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Daisy
Aveva deciso di partire per Londra nel primo pomeriggio, ma la cosa si era rivelata impossibile. Prima della telefonata di Carter, il piano era di rimanere almeno fino a lunedì mattina. Erano le sei... no, le sei e mezzo di domenica: avrebbe incontrato il traffico intenso del fine settimana, e poi, una volta a casa – chissà a che ora –, le sarebbe toccato fare le valigie, scrivere istruzioni per la domestica a giornata, lasciare messaggi in varie segreterie, insomma fare tutto il necessario per preparare un viaggio che non sapeva quanto sarebbe durato. Grazie al cielo aveva un garage, pensò mentre entrava in auto. Aveva parcheggiato davanti al cottage per caricarla, benché alla fine le cose da portare fossero davvero poche: soltanto qualche vestito, la macchina da scrivere e una valigetta di documenti. Si voltò a guardare il cottage per accertarsi di aver spento tutte le luci. Era buio. Contro il cielo illuminato da una luna torbida, la casa era una sagoma scura e indefinita. Ho chiuso l’acqua, spento il fuoco e serrato tutte le finestre, pensò. Era così stanca che provava l’impulso di andare a controllare di aver dato le mandate alla porta, ma decise che farlo sarebbe stato senile dal momento che ricordava perfettamente lo sforzo che c’era voluto per girare la chiave nella toppa. Partire. Un tratto in salita, attraversare il ponte sul canale e poi svoltare a sinistra. Percorso facile per circa venticinque chilometri fino alla M40. Lanciò il cappello sul sedile posteriore e voltò la cassetta per ascoltare il lato con le partite di Bach nell’esecuzione di Gould. Cintura, sigaretta e via.
I fari della Mercedes illuminavano gli alberi e i cespugli a bordo strada rendendoli simili a un fondale teatrale. Ottimi fari, come tutto il resto. Adoro la mia auto, pensò. Mi mancherà. Ma al ritorno l’avrebbe trovata ad attenderla, leale come sempre. Non sarebbe andata a cercarsi un altro padrone né avrebbe fatto incidenti: era decisamente più affidabile di un marito.
Avvicinandosi al ponte vide una persona seduta sul parapetto di destra. Un uomo. Mentre passava, l’uomo le mandò un bacio con la mano; un gesto elegante e romantico che non le era mai capitato di vedere ma soltanto di leggere. Si rese conto che era Mr Kent. Strano che fosse lì proprio in quel momento. Aveva cercato di fermarla? No, l’aveva semplicemente salutata in modo un po’ bizzarro. Dopotutto abitava su una barca ormeggiata temporaneamente sul canale; non era così strano che si trovasse sul ponte. Forse tornava dal pub. Si era offerto di aiutarla a caricare la macchina e chiudere il cottage, ma dopo una mattinata e un pranzo tardivo a base di sandwich Daisy ne aveva abbastanza della sua presenza. Voleva starsene un po’ da sola in quella casa di cui adesso era proprietaria.
Si era reso utile, soprattutto con i libri. Se avesse saputo che era richiesta la sua presenza in America per un periodo così lungo, non li avrebbe certo fatti portare fin lì. Tuttavia, visto che ormai era fatta, tanto valeva tirarli fuori dalle casse... anche se a lungo andare, nella casa vuota, l’umidità avrebbe avuto la meglio. Forse comprare un’altra casa era stata una follia, specie in quel luogo remoto dove non conosceva nessuno né aveva contatti grazie ai quali trovare qualcuno che si prendesse cura del cottage quando lei non c’era. In realtà era quello che voleva: un luogo al di fuori delle sue rotte abituali per evitare le folle frenetiche del fine settimana, gli inviti degli amici nelle loro case di campagna dove era tutto un susseguirsi di aperitivi, pranzi, ancora aperitivi e cene. Cercava un posto tranquillo, dove nessuno l’avrebbe notata perché la sua faccia non era conosciuta, per poter lavorare, dormire e leggere in santa pace. Anthony si era offerto di accompagnarla per darle una mano a prendere possesso della casa, ma lei aveva rifiutato. E poi aveva accettato l’aiuto di un perfetto estraneo. Che stranezza tornare dalla prima spesa in paese e trovarselo davanti alla porta come se la stesse aspettando. Al vederlo aveva provato un vago senso di allarme, ma poi si era capito che cercava soltanto lavoro come giardiniere (utile e rassicurante). Dopo però aveva notato che il tizio non aveva nulla del giardiniere a cottimo. Se n’era accorta quando aveva fatto quella sorprendente osservazione sui critici d’arte seguita da una serie di domande inaspettate e – in qualche modo – inopportune.
In ogni caso l’aveva già implicitamente assunto chiedendogli di tornare nel pomeriggio. Se il telefono non avesse squillato – la chiamata dall’America – pochi secondi dopo il loro primo incontro, glielo avrebbe comunque proposto? Lo avrebbe preso come giardiniere? Certo, se fosse risultato un chiacchierone e le avesse fatto perdere tempo, poteva sempre liquidarlo dicendogli che voleva occuparsi lei stessa del giardino, una scusa qualsiasi. Ma il problema, se un problema c’era, si sarebbe posto molto più avanti: era probabile che restasse bloccata a Los Angeles per almeno due mesi, forse tre. L’idea non la entusiasmava.
Allora provò a elencare i possibili vantaggi della situazione. Avrebbe evitato gran parte dell’inverno inglese. Nei periodi di pausa sarebbe riuscita ad andare a New York e in Messico. Non avrebbe avuto problemi di soldi per almeno due anni. Lavorare insieme a George le piaceva. Infine, vantaggio non meno importante degli altri, le possibilità di imbattersi in Jason e Marietta sarebbero diminuite drasticamente: nell’ultimo periodo le capitava con una regolarità che avrebbe definito monotona, se quegli incontri non le avessero causato una sofferenza acutissima. E molta rabbia... ecco, la rabbia era importante, non doveva scordarsene.
Dopo dodici anni, di cui dieci dal divorzio, il dolore e il trauma... anzi, il ricordo del trauma, erano ancora vivi mentre l’umiliazione, l’orgoglio ferito e la rabbia per quello che aveva dovuto subire doveva sollecitarli lei. Non ora, non più, pensò. Ti stai lasciando alle spalle queste cose. Anzi, lo hai già fatto, e da tempo: non devi più preoccuparti di come dividerti tra lavoro e amore, ti vesti bene per piacere a te stessa, puoi leggere tutta la notte se ti va, puoi saltare i pasti, comprarti un’auto costosa e un cottage: insomma sei libera di fare ciò che più ti piace. Quanto alla gratificazione, quindi, tutto bene, ma che ne è della seduzione e del piacere? Ho – cioè, avrei – bisogno di qualcuno, se non fossi troppo vecchia per queste cose. Alla mia età rimane soltanto il lavoro, che per fortuna ho. Però non era il caso di mettersi a pensare a certe cose proprio in quel momento.
Per non sforzarsi troppo di tenere a bada i pensieri, accese l’autoradio. Le note di Bach riempirono l’abitacolo e la sua mente; passione e logica unite in un abbraccio che le perfezionava. Nessun altro compositore, a suo giudizio, era capace di tanto. Era ormai vicina all’autostrada: sperò che la cassetta durasse quanto il viaggio.
Il tragitto dal North Oxfordshire fino a casa e tutte le cose da fare all’arrivo non la stancarono al punto di conciliarle il sonno, come aveva sperato. Aveva fatto un bagno caldo nel tentativo di allentare la tensione nervosa in vista del viaggio, ma non era servito. Ora se ne stava distesa al buio e cercava di annoiarsi abbastanza da scivolare nel sonno. Ripercorse mentalmente gli elenchi delle cose fatte e di quelle da fare, i messaggi in segreteria e come aveva risposto: non potendo richiamare Katya, perché andava a letto molto prima delle undici e mezzo, le aveva lasciato un lungo messaggio in cui spiegava cosa stava succedendo e prometteva di telefonarle dagli Stati Uniti; gli altri messaggi, troppo noiosi da elencare persino avendo la noia come obiettivo, le avevano preso un sacco di tempo. Poi c’erano le istruzioni da lasciare al portinaio e alla donna delle pulizie portoghese, e infine le valigie da preparare.
Decise di portare con sé tutte e tre le stesure della commedia, e anche la sceneggiatura, in modo da avere sottomano eventuali scene alternative che avrebbero potuto chiederle di scrivere. Sarebbe stato un bel risparmio di tempo averle già disponibili, oltre che di fatica mentale, dato che poi finivano sempre per non usarle dopo averle viste in scena.
Ma non era a questo che voleva pensare. Katya, piuttosto, era lei che le occupava la mente. Tormentarsi inutilmente e ossessivamente per la figlia, risultando forse anche fastidiosa, era il modo in cui spendeva gran parte del suo tempo. L’aveva avuta a ventitré anni, all’epoca in cui era sposata con Stach e tutti la conoscevano come Mrs Varensky. Era accaduto dopo che si era accorta che Stach beveva troppo, e prima che scoprisse che andava a letto con altre donne, molte donne. Dopo la tremenda battaglia e l’atterraggio di fortuna con lo Spitfire, le ferite alla colonna vertebrale gli avevano lasciato un dolore cronico che a volte diventava atroce e che l’alcol attenuava almeno un po’. Questo è quanto aveva raccontato a se stessa. L’alcol, se non risolveva il problema del dolore, gli alleviava tuttavia il senso di colpa verso la moglie, alla quale era costantemente infedele. «Non ti lascio», ripeteva, come se essere lasciata fosse l’unica cosa da temere davvero. «Ci sarò sempre per la mia famiglia», le aveva detto, guardandola con gli occhi verde chiaro colmi di un’autoironia scoppiettante. Quella volta aveva pianto e Stach le aveva asciugato le guance con due dita. Poi se le era leccate e le sue narici avevano avuto un fremito lieve di disgusto. «Il sapore del Mar Morto», aveva commentato. Era riuscito a trovare una nuova amante proprio quando lei era riuscita ad accettare la precedente.
La nascita di Katya lo aveva reso felice. Il nome era quello di sua madre, fucilata dai russi per aver dato rifugio a un ebreo poche settimane prima dell’armistizio. Quando la bimba piangeva, Stach la prendeva in braccio e faceva avanti e indietro cullandola con discorsi in polacco, meravigliandosi di somiglianze che Daisy non poteva cogliere, e presagendo un futuro fiabesco per la figlia, colmo di salute, ricchezza e felicità. «Ha gli occhi di mia sorella!». Sua sorella era stata violentata da cinque soldati russi ed era morta anni dopo in un manicomio. Persino adesso, quando pensava alla famiglia di Stach – ovvero al fatto che non ce l’avesse più, perché in un modo o nell’altro erano morti tutti quanti – sentiva uno slancio di affetto e di desiderio di proteggerlo. I polacchi erano stati traditi a Yalta, l’eroismo e tutti i sacrifici che avevano fatto non erano stati ricompensati, e Daisy sentiva il dovere di sdebitarsi con lui per quell’ingiustizia. Katya era l’unico familiare che avesse, e durante le prime settimane dopo il parto Daisy aveva creduto che alla fine l’amore avrebbe sistemato tutto. Con il passare del tempo, però, aveva capito che il suo amore non ci sarebbe riuscito, mentre quello di Stach – se lo provava, al di là della mera attrazione fisica – non sarebbe mai stato abbastanza affidabile. A peggiorare le cose c’era il fatto che le entrate del marito erano irregolari, e i soldi tendevano a volatilizzarsi prima di arrivare a lei. Quando se ne rese conto cominciò a cercarsi un lavoro da fare a casa, e lo trovò. Leggeva commedie per una nuova compagnia nata da poco, e quando Katya fu abbastanza grande da andare all’asilo cominciò a fare le pulizie in casa di un regista sposato con una francese. La sera, quando Stach era fuori, scriveva. Scrisse un romanzo su una ragazza che sposava uno straniero e aveva un bambino, ma non trovò nessuno che lo pubblicasse. Un editore le concesse un appuntamento e lei ci andò trepidante e speranzosa. Attese in una specie di corridoio occupato dalle apparecchiature del centralino e dal relativo operatore, poi arrivò un signore dall’aria affaticata che la condusse in un bugigattolo poco più grande di un armadio, con due sedie e un tavolino ingombro di dattiloscritti impilati in equilibrio precario. Si sedettero e lui le offrì una sigaretta. Andò dritto al punto.
«È il suo primo romanzo?».
«Sì».
«Be’, come inizio è abbastanza buono». Si schiarì la voce. «Come diceva nella lettera, vorrebbe un parere, giusto?».
«Sì, è così».
«Dunque. Ha un ottimo orecchio per i dialoghi. Davvero eccellente».
Ci fu una lunga pausa.
«Ma niente di più?», disse lei.
«Non mi esprimerei così. La cosa riguarda piuttosto... Ecco, prendiamo il marito della protagonista, per esempio. È un po’ la caricatura di uno straniero. Cioè, solo perché è polacco non significa che debba ubriacarsi e cantare per strada ed essere un donnaiolo impenitente. La protagonista non starebbe con lui, se fosse così squallido, non crede?».
Daisy alzò le spalle rassegnata. «No, forse no», convenne. Rientrando a casa in autobus, pensò che in effetti, se fosse stata l’eroina di un romanzo, lei lo avrebbe lasciato. L’abisso tra arte e vita era un dilemma irrisolvibile. Il punto non era tanto delineare un ritratto il più possibile somigliante allo Stach reale (che era un personaggio già di suo), ma renderlo credibile. L’incontro con Mr Milnethorpe le suscitò altre riflessioni. Perché continuava a stare insieme a Stach se, come diceva l’editore, era così squallido? Cercò di evitare la domanda, ma quella si ripresentava nei momenti più strani e inattesi costringendola ad ammettere alcune realtà sgradevoli: non stava con lui perché lo amava; non stava con lui per Katya; non era per i soldi, né perché lo trovava divertente, e men che meno per evitare che la sua famiglia le dicesse “ecco, te l’avevamo detto”. Sposarsi con Stach le aveva portato l’isolamento sociale, le responsabilità domestiche e la mancanza di libertà che spesso sono associate al matrimonio, senza però garantirle in cambio un’intimità costante nel tempo, la compagnia e ovviamente una vita sessuale regolare. Nulla di tutto ciò.
Dopo vari tentativi con impieghi di un certo prestigio (dopotutto era un eroe di guerra), negli ultimi due anni Stach si era messo a guidare automobili a noleggio o taxi per diverse società. Ogni tanto faceva un passo falso – esagerava con l’alcol a ridosso degli orari di lavoro – e lo licenziavano, ma di solito si imponeva una disciplina ferrea, che aveva imparato quando era un pilota. Non si beve quando ci si mette alla cloche, e si compensa in altri momenti. Stare seduto al volante gli causava un gran mal di schiena, e quello era uno dei motivi per cui abbandonava il lavoro. Ciò non significava che fosse più presente in famiglia, anzi, erano i momenti in cui più si dava da fare con le amanti.
Distesa al buio ricordò la prima volta che aveva contemplato l’idea di lasciarlo. Dopo la rilettura del romanzo capì che non ne avrebbe fatto niente, che avrebbe potuto buttarlo nel cestino e dedicarsi a qualcos’altro. Fu quello il momento. Qualcosa di completamente diverso... sulle prime scartò l’idea, ma poi non riuscì più a liberarsene. Si tormentò al pensiero della disperazione e dello smarrimento di Stach. Non era nemmeno capace di attaccarsi un bottone o di cuocere un uovo nonostante quasi dodici anni di convivenza con una persona che faceva spesso entrambe le cose... Le veniva da ridere di se stessa. Davvero. Ma la fine, quando arrivò, fu repentina e indolore. Una sera Stach annunciò che sarebbe stato via per un paio di settimane; lei gli disse di non tornare. La fissò in silenzio, poi disse: «Come preferisci, naturalmente». Poi, mentre riempiva la valigia con le camicie che lei aveva stirato, osservò: «Capisco che sei gelosa e non ti biasimo. Però sai bene che le mie storie non durano a lungo. Cambierò, vedrai, e tutto sarà anche meglio di prima».
Da quel discorso Daisy capì che lui non credeva che facesse sul serio. Era stato a luglio. Aveva ritirato Katya dalla scuola con una settimana d’anticipo ed erano andate dalla zia, a Brighton. Da lì aveva spedito una lettera a casa in cui ribadiva la decisione di lasciarlo. Non gli avrebbe impedito di vedere Katya. Sarebbe tornata nel loro appartamento solo per prendere il resto dei vestiti suoi e della figlia, e da quel momento in poi sarebbe toccato a lui gestire la casa. La zia faceva l’antiquaria e viveva in un’elegante dimora regency arredata in modo squisito. Non espresse alcuna opinione riguardo alle decisioni della nipote.
Poi Stach si rifece vivo. Basta sciocchezze, disse. Era tornato per riportarle a casa. Accadde in un tardo pomeriggio d’agosto, quasi al termine di una giornata afosa che minacciava di concludersi con un temporale, e Daisy e zia Jess, dopo aver lavato l’insalata e tolto il secco dalle petunie, si stavano per sedere in giardino con un bicchiere di vino bianco. Suonò il campanello.
«Sarà Katya che ha dimenticato la chiave un’altra volta. Tranquilla, Daisy, vado io». Jess adorava Katya e pensava che la nipote fosse troppo severa con lei. Dall’altra parte della casa giunse una voce maschile, quella di Stach. Un attimo dopo lo sentì dichiarare i suoi intenti.
Non rispose subito all’appello. La zia disse: «Ti è passato per la mente che forse lei non vuole tornare con te?».
«Mi passano parecchie cose per la mente, ma non sempre ci faccio caso».
Daisy si rese conto che aveva bevuto. Non molto, quello che bastava per affrontare la situazione con spavalderia.
«Non tornerò. Te l’ho scritto perché è quello che voglio».
La fissò per un istante. «E che ne sarà di mia figlia?», disse con fare istrionico. «Cosa ne sarà della mia piccolina? Non puoi essere così crudele da portarmela via».
«Non voglio impedirti di vederla, ma starà con me».
«Voglio vederla. Voglio chiederglielo direttamente».
«Stach, lascia stare. Non puoi turbarla con idee come questa sapendo che non sei in grado di prenderti cura di lei».
Stava facendosi risucchiare nel buco nero di conflitti interiori e comportamenti irrazionali che ben conosceva.
Ricordò quanta riconoscenza aveva provato verso zia Jess, che era sempre pronta a sostenerla. Non lo faceva perché condividesse sempre le mie ragioni, ma perché mi voleva bene, pensò. Quante volte, dopo che la zia era morta, aveva cercato di spiegare agli altri l’importanza di quell’affetto, per scoprire invece che il lutto è davvero un sentimento solitario, se cerchi di raccontare una persona a chi non l’ha conosciuta. Tentare di parlarne con degli estranei rendeva ancora più acuta la mancanza.
Il dolore non se ne sarebbe mai andato, pensò, rigirandosi su un fianco. Da qualche parte aveva letto – o forse glielo avevano detto – che il dolore diminuiva con il passare del tempo, ma a lei non era andata così. Il senso di perdita era rimasto intatto e pungente come vent’anni prima. Con la morte di Jess era scomparso l’ultimo affetto familiare, l’ultima casa dove era stata bambina e dove, per certi versi, avrebbe potuto esserlo ancora. Di colpo si era trovata in prima linea con Katya, loro due da sole. I suoi genitori erano morti in un incidente d’auto quando non aveva neanche tre anni, per cui non ne aveva alcun ricordo. Era stata Jess Langrish, la sorella di suo padre, a crescerla. Decise di alzarsi e andò a prepararsi un tè. Alla sua età non era importante se si dormiva molto o poco.
Adesso aveva quasi gli stessi anni di Jess quando era morta di cancro: sessantaquattro. Ne aveva sessanta, era una nonna. Katya aveva sposato un dottore, viveva nella West Country e guadagnava un sacco di soldi (perlomeno a Daisy sembravano tantissimi). Ora sì che sarebbe stata in grado di mantenere la casa che la zia le aveva lasciato, anche arredata di tutto punto, ma all’epoca Katya si era appena iscritta all’università e c’erano dei debiti da pagare, oltre al fatto che Daisy non aveva lavorato quasi per un anno per stare il più possibile con Jess e prendersi cura di lei durante la malattia. Sul momento si era detta che forse era meglio disfarsi della casa, perché conteneva così tanti ricordi di Jess e della loro vita insieme che sarebbe stato troppo doloroso abitarci senza di lei. Conservò alcuni mobili, foto, porcellane e oggetti, e quando Katya si sposò, gliene regalò alcuni.
Aveva fatto il tè, si era fumata una sigaretta e adesso l’orologio segnava le tre passate. Perché l’insonnia andava sempre a braccetto con il dolore, la paura e il lutto? Perché non si poteva stare distesi sul letto a godersi i ricordi gradevoli, se non proprio gioiosi, del passato? La risposta o le risposte a quelle domande non erano rassicuranti né lusinghieri. La sua vita sembrava fatta di difficoltà più che di agi; di dolore più che di piacere, e se da un lato le perdite erano permanenti – non avrebbe mai rivoluto nella sua vita Jason e Stach, e la perdita di Jess era irrimediabile – i vantaggi erano sempre transitori. Tuttavia cominciava a capire che la sensazione di essere stata truffata dalla vita si accompagnava a una specie di avidità che chiedeva alle cose belle di persistere prima di essere apprezzate. I suoi unici bei ricordi coincidevano con i momenti vissuti per intero nel presente, che potevano durare indefinitamente se uno vi si calava in modo totale.
Tornò a letto. Da bambina, ogni volta che si svegliava da un incubo correva a rifugiarsi nel letto di Jess, tra le sue braccia ossute ma meravigliosamente confortanti. Ricordò la sua voce colma di affetto quando le chiedeva di raccontare l’incubo finché, a forza di parlarne, non diventava minuscolo e insignificante. «Ti va qualcosa di caldo, amore?», diceva. Lei rispondeva di sì, e mentre la zia era in cucina se ne stava beata sotto le coperte a scaldarsi con il suono di quelle parole: «Amore, Daisy, tesorino mio, la mia coraggiosa bambina, ti voglio bene, va tutto bene, non preoccuparti, il serpente marino non riuscirà a entrare e se ne andrà lontano, te lo prometto». E poi i baci, gli abbracci e le carezze. «Senti che piedini ghiacciati! Soffiati il naso, amore della zia, così va meglio. Torno subito, tu stai al calduccio e pensa a cosa vorresti fare il giorno del tuo compleanno». Avrebbe compiuto sette anni. Era felice. Ovviamente c’erano stati altri momenti di felicità, soprattutto la prima settimana a Brighton, quando la zia si era trasferita. Daisy aveva undici anni. «A Brighton ci sono ottime scuole per te, amore, ed è un mercato fantastico per l’antiquariato». E poi c’era il mare! L’idea di abitare vicino al mare le era sembrata di un lusso estremo. Avevano traslocato all’inizio delle vacanze di Pasqua. Entro mezzogiorno i traslocatori avevano depositato l’ultimo scatolone, bevuto il tè preparato dalla zia, si erano messi in tasca le mance e avevano salutato. Zia e nipote si erano ritrovate da sole tra pile di casse e cassette, in una cucina dal pavimento di linoleum a scacchi bianchi e neri cosparso di impronte fangose (aveva piovuto) e ingombro della carta di giornale che era servita per imballare le tazze da tè.
«E ora che si fa?».
Ricordava nitidamente come zia Jess aveva aperto la bocca per rispondere e l’aveva subito richiusa. Si erano guardate negli occhi e la sua espressione era cambiata. «Prima di fare qualsiasi cosa, credo che dovremmo andare a vedere il mare, che ne dici, sei d’accordo?». Certo che era d’accordo! Voleva vederlo tutti i giorni per sfruttare al massimo la grandissima fortuna che le era capitata. Aveva smesso di piovere, e le strade scintillavano lucenti al sole. Arrivarono in fondo alla strada e svoltarono a destra in una via più larga in ripida discesa fino al mare, verde grigio e torbido. Giunte sul lungomare, avevano sceso le scalette per la spiaggia.
«Entriamo in acqua?».
«Fa troppo freddo, amore, ma se proprio ti va puoi fare qualche bracciata. Io mi siedo qui». Si era seduta con la schiena contro il frangiflutti, coprendosi le ginocchia con l’orlo della gonna di tweed.
Il mare era molto freddo, e le ossa le si gelarono all’istante. Non riuscì ad allontanarsi da riva, perché l’acqua diventava subito profonda e le onde la sballottavano. L’acqua aveva un profumo buonissimo, non avrebbe saputo dire se fosse per i pesci, la salsedine o le alghe o per tutte e tre le cose insieme. All’improvviso sparì il sole, il mare si fece scuro e ricominciò a piovere. Tornò subito dalla zia, infilò le scarpe ai piedi bagnati senza calze e salirono la scaletta di corsa. In cima alla salita, sulla sinistra, c’era l’arcobaleno. «Indica casa nostra», disse la zia, e lei sentì un fiotto di felicità, una gioia incredibile, come se Dio avesse detto: “Che bello, siete venute ad abitare proprio qui”. Guardarono l’arcobaleno finché non si fu dissolto e si trovarono a pochi passi da casa. Per pranzo, la zia prese pesce e patatine fritte alla rosticceria. Negli anni successivi, da adulta, le era capitato di ordinare fish and chips solo per ricordare quella giornata gioiosa.
Insomma, di momenti felici ne aveva avuti, eppure man mano che invecchiava era come se essi si legassero tanto più strettamente a quelli infelici. Adesso, per esempio, non riusciva più a ricordare i primi tempi della relazione con Jason senza provare dolore, perché ogni volta che pensava a lui, alla prima volta che l’aveva visto a un aperitivo sulla barca di un conoscente a Chelsea, le tornava in mente l’ultima sera, quando lo aveva invitato a bere qualcosa e lui le aveva detto che se ne andava, e quel ricordo risucchiava tutti gli altri come un buco nero.
Si erano sposati tre mesi dopo essersi conosciuti, in barba alla prudenza, ai consigli degli amici e – nel suo caso – ad almeno due fievoli avvertimenti inviati dal suo buonsenso. Aveva quarantacinque anni, lui era di sette anni più giovane, ma ne dimostrava ancora meno, forse per la somiglianza con Rupert Brooke, che gli dava un’aria di eroismo senza tempo. Si erano sposati all’anagrafe, e l’agente di Jason aveva organizzato per loro un pranzo da Prunier, con pochi invitati. Katya, silenziosa, seria, le aveva fatto da testimone. Al pranzo però non voleva partecipare; aveva cambiato idea soltanto dopo che Daisy le aveva detto: «Non venire, se proprio non vuoi, ma sappi che mi mancherai moltissimo». La sua ostilità nei confronti di Jason persisteva nonostante lui cercasse di andarle incontro. Non aveva quasi più contatti con il padre, perciò – pensò Daisy – non era per lealtà nei suoi confronti che si opponeva a quel matrimonio. Non vedeva Stach quasi mai e ne parlava come di una sorta di avamposto emotivo che non aveva il tempo né la voglia di raggiungere e attraversare. Non aveva mai sopportato Jason, e lui, avendo intuito sin da subito che Katya era immune al suo fascino, non lo aveva certo sprecato con lei. Al momento del matrimonio Katya aveva ventidue anni. L’evento aveva favorito il suo allontanamento da casa e dalla madre, ed erano rimaste dolorosamente distanti fino al giorno in cui, di punto in bianco, si era sposata con Edwin.
La partenza di Katya coincise con un importante salto di qualità nella carriera di Jason. Passò dallo status di attore di successo a quello di star. Recitò la parte di Pip adulto in un adattamento televisivo di Grandi speranze, e alla sesta puntata, ovvero dopo sei settimane, le persone lo riconoscevano per strada. Interviste, servizi fotografici, inviti ai talk show... fu un profluvio di offerte tra l’orribile e il bizzarro. Jason era inebriato dal successo, di cui la rendeva puntualmente partecipe. In realtà la sceneggiatura era di Daisy, ed era stata lei a fare il suo nome a quelli del casting che erano alla ricerca di una faccia nuova che interpretasse Pip, ma a parte questo non si era data particolarmente da fare perché lui avesse la parte. In seguito Jason aveva detto a più riprese che doveva ringraziare lei per il successo ottenuto, e inizialmente Daisy si era offesa perché disapprovava il nepotismo in tutte le sue forme. Ma Jason era riuscito a calmarla a suon di battute. «Il fatto è, mia cara, che se fossi stato una schiappa non mi avrebbero mai dato la parte. Perciò i favoritismi non c’entrano niente. Mi hai soltanto permesso di cogliere l’opportunità». Arrivarono altre offerte di lavoro – non grazie a lei – ed entrambi, di comune accordo, decisero che non era il caso di accettare, ma verso la fine dell’inverno Jason era sempre più irrequieto e ansioso.
«Forse non mi arriveranno più offerte decenti. Forse nell’attesa dovrei accettare uno di questi lavori orrendi».
«Non ci manca certo da mangiare», aveva obiettato Daisy. «E comunque, ti rendi conto di che idea assurda è mettere in scena Re Lear con un trentenne in preda all’Alzheimer? E le figlie? Che ne è delle figlie?».
«Sarebbero state le sue sorelle».
«Sì, ma perché?».
«Hai ragione. Perché?».
«Non hai passato anni a maneggiare lance in produzioni shakespeariane rispettabili per ridurti ad accettare questo tipo di proposte».
«E non sono neppure stato il miglior amico dei protagonisti. Hai mai notato quanto sono noiosi i migliori amici di Shakespeare? Deve essere cominciata con Celia in Come vi piace e di lì a Orazio il passo è stato breve».
«Orazio non è male, dai».
Erano a letto, di domenica mattina.
«In ogni caso tu non hai mai interpretato Celia», disse Daisy spostandosi per appoggiare la testa nell’incavo della sua ascella. Poco prima avevano fatto l’amore; ora sentiva una dolce spossatezza che le rallentava piacevolmente i movimenti.
«Invece sì, quando andavo a scuola. Alla recita annuale mi assegnavano sempre i ruoli femminili, perché ero biondo, credo. Avevano una concezione dickensiana delle eroine».
«Tu invece», le disse poco dopo, «non saresti andata per niente bene. I tuoi capelli sono del colore sbagliato, e poi sembrano un nido d’uccello. Che ne dici, preparo una cioccolata calda?».
«Sì, per favore».
Felicità, conforto, gioia: ripensandoci adesso doveva riconoscere che l’idillio era durato quasi due anni. Non era stato così passeggero come le era sembrato in seguito. Durante quell’anno e gran parte del successivo era stata così felice insieme a lui che tutto il resto le era sembrato privo di importanza.
Amava il suo temperamento equilibrato e fiducioso, la sua bellezza fisica, il suo senso dell’umorismo, come sapeva imitare persone e animali, la sua buffa mimica e quel modo spontaneo di esprimersi. Aveva una voce affascinante, lieve, melodiosa, una vera passione per il cioccolato in tutte le sue forme, per i giochi... adorava gareggiare e vincere sempre. In presenza degli altri la trattava con tenerezza e cortesia; quando erano da soli la punzecchiava, le faceva il verso, poi smetteva improvvisamente di prenderla in giro e le dichiarava il suo amore. «Perché sai, bellissima creatura, io credo che tu sia stata creata apposta per me. Tu sei la perfetta realizzazione di ogni mio desiderio. Pensa se non fossi andata a quell’aperitivo sulla barca: non ti avrei mai incontrata. Sarebbe stato tragico, non trovi?». Poi scendeva nei dettagli di quella fantasia. «Pensa se mentre andavi lì avessi incontrato un tizio affascinante e l’avessi seguito nella sua tana mentre io mi sorbivo infiniti gin tonic tiepidi (ricordi che il ghiaccio finì quasi subito?). Avrei appreso dell’accaduto dai titoli dei giornali: “Affascinante commediografa rapita da bieco plutocrate”. Meno male che le foto non ti rendono giustizia, così non mi sarei mai reso conto di cosa mi fossi perso a non incontrarti». Ogni volta che Jason si abbandonava a quelle fantasie, anche lei immaginava come sarebbe stato se non lo avesse conosciuto e non se ne fosse innamorata. Si sarebbe buttata anima e corpo nel lavoro con la sola compagnia di Anna, la sua segretaria, cuoca, governante e contabile – proprio come faceva adesso. Avrebbe trovato conforto e talvolta rifugio negli amici, perché ci sono sempre persone che amano passare il tempo con qualcuno che ha maggiori possibilità di essere disponibile perché è single. Si sarebbe concessa tanti piccoli piaceri: massaggi – l’unico contatto fisico possibile –, abiti costosi come la giacchetta con i papaveri ricamati, una serata all’opera, una gardenia, un profumo di qualità. Una volta, in inverno, aveva prenotato un fine settimana a Venezia da sola, ma nonostante l’impegno che aveva profuso (o creduto di profondere) per divertirsi, non ci era riuscita. La città era bellissima, faceva un freddo tremendo e aveva provato un tipo di solitudine del tutto nuovo. Si era chiesta, non senza una certa inquietudine, se questo era ciò che l’aspettava per il resto dei suoi giorni. Tornare a casa e trovarla vuota e silenziosa era stato un sollievo. C’erano le sue cose, la sua vita; era il suo mondo. Le sembrava un luogo di scelte e possibilità, dove riceveva lettere e telefonate dai suoi amici. Ma immaginare la vita senza Jason era una fantasia in cui poteva indulgere quando voleva, e solo per rendere ancora più evidente quanto fosse bella la vita con lui. Erano stati due anni di pura felicità. Poi, di colpo, arrivarono il contratto con la Paramount e Marietta. I due eventi le erano sembrati simultanei, ma in seguito aveva capito che la relazione con Marietta era precedente al contratto. Erano andati a una festa dopo una prima teatrale, e Daisy aveva intravisto tra gli invitati una donna minuta come uno scricciolo, in un abitino di velluto rosso scuro, che era entrata a braccetto di un signore barbuto e corpulento dall’aria vagamente familiare. L’aveva notata perché lei la fissava, e per un istante i loro sguardi si erano incrociati. Poi la sconosciuta aveva alzato una manina candida per accarezzare la barba del suo accompagnatore, ridendo con lui. Daisy si era voltata verso Jason.
«Chi è?».
«Di chi parli?».
«Quella ragazza, laggiù. Ci fissava».
«Davvero? Oh... è Marietta Reed, un’amica di Bernard. Non l’avevi vista al pranzo della regata velica?».
Quella risposta sviò la sua attenzione. «Quello sarebbe Bernard? Santo cielo, ma da quando si è fatto crescere la barba?».
«Dal Falstaff, perciò sono mesi, ormai. Non sei stata al pranzo?».
«Avevo un ascesso a un dente, ricordi? Ci sei andato senza di me. Sei stato via tantissimo, avevo una fame da lupi e niente da mangiare in casa».
Jason stava per risponderle, ma Bernard era già lì. «Che bello vederla, che bello rivedere entrambi». Era stato in tournée; la settimana successiva sarebbero andati in scena a Londra. Ah, la sua accompagnatrice era Marietta Reed, appena arrivata da un set in Irlanda. Ecco sbrigate le presentazioni. La sua barba pizzicava come aghi d’abete.
«Piacere», disse Marietta. Aveva un modo molto snob di pronunciare le vocali.
«Piacere mio», replicò Jason. «Ti presento Daisy, mia moglie».
«Ah certo. Ti avevo riconosciuta. La tua sceneggiatura di Grandi speranze è fantastica».
Tutto in lei era minuscolo tranne gli occhi, immensi e vellutati, del colore del cioccolato fondente.
Bernard aveva proposto di cenare insieme, e Jason aveva declinato l’invito. «Preferisco stare con te», aveva detto. Il genere di frase che ripeteva così di frequente che Daisy non ci faceva quasi più caso. Andarono al ristorante indiano del quartiere e parlarono di Hollywood. Inizialmente ci sarebbe andato per girare solo un film. La casa di produzione si riservava di rinnovargli il contratto. «Non dovrò trasferirmi definitivamente, giusto?», chiese. Si aspettava sempre che lei avesse una risposta pronta per quel genere di dilemmi.
«Non credo. A meno che non vogliano metterti sotto contratto per fare un film dopo l’altro. È possibile».
C’era stato un lungo silenzio. «Mi mancherai, tesoro. Mi mancherai tantissimo».
«Potrei venire a vivere lì».
«Oh, no, non credo che potresti. Prima dovrei ambientarmi, trovare i miei punti di riferimento».
Con il senno di poi si rese conto che quella sera era stata tutto un susseguirsi di minuscoli segnali di pericolo che non aveva notato.
«In fondo non starò via a lungo. E quando sarò via potrai metterti sotto a lavorare senza distrazioni».
Qualche ora dopo. «Sono una distrazione per te, vero?».
Erano a casa, a letto, nudi. Jason se ne stava appoggiato al gomito e le accarezzava la nuca con la mano libera.
«No, per niente».
«Ah, davvero?». Fece scivolare la mano dal collo fino al seno sinistro, e la reazione di Daisy fu immediata.
«Non avrò mica appiccato un incendio, senza volere?», disse Jason.
Daisy non riuscì a rispondere. Provava per lui un desiderio fisico doloroso di cui si vergognava. Con Stach non le era mai successo. Bastava che Jason la sfiorasse, e lei cominciava a tremare. Con il matrimonio la frequenza dei rapporti e la familiarità non avevano fatto altro che rafforzare la sua risposta istintiva, che adesso era istantanea. Quella sera il fatto che lui stesse per partire e che sarebbe stato irraggiungibile per mesi rendeva ancora più acuta l’eccitazione nervosa e più imperativo il bisogno di appagamento.
La sera prima della partenza andarono al Ritz. Jason aveva organizzato tutto con l’intento di farle una sorpresa, e la scelta si era dimostrata ottima. Una stanza bellissima, con rose gialle e champagne, pesche nettarine su un vassoio d’argento e il sole di un crepuscolo autunnale che filtrava dalle tende di mussola che li riparavano dagli sguardi indiscreti dei frequentatori del parco. La cornice perfetta per una prima notte di nozze, aveva pensato, anche se erano sposati da due anni e mezzo. Proprio mentre cominciava a percepire un che di artefatto, Jason aveva detto: «Ho cercato di dare alla scena un tocco di irrealtà, e credo di esserci riuscito, non trovi?».
Lo osservò mentre apriva lo champagne: il serico ricciolo biondo che gli sfiorava lo zigomo, la bellezza della sua mano e i movimenti delicati con cui allentava il fil di ferro ritorto della gabbietta per liberare il tappo... Lo champagne era aperto, lo versava nei calici, gliene tendeva uno. Era così bello, così perfetto e completo che lei si sentì travolgere da un senso di meraviglia di fronte all’esistenza di una persona tanto straordinaria. E lei lo conosceva, e lui l’amava! Le venne da piangere.
«Daisy! Tesoro!».
«Va bene, va tutto bene».
«So perché piangi».
Lo guardò negli occhi, grigi come un filo di fumo, colmi di tenerezza.
«Davvero lo sai?».
«Ascolta, se non dovesse trattarsi di sei settimane come hanno detto, e dovessi restare più a lungo, puoi sempre partire anche tu».
Non le chiese nemmeno se aveva indovinato perché piangeva.
Daisy alzò il calice. «Alla stella del cinema».
Bevvero un sorso, poi Jason ricambiò con un altro brindisi. «Alla mia stella».
Finirono lo champagne e andarono a cena. Nella sala del ristorante le sembrò che tutte le presenti non avessero occhi che per lui. Il loro sguardo scivolava su di lei per tornare invariabilmente su Jason, che sembrava inconsapevole della loro attenzione. Non era sempre stato così, ma immaginava che da allora in poi sarebbe accaduto più spesso.
Ordinò tutti i piatti che le piacevano e una bottiglia di bordeaux carissimo per accompagnare la pernice scozzese, dopo i blinis con la vodka. Bevvero molto più del solito, ma per qualche ragione la serata non decollò. Incombeva su di loro un senso di attesa, come quando si è in stazione ad aspettare il treno.
Tornarono in camera, e alla vista della camicia da notte stesa in modo artistico sulle coperte ben piegate, Daisy desiderò essere a casa, nel loro minuscolo appartamento buio e bruttino che pensavano di lasciare non appena avessero avuto abbastanza soldi. L’indomani sera sarebbe stata in quell’appartamento, da sola. Forse non avrebbero più dormito insieme in quella casa, perché erano già d’accordo che lei avrebbe cercato un altro appartamento mentre Jason era in America. Daisy ci abitava già prima di conoscerlo, ma ormai sentiva che era di entrambi e non sopportava di pensare a quello spazio senza di lui. L’idea di tornarci da sola le faceva paura, ma adesso lui era lì e l’abbracciava, le chiedeva cosa c’era, sì, lo sapeva che qualcosa la turbava, lei poteva dirgli tutto, se l’amava.
«Certo che ti amo. Non so, ho soltanto paura che tu te ne vada. Non so perché ma mi sembra più brutto di quello che è».
«Sei settimane», ribadì lui. Lo ripeteva spesso, senza più ombra di dubbio, sarebbe stato per sei settimane. La calmò e la consolò, fecero l’amore e lui si addormentò. Daisy invece rimase sveglia a lungo, impegnata a non affogare nel mare in tempesta dei presentimenti vaghi, ignoti ma pressanti.
In seguito si chiese spesso quali fossero stati i sentimenti di Jason quella sera. A volte pensava che avesse cercato di lenire il proprio senso di colpa spendendo fino all’ultimo penny per lei; altre immaginava che fosse stato davvero in conflitto con se stesso, o che andare negli Stati Uniti fosse stato un modo per sfuggire alla tentazione rappresentata da Marietta. (Quest’ultima ipotesi non durò a lungo, perché scoprì abbastanza presto che anche Marietta era andata a Hollywood). Lì per lì Daisy aveva pensato che la separazione fosse difficile da sopportare per entrambi, ma un po’ meno per lui perché andava alla scoperta di un mondo nuovo.
La chiamò al suo arrivo, la sera del primo giorno di riprese.
«Abbiamo fatto dei provini, mi hanno tagliato i capelli e ho rilasciato qualche intervista per la televisione e la stampa di settore. Ah, giusto, mi hanno portato a cena in un ristorante cinese fantastico. Adesso però crollo dal sonno. Ho due giorni di vacanza, ma credo che potrei dormire per una settimana». Le chiese come stava. «Hai portato Sykes dal veterinario?».
«Sì. Ha un ascesso per via di quell’orrendo gatto rosso che lo aggredisce».
«È un po’ un debole, no?».
«Da quando in qua non aggredire gli altri ti rende un debole?».
«Guai a chi te lo tocca, vedo... Lo so che gli vuoi bene. Scommetto che non appena ho girato le spalle l’hai fatto venire a letto con te».
«Era già lì. Non me la sono sentita...».
«Certo. Nella tua situazione avrei fatto lo stesso».
«Vale solo per i gatti, però», gli ricordò.
«Il problema è che secondo me l’hotel non protesterebbe se portassi in camera una ragazza, ma sarebbero inflessibili se cercassi di far entrare un gatto».
La chiacchierata andò avanti finché non sentì che lui sbadigliava. Gli disse di andare a dormire e si scambiarono parole affettuose.
In seguito la chiamò a giorni alterni, quando per lui era sera e per lei mattina e la trovava che beveva il tè cinese a letto. Lavorava la mattina, e il pomeriggio cercava casa. Era un periodo né bello né brutto, una sorta di limbo. Aveva terminato la prima stesura di un nuovo lavoro, una versione contemporanea del dramma di Orfeo ed Euridice, scritta pensando a Jason nel ruolo del protagonista.
Le settimane passavano lente. Dapprincipio non si accorse che la chiamava sempre più di rado. Se ne rese conto quando le parve di aver trovato finalmente l’appartamento giusto per loro e aspettò per due giorni che la contattasse. Si decise a chiamarlo lei, ma non lo trovò; strano, perché da lui erano le sei di mattina. Siccome doveva dare una risposta al proprietario altrimenti rischiava che l’occasione le sfuggisse, chiamò sul set e lasciò un messaggio. La mattina successiva, in assenza di risposta, richiamò l’hotel. Domandò se Jason fosse in camera. Non c’era. Decise di prendere l’appartamento, ma scoprì che un’altra persona aveva offerto di più. Avrebbe potuto rilanciare o abbandonare; scelse di rinunciarci. La mattina dopo Jason la chiamò, e lei scoprì di essere arrabbiata. «Mi hanno detto che mi hai cercato», disse lui cauto. Freddo, scostante, sulla difensiva. «Potevi decidere anche senza di me, è solo un appartamento, no?».
«La prossima volta farò da sola».
«Brava!».
Silenzio. «Insomma, come va?».
«Benino. Siamo in ritardo sulla tabella di marcia».
«Di tanto?».
«Non saprei».
Silenzio. Quei silenzi le facevano paura. «Mi manchi. E se venissi lì anch’io?».
«Meglio di no. Faccio orari massacranti e la sera sono distrutto. Non preoccuparti per me, tesoro. Continua a...». Cadde la linea. Lasciò passare un minuto e richiamò. Lui non c’era. Forse aveva chiamato dal set, pensò, mentre aspettava che si facesse vivo lui. Non lo fece. Trascorse il resto della giornata – e della settimana – svuotando credenze e armadi per essere pronta al trasloco. Infine, nel bel mezzo di un pomeriggio cupo, il telefono squillò ma non era Jason, bensì la sua agente, Anna Blackstone.
«Mi chiedevo come sta andando».
«Ho finito la prima stesura».
«Bene. Vuoi che gli dia un’occhiata?».
«In realtà te l’ho spedito stamani».
«Perfetto».
«È solo la prima stesura».
«Perché non ceniamo insieme nel fine settimana? Per allora avrò finito di leggerlo».
«Ottimo. Dove andiamo?».
«Vieni da me. È più tranquillo». Rimase in silenzio per qualche secondo, poi aggiunse: «A meno che tu non voglia vedermi prima».
«Sabato va bene».
Certo che le andava bene. Per tutto il resto della settimana, oltre a preoccuparsi del fatto che Jason non la chiamasse, aspettò con impazienza la serata con Anna. Da troppo tempo non si incontravano da sole, e le era mancato. Era da prima del matrimonio che non si vedevano, a parte qualche raro pranzo in ristoranti dove sembrava che Anna conoscesse tutti. E quando erano in presenza di altre persone o di Jason – anzi, soprattutto di lui – non era certo lo stesso.
Una delle cose che adorava di lei, pensò mentre si concedeva un bagno caldo al termine di una giornata di sgombero e pulizie, era la sua immutabilità. Portava lo stesso taglio di capelli – grigio acciaio, corti, con una frangia decisa – da quando la conosceva, e non indossava altro che pantaloni e dolcevita neri di cotone, che d’estate sostituiva con camicie bianche senza colletto. Di età indefinibile, né grassa né magra, aveva una voce roca che molti trovavano seducente, ma nessuno l’aveva mai vista in compagnia di un partner. Aveva una faccia comune, banale, ma l’espressione degli occhi non lasciava dubbi sul fatto che in lei non c’era proprio niente di comune e banale. Era una brillante negoziatrice e – aspetto ancora più importante per Daisy – un’ottima critica, a suo agio anche con lavori incompleti. Il suo appartamento era e sarebbe stato lo stesso di sempre, una delle poche certezze su cui Daisy poteva contare.
Abitava all’ultimo piano di un edificio in Bedford Square. L’appartamento era composto di tre stanze, un cucinino e un bagno che dava sul pianerottolo a metà delle scale. Non aveva riscaldamento, soltanto due vecchissime stufe a gas, così gli spifferi che si insinuavano dalle finestre, peraltro splendide, ti colpivano dritto in viso come uno schiaffo. Pile di libri in verticale e in orizzontale stavano in equilibrio precario su librerie dozzinali, dipinte di un bianco ormai sporco, che a volte cedevano: allora i volumi venivano impilati sul pavimento e lì rimanevano. Sopra la mensola del camino era appeso un grande specchio rettangolare, così ossidato che quando ti ci guardavi – aveva detto Anna una volta – vedevi un personaggio dei racconti di Le Fanu. Daisy ripensò a tutto questo mentre saliva l’elegante scalone fino all’ultimo piano. Il resto del palazzo, occupato da uffici, era sempre buio e silenzioso di notte.
Anna la aspettava sulla soglia, sorridente e con un bicchiere in mano.
«È per me?».
«Provalo. Se ti piace te ne preparo un altro».
Bevve un sorso: era di un colore straordinario.
«Campari e Cinzano rosso?».
«E gin. È un Negroni. Da qualche tempo non bevo altro».
«Preferisco un bicchiere di vino. No, anzi, fammi un Negroni».
«Apprezzo la velocità con la quale cambi idea. Entra. L’odore che senti è stufato. Sono convinta che se sappiamo cosa c’è in pentola diventa più facile accettare gli odori».
Daisy si lasciò cadere su uno sgabello davanti al camino, piena di gratitudine. Anna le passò il bicchiere ed entrambe accesero una sigaretta: Daisy sentì addosso il suo sguardo acuto e critico, perciò si affrettò a parlare per prima. «Come va la vita nel mondo letterario?».
«Siamo sottopagati, si fa poco sesso e ci stiamo continuamente tra i piedi».
«In che senso “tra i piedi”?».
«Voglio dire che se devi pranzare con qualcuno per discutere di cose confidenziali e scegli un posto che ti sembra tranquillo, alla fine ti ritrovi con almeno altri tre gruppetti di persone che hanno avuto esattamente la stessa idea».
«E quindi tutti sentono tutti».
«No... ma ogni tanto si coglie qualche discorso, e gli altri sentono i tuoi. Non è una cosa cattiva, è soltanto una gran seccatura».
Sentì di nuovo che Anna la fissava, ma prima che riuscisse a sviarla per la seconda volta con una domanda, l’amica disse: «Preferisci mangiare subito e poi discutiamo del tuo nuovo lavoro?».
«Sì, preferisco».
«Allora mi limito a dire che affronti un tema interessante e difficile e che ti ammiro moltissimo per questo».
«Ma?».
«Non parliamo dei “ma”. Anzi, i “ma” non ci sono proprio. Voglio solo farti un paio di domande. Basta così. Avremo molte altre cose da dirci durante la cena».
Anna tornò in soggiorno con la cena sul vassoio. Apparecchiarono il tavolino tondo, poi Anna servì lo stufato mentre Daisy versava il vino.
«Sono un po’ preoccupata per Jason», le sfuggì.
«Ah sì? In che senso?».
«Be’, all’improvviso si è fatto sfuggente... quando lo chiamo non lo trovo mai, e lui non mi telefona più regolarmente come prima. Sono sei giorni che non lo sento». Guardò Anna sperando in una risposta ottimista e noncurante, ma lei rimase in silenzio.
«Diceva che sarebbe stato via solo sei settimane, e che poi sarebbe tornato per una breve vacanza, ma ormai sono passate ben più di sei settimane e non ha nemmeno accennato al viaggio di ritorno. Gli ho proposto di raggiungerlo...».
«E cosa ha detto?».
«Che è meglio di no. Dice che lavora come uno schiavo e che è troppo stanco, roba così. Non so cosa stia succedendo».
Ci fu un lungo silenzio imbarazzato, poi Anna le prese la mano e gliela strinse. «Devo dirti una cosa... abbastanza brutta. Detesto doverti dare questa notizia, ma non posso non dirtelo».
«Dirmi cosa? Di che si tratta?».
«Lo scorso fine settimana Jason era a Parigi».
«A Parigi? Davvero? E tu come fai a saperlo? E che significa?». Ma ormai aveva capito. Già mentre raccontava ad Anna delle loro ultime telefonate e poi di come si erano interrotte, aveva cominciato a capire: era chiaro che per Jason fosse finita, e il fatto che fosse stato visto a Parigi senza di lei non le provocò uno shock.
Lo disse ad Anna, che replicò: «Siamo abituati a pensare che lo shock coincida con la scoperta di qualcosa che non ci aspettavamo, mentre spesso coincide con il venire a galla di certe nostre paure profonde».
«Cos’altro devo sapere?», disse dopo qualche istante.
Anna le raccontò il resto. Jason e Marietta, la ragazza che aveva conosciuto alla festa, si erano già incontrati a un ricevimento precedente. «Lei crede che tu sappia tutto. Crede che Jason te ne abbia parlato. Ti dico questo perché ero sicura che non l’avesse fatto. E quella crede che lui la sposerà, capisci?».
«Immagino che andrà a finire così», disse Daisy con voce spenta.
Sapere di Marietta, invece, fu uno shock brutale, inaspettato. Nonostante ci pensasse senza sosta, non riuscì a individuare il momento in cui tra lei e Jason le cose avevano cominciato a non funzionare più. Non trovava indizi o segnali oltre al fatto che non voleva che lei lo raggiungesse a L.A. Adesso il suo comportamento di quella sera, prima della partenza, le appariva carico di significati nascosti: quando aveva declinato l’invito a cenare con Bernard e Marietta, il modo in cui le aveva detto che gli sarebbe mancata... Comunque la mettesse, sapere di Marietta era stato uno shock. Se era riuscita a credere di essere felice insieme a Jason mentre lui – non sempre, ma di sicuro per un certo periodo – stava con un’altra, come poteva pensare di capire qualcosa di quello che le succedeva intorno? Come avrebbe fatto a sentirsi abbastanza importante per qualcuno, da quel momento in poi?
Da quella sera, per Daisy cominciò il deserto. Anna si dimostrò una grande amica: la lasciò parlare, disperarsi, gridare di rabbia, lottare per comprendere e accettare. La ospitò per la notte, le diede un sonnifero, un bicchiere di whisky e una borsa d’acqua calda. Daisy s’impose di piangere in silenzio perché tra la stanza degli ospiti e la camera di Anna c’era una parete molto sottile, ma in realtà si addormentò non appena le si furono scaldati i piedi, tanto era esausta. L’indomani sarebbe stato una montagna da scalare.
Tornò a casa e trovò una lettera di Jason con il timbro postale di New York. «Cara Daisy, questa è la lettera più difficile che abbia mai dovuto scrivere». Cominciava così, e proseguiva descrivendo lo sforzo, a suo dire lacerante e vano, di non innamorarsi di Marietta, lo strazio di entrambi al pensiero di farle del male (Marietta era una donna di una tale sensibilità!) e infine la conclusione cui era giunto: doveva stare con lei. Seguiva una lunga descrizione dei sentimenti reciproci della nuova coppia, e infine una promessa di amicizia eterna.
Lesse la lettera quattro o cinque volte: nonostante la serata passata a parlare con Anna non si capacitava di quel che c’era scritto. Come si poteva, come aveva potuto lui, scrivere una lettera simile?
Con un contenuto così doloroso, pari solo alla volgarità con cui era espresso. Si aspettava davvero che lei lo compatisse perché gli era toccato scrivere una lettera così difficile? Non le aveva mai scritto lettere vere e proprie, solo messaggi occasionali, divertenti e teneri. Forse anche quelli gli erano risultati difficili da scrivere, pensò, battendo le palpebre per fermare le lacrime brucianti. Mentre leggeva e rileggeva quella sfilza di cliché maldestri si rese conto che non soltanto distruggevano il futuro ma stavano anche annullando il passato. Se attualmente Jason provava i sentimenti che diceva, allora aveva mentito su ciò che sentiva per lei durante i due anni della loro relazione (la parola “matrimonio” ora le appariva inappropriata)? No, Jason aveva voluto proprio lei perché, sconosciuto e senza il becco di un quattrino, il matrimonio gli era sembrato un buon affare. Adesso però voleva un’altra donna e non gli servivano né il suo denaro né il suo sostegno. Ma perché poi pensava che a Daisy interessassero le sfumature dei suoi sentimenti per Marietta? Rilesse la lettera alla ricerca di una ragione che spiegasse la fine del loro amore, ma non trovò nulla.
Tentò di venire a patti col fatto che Jason aveva sempre recitato una parte, vale a dire mentito spudoratamente: era un pensiero troppo penoso. Poi si sforzò di credere che un tempo l’aveva davvero amata, che certe parole e certi gesti erano stati sinceri, frutto di un amore autentico, e allora il dolore diventò insopportabile. Dovette trattenere i singhiozzi finché non ebbe la gola in fiamme.
Un mese dopo ricevette la chiamata dell’agente di Jason, che esordì dicendo quanto gli dispiaceva per tutta la faccenda. Gli diede ragione senza quasi accorgersene; sì, era davvero un peccato, disse. Jason voleva sapere se aveva ricevuto la lettera. Oh, sì, l’aveva ricevuta. L’aveva anche imparata a memoria, ma non lo disse. Ah, bene, perché Jason si era preoccupato un pochino per la mancanza di risposta. Daisy rimase in silenzio. Attese. Jason ci teneva a sapere che ne pensava del divorzio. Ovviamente, con il tempo si sarebbe arrivati al divorzio, ma lui ci teneva a muoversi con rapidità, per mettere tutto in ordine il prima possibile, una cosa così.
«Nella lettera non si parla di divorzio», disse Daisy. Cominciò a salirle una rabbia gelida per il fatto di dover discutere di tutto ciò con un estraneo (la rabbia gelida era una novità piuttosto piacevole). L’agente riprese il discorso. Sembrava non crederle, ma le faceva delle concessioni... Ma che strano, Jason aveva giurato che...
«Se vuole parlare di divorzio, che venga qui a farlo di persona. Glielo dica. Gli dica che non voglio altre lettere o persone che mi spieghino cosa vuole». Riattaccò.
Era stata una reazione perfettamente adeguata, ma ben presto scoprì che con quella mossa aveva generato uno stato di tensione nervosa insostenibile. Sarebbe tornato per un faccia a faccia? Era chiaro, da come si era comportato fino ad allora, che Jason non aveva il coraggio di affrontarla. Tuttavia alla fine lo avrebbe fatto perché aveva fretta di risposarsi o forse perché – ma certo! – ce l’aveva Marietta. Daisy era divisa fra sentimenti caotici e contrastanti: sapeva che per loro due non c’era un futuro; lo disprezzava per la sua codardia (tra le altre cose); lo amava come non aveva mai amato nessun altro.
Le sue giornate – superato lo scoglio dell’alzarsi dal letto – non erano poi così male: le riempiva di cose da fare. Decise di lasciare l’appartamento dove avevano vissuto e ricominciò a cercare casa, sforzandosi di dare la dovuta importanza a quella scelta. Impacchettò i vestiti di Jason e suoi effetti personali per spedirli all’agente. Notò con stupore che aveva lasciato pochissime tracce di sé: cinque o sei tascabili, qualche copione, la racchetta da squash, una macchina fotografica costosa e un album di fotografie riempito a metà: conteneva tutta la loro vita insieme. Se glielo avesse mandato con il resto della roba, Jason l’avrebbe sicuramente buttato. Ci pensò su e decise che non le interessava tenerlo, però non voleva che fosse distrutto. Anche se tutto sommato... Vista la situazione, perché no?
Stava inginocchiata sul pavimento perché tutti quegli oggetti si trovavano nel cassetto più in basso del comò. Si mise seduta con la schiena appoggiata alla sponda del letto per sfogliare l’album un’ultima volta. Aveva deciso di spedirlo con le altre cose o di distruggerlo lei stessa.
Le foto erano divise in parti uguali tra quelle che li ritraevano separatamente e quelle che amici o passanti avevano scattato a loro due insieme. Ce n’erano quattro per pagina, con didascalie scritte da lui. «AVIGNONE», «IL TRAGHETTO PER LE HAVRE», «KENSINGTON GARDENS», «SIENA» e così via. Scrutò il suo viso nel tentativo di vedere qualcosa che andasse oltre l’allegria vacanziera che esprimeva, oltre la bellezza sconvolgente dei tratti – tanto più tenera quanto ignara di sé – oltre l’affetto che sembrava irradiare per lei... Ma era un attore, si disse. Forse non aveva mai provato altro che attrazione sessuale per lei, e chissà, magari neppure quella; magari si era infatuato dell’amore che lei provava per lui: Daisy era stata un pubblico adorante. Il tradimento costituiva un problema nella misura in cui era tremendamente difficile sapere quando fosse iniziato. I bugiardi sottraggono valore alle parole, perché nel momento in cui sappiamo che hanno mentito su qualcosa, non è più possibile sapere se ci sia mai stata verità, e se c’è stata a che punto sia finita. Si rese conto di aver ricominciato a piangere. Piangeva e lo odiava. Che senso aveva conservare quel patetico album? E d’altra parte, perché lasciare a Jason il privilegio di distruggerlo? Era sicura che, una volta riavuta la macchina fotografica, avrebbe cominciato un nuovo album con Marietta. Pensò per un istante di romperla (era stato il primo regalo di compleanno che gli aveva fatto), ma scartò subito l’idea. La vendetta e la violenza non erano nella sua natura. Avvolse la macchina fotografica in un foglio di plastica a bolle e la mise nella cassa. Ripose l’album nel cassetto della biancheria intima, sotto alle camicie da notte. Solo per un po’, pensò, finché non mi trasferisco, finché non prendo una decisione...
Alla fine Jason tornò, ma senza preavviso. Chiamò una sera tardi e chiese se poteva andare da lei alle sei del pomeriggio successivo.
Da quando Anna le aveva raccontato di quella storia, non riusciva a dormire neppure con il sonnifero. Si svegliava di soprassalto alle tre, quattro di notte e rimaneva vigile e lucida in preda a un desiderio fortissimo di lui. Fissava il buio e le sembrava di vedere il suo viso, di sentire il tocco delle sue mani sui seni; mani che ricordava molto bene. E ripeteva le parole dolci che accompagnavano il suo nome. Poi, proprio nel momento in cui le sembrava di essere riuscita a evocarlo, lui svaniva lasciandola a fare i conti con la sua assenza, mentre le fiamme, travolte da un’ondata di realtà, si spegnevano con un sibilo. Fissava il buio, e non vedeva più nessuno. Ma la notte prima del suo arrivo, svegliandosi pensò che avrebbe visto Jason molto presto: di lì a undici ore e mezzo, mancava davvero poco. E cominciò a trastullarsi con un’idea malsana: che forse incontrandola di persona non avrebbe più voluto lasciarla... Perché no? Queste cose succedono; tanti mariti abbandonano l’amante per tornare dalla moglie, e non per i sensi di colpa! No, semplicemente riconoscono l’affetto più vero. Non è una cosa impossibile, solo poco probabile, pensò mentre combatteva contro la speranza.
Arrivò con quasi un quarto d’ora di ritardo e si scusò ripetutamente. «Mi scuso tantissimo... ho dovuto fare un sacco di telefonate, e c’era un traffico spaventoso». Sbatté una ventiquattrore nuova sul tavolo dell’ingresso e andò direttamente in cucina, lasciandola da sola in corridoio, in una scia di dopobarba agrumato molto diverso da quello che portava di solito.
«Non bevo più latte», disse mentre Daisy versava il caffè nella tazza. «Faccio una dieta povera di grassi». Era abbronzato, indossava abiti nuovi. Lanciava occhiate tutt’intorno, in quella casa che conosceva bene. Ancora non l’aveva guardata negli occhi.
«Allora. Volevi vedermi?», esordì.
«Mi sembrava che lo volessi tu». Daisy si accese la sigaretta con mano abbastanza ferma. Lui disse che aveva smesso di fumare. Con quei capelli decolorati e mesciati aveva un aspetto stranamente istrionico.
«Daisy, sai che mi dispiace davvero tanto per quello che è successo».
«Non direi!».
«Mi dispiace per te, intendo».
Era fin troppo facile – e inutile – metterlo in difficoltà. Si sentiva come Euridice, nel senso che lui non voleva guardarla, perché per il resto non c’era più speranza e non avrebbe fatto nessuna differenza se l’avesse guardata o no.
«...sono disposto a darti un anticipo, alcune migliaia di sterline, se può farti comodo».
Lo fissò in silenzio, così a lungo che lui dovette ricambiare lo sguardo.
«Scusami se non posso darti di più. Del resto l’appartamento è tuo».
Ce l’avevo già prima di conoscerti, pensò. Non diede voce ai pensieri che le giravano in testa perché non voleva essere trascinata in uno squallido battibecco riguardo al denaro.
«Non voglio soldi, grazie». Spense la sigaretta. «Nessun risarcimento, perché è questo che intendi. Immagino che tu sia qui perché vuoi il divorzio».
«Be’... sì, sarebbe...».
«Bene». Voleva toglierselo dai piedi il prima possibile. «Troverò un avvocato e gli chiederò di mettersi in contatto con il tuo agente».
«Sei un tesoro. Sono proprio...». Si era alzato. Daisy percepiva il sollievo che stava provando. Sarebbe tornato dall’altra e le avrebbe detto: “Oddio, quanto è stato imbarazzante! Grazie a Dio è finita”, o qualcosa di simile.
Era già davanti alla porta. La aprì. Un taxi di passaggio gli risparmiò il disagio di salutarla in modo formale. Come si chiude con la persona che ti ha appena concesso il divorzio? «Taxi!». Il veicolo si fermò. Con disinvoltura, Jason le lanciò un bacio e se ne andò. Daisy chiuse la porta mentre lui saliva in auto.
Scese il silenzio. Nel corridoio aleggiava ancora quel profumo agrumato, Daisy sentì le ginocchia che cedevano; crollò a terra. Avrebbe preferito dare di stomaco, svenire, qualunque cosa pur di non mettersi a piangere.
Ma le lacrime di quel giorno furono le più brucianti che avesse mai versato. I singhiozzi fortissimi la lasciarono fisicamente spossata. Pensò a Marianne Dashwood e alla sua sensibilità che aveva sempre trovato irritante. Se non altro riesco a ricordare un personaggio letterario, riesco a pensare un pochino...
Suonò il campanello. Era giorno di consegna del bucato. Poteva aprire la porta al fattorino oppure chiedergli di lasciare il pacco davanti alla porta.
Optò per la seconda soluzione. Ma fu Jason a risponderle.
«Mi spiace tantissimo, ma ho dimenticato la ventiquattrore».
Daisy si voltò a guardare il tavolo in corridoio e colse il riflesso del proprio viso nello specchio. Era chiazzato, gonfio, con il naso che colava, le palpebre tumefatte le ferivano gli occhi ogni volta che le sbatteva. Prese la valigetta di pelle lucida con le iniziali d’oro. Decise di aprire quel tanto che bastava per dargliela senza che lui la vedesse in viso.
Ma non andò così. Jason era appoggiato alla porta, e quando Daisy la aprì per poco non cadde sul pavimento. Prese la ventiquattrore e cominciò a scusarsi e a spiegarle la situazione. «Scusa, è che ci sono dentro due copioni che devo assolutamente restituire oggi... Ma, Daisy! Che succede... Oh, cara, guardati!». La abbracciò, la avvolse in una stretta tenera e preoccupata.
«Oh, per favore, vai!».
«Non posso lasciarti così».
«Sì che puoi. Forza, vai via!».
La strinse più forte. Poi, con una mano le scostò i capelli dalla fronte e chinò la testa per baciarla. Fu un bacio assai lungo, e le sembrò di ripercorrere al contrario tutta la loro storia, da quella fine dolorosa fino al paradiso degli inizi.
«Aspetta. Mando via il taxi».
Daisy tremava.