, ne ero certo.

Mi chiese di accendere la lampada più vicina a me, accanto al divano. Ottima cosa, perché la luce del fuoco, per quanto romantica, non permetteva di vedere granché. Versò il tè in due tazze a strisce e cominciò a parlare del giardino. Aveva sempre desiderato averne uno, ma non sapeva quasi niente di giardinaggio. Non voleva nulla di elaborato. «Sa, mi ha fatto venire un colpo quando ha detto che voleva disegnare un progetto... Non posso permettermi di spendere migliaia di sterline per il giardino».

«Ma certo. Più che altro il disegno serve a me per capire cosa vuole».

«Gliel’ho detto, me ne intendo così poco che non so nemmeno cosa mi piace».

«Come i critici d’arte? Mi sembra che non abbiano la minima idea di cosa gli piace veramente».

Fece una risatina piegando la testa all’indietro.

«Come le è venuto in mente questo paragone?».

«Leggo».

«Non ridevo di lei. Rido perché è proprio vero».

«La verità la fa ridere?».

«A volte, sì. Non dovrebbe?».

«Allora la verità non è importante per lei?».

Mi lanciò un’occhiata indecifrabile e che voleva incutere timore. Gettò il mozzicone nel fuoco. «I dibattiti filosofici non sono il mio forte. Atteniamoci a questioni di giardinaggio».

«Bene». Diventai immediatamente professionale. Ne so abbastanza di giardinaggio da rendermi conto di non sapere tutto, ma anche da riuscire a sembrare molto competente a chi ne sa ancora meno di me.

Quindi mi lanciai in questioni come l’esposizione, l’analisi del suolo, i giardini che richiedono molte o poche cure, i pro e i contro delle piante decidue o sempreverdi...

«Senta», disse interrompendo la mia tiritera, «voglio solo un giardino carino e semplice, adatto a un cottage. Con rose rampicanti, lavanda, e quei fiori alti con le spine lunghe che si ricamavano sui copriteiera... i malvoni! Ecco, cose così, nulla di ambizioso o elaborato, perché comunque nei prossimi mesi non ci sarò spesso».

Ecco una brutta notizia.

«Allora pensava a un giardino soprattutto estivo?».

«Non particolarmente. Per me questo è un luogo dove correre a rifugiarmi quando non ho impegni».

Capii che non sarebbe successo tanto spesso. Man mano che mi rendevo conto delle implicazioni del suo discorso, cominciai a dubitare di aver fatto la scelta giusta.

«Per caso conosce qualcuno cha abita nei dintorni che potrebbe fare da custode... cioè prendersi cura del giardino quando non ci sono?».

«Potrei farlo io. Ci penserò», dissi.

«Allora pensava di fare un disegno?».

«Non credo sia necessario. È stata molto chiara riguardo alle sue preferenze. E sarebbe carino se potesse scegliere il momento d’inizio dei lavori. Quando pensava di partire?».

«Oh... lunedì. Me ne vado domani sera».

Incredibile quanto sia veloce il pensiero, quante idee si possano sviluppare in un batter d’occhio. Pensai: non va bene, non c’è abbastanza tempo. Ma se prendo l’incarico di curare il giardino riesco a mantenermi aperta qualche strada, e se domani riesco a farla stare con me per buona parte della giornata scoprirò qualcosa di più sul suo conto: in fondo uno non compra un cottage se non ha intenzione di starci, e poi credo di piacerle, è guardinga, certo, ma è un buon inizio. Ad ogni modo, cos’ho da perdere se sparo tutte le mie cartucce nelle prossime ore? Qualsiasi limite è una sfida. Una volta ti piacevano le sfide, ricordi? Mi alzai in piedi per poterla guardare dall’alto.

«Mi occuperò del suo giardino. Zapperò, mi prenderò cura delle piante e lo terrò pulito, ma mi serviranno degli attrezzi, un forcone, roba così. Potremmo andare insieme al vivaio per prendere un po’ di utensili, qualche pianta e dei bulbi. Siamo ancora in tempo per la messa a dimora».

«Domani ho moltissimo da fare. Devo spacchettare i libri e le cose di cucina».

«Io invece sono completamente libero e si dà il caso che adori sbirciare cosa leggono gli altri». Mi accorsi subito di aver esagerato (e in questi casi so bene che bisogna mostrarsi inconsapevoli dell’errore), per cui aggiunsi: «Parlare di soldi è sempre imbarazzante, ma volevo dirle che la mia tariffa è quattro sterline l’ora. Solo per il giardinaggio, s’intende, non per venire con lei al vivaio».

«Come faccio a sapere quante ore le servono per svolgere il lavoro?».

«Immagino che dapprincipio mi ci vorrà una settimana per ripulire il giardino e ripiantare. In seguito dovrebbero essere sufficienti quattro ore a settimana, mezza giornata in tutto; un po’ di meno in inverno, un po’ di più in primavera ed estate. Non sono in grado di dirle nulla con precisione. Questa è la parte più azzardata. Quando è via, dovrà fidarsi di me per il conteggio delle ore». Mi lasciai sfuggire un lieve sorriso al pensiero della disonestà in generale, poi conclusi: «Naturalmente, se vuole posso fornirle delle referenze magnifiche».

«Immagino che con “magnifiche” intenda raccomandazioni da parte di gente snob?».

«Esatto».

«Non ne vale la pena. È assunto».

Si alzò, mi accompagnò alla porta.

«A che ora vuole che venga domani?».

«Verso le dieci?».

«Bene. Grazie per il tè».

Raggiunsi il cancello e mi voltai: stava chiudendo la porta, come se fosse rimasta a guardarmi per tutto il tempo ma non volesse darlo a vedere.

Era stato un incontro alquanto convenzionale. Nessuno aveva detto nulla di importante, né era accaduto granché. Non ci eravamo nemmeno presentati: tutto si era svolto in modo volutamente impersonale.

Quella sera tornai più volte sugli eventi della giornata. Ho una buona memoria, soprattutto per i dialoghi, e trovo che ricordare esattamente cosa hanno detto le persone permetta di accedere a tutto un insieme di impressioni e percezioni che sul momento sfuggono. Le parole, infatti, non portano con sé soltanto il ricordo della voce, ma anche l’espressione degli occhi, la postura, l’atteggiamento generale (credo che oggigiorno si dica “linguaggio del corpo”), e perciò forniscono una gran quantità di informazioni. E le informazioni erano proprio ciò di cui avevo un disperato bisogno, dato il poco tempo a mia disposizione. Come si può pensare di catturare un’ombra o un fantasma? Il fatto che presto se ne sarebbe andata (per quanto tempo?) richiedeva senz’altro una reazione rapida e precisa da parte mia. La sua partenza era un duro colpo, ma incontrarla era stato uno shock delizioso.

Quella sera e quella notte interruppi a più riprese il flusso dei pensieri per cercare di fermare il suo volto come l’avevo visto la prima volta, gli occhi grigi, diffidenti, che mi ricordavano i quadri delle carte da gioco francesi. A notte inoltrata mi chiesi che forma avessero quando sorrideva, e mi resi conto che quel pomeriggio non aveva mai sorriso. Sì, era scoppiata a ridere alla mia battuta sui critici d’arte, ma aveva gettato la testa all’indietro. Avevo avuto l’impressione che ridesse di me, e in questi casi non riesco più a pensare né a osservare. Poi aveva detto che non rideva di me, e comunque per tutto l’incontro non aveva mai sorriso. La sua era forse un’infelicità profonda, cronica? Oppure non aveva mai provato un piacere spensierato (condizione più diffusa tra le donne di quanto non si creda)? Chi era Mrs Redfearn? Avevo la netta sensazione che il marito, se c’era, non vivesse con lei. Ecco una delle prime cose da scoprire. Un’altra era perché partiva e per quanto tempo sarebbe stata via. E poi: dove andava?

Mi addormentai non senza aver ipotizzato una serie di risposte, tutte da verificare. Una cosa era certa: ero sul punto di lanciarmi in quella che speravo fosse la più grande avventura della mia vita.