5
Henry
La sua risposta arrivò prima di quanto credessi. Era scritta su carta intestata dell’ospedale e indirizzata al cottage. Non la aprii subito, la posai sul tavolo della cucina e mi sedetti per guardarla. Non riuscivo a saziarmi della vista del mio nome sulla busta. Mentre fissavo la sua calligrafia sottile, mi sembrò di udire la sua voce e di vedere il suo volto pallido, i meravigliosi capelli vaporosi sulla fronte, uno di quei rari sorrisi che la trasformavano e scacciavano dai suoi occhi la diffidenza, occhi che negli ultimi mesi ricordavo di colore grigio, a volte più azzurri che grigi... e quella voce inaspettatamente acuta e chiara che suonava molto più giovane della sua età.
Aprii la lettera, e mentre leggevo sentivo la sua voce in testa. Era breve.
Caro Mr Kent,
è stato gentile a scrivermi dandomi notizie del giardino. Immagino che con l’approssimarsi della primavera sarà il caso di procurarsi dei semi da piantare nelle aiuole da lei create. Non posso inviarle denaro, ma se scrive a Miss Blackstone le farà avere quello che le serve. Le sembrerà ridicolo che non glielo spedisca io direttamente, ma deve sapere che sono praticamente immobilizzata e non ho nessuno che sbrighi le faccende per me.
Mentre ero in Messico mi sono rotta la gamba, o meglio il piede, in uno stupido incidente che mi ha costretta a subire diversi interventi. Sono in convalescenza, e la guarigione è lenta in modo esasperante.
No, non mi dà fastidio se prende in prestito i miei libri. Da come parla nelle sue letture sono certa che non li rovinerà. Le sono grata per tutte le attenzioni che dedica al mio cottage; ci penso con grande nostalgia. Vivere in ospedale, anche se riesco a muovermi un poco zoppicando per i corridoi, ha ristretto inesorabilmente i miei orizzonti, e temo un futuro in cui la mia mobilità limitata mi escluderà dal lavoro e purtroppo da tutto il resto.
Perciò capisco quando dice che nei trasferimenti soltanto le cose superficiali si aggiustano. Mi sento molto sola qua dentro, altro che feste con celebrità come immagina lei.
Sì, tanto vale aprire le casse rimanenti. A quest’ora l’avrei fatto io, e siccome per il momento non posso tornare, le sarei riconoscente se lo facesse lei. Dovrebbero contenere dei dattiloscritti di lavori teatrali, non ricordo quali avevo preso e quali avevo lasciato a Londra. Se li trova, li legga pure.
Non cita Čechov, immagino perché non ci è ancora arrivato. L’aspetta un’esperienza fantastica: per me è il miglior drammaturgo in assoluto dopo Shakespeare. Bisogna leggerlo diverse volte per apprezzarne la potenza, perché è innanzitutto un grande artista, capace di finezze estreme.
La ringrazio di avermi scritto. Cordiali saluti,
Daisy Langrish
(preferisco usare il mio cognome da autrice perché sono divorziata)
Questa era la lettera. La rilessi più lentamente, cercando di dedurre lo stato d’animo che l’aveva dettata. Il tono era in gran parte riservato e pratico; Daisy non si svelava, tranne che nella frase mi sento molto sola qua dentro: non l’avrebbe scritta se non fosse stato drammaticamente vero. Era riconoscente perché mi prendevo cura della sua casa, di cui aveva nostalgia: ecco un altro aspetto promettente. Infine mi dava il permesso di aprire le scatole, in cui finora avevo soltanto frugato.
Lo “stupido incidente”, invece, sembrava qualcosa di più serio di quello che voleva farmi credere. Se davvero l’attendeva una guarigione lenta, e se non fosse stata in grado di camminare e guidare, avrei potuto starle vicino con le mie lettere, e sarei riuscito a ispirarle fiducia al punto da spingerla a trascorrere la convalescenza al cottage e non a Londra. Ecco un pensiero inebriante, anche se quel futuro era molto lontano. Intanto dovevo lavorare per abbattere la sua diffidenza. Non aveva risposto alle osservazioni sui miei sentimenti il giorno del nostro primo incontro, ma percepivo che oltre a essere riservata Daisy era una persona timida, perciò dovevo prestare grande attenzione a non spaventarla. Quella sera le mandai una lettera molto breve in cui le chiedevo quali fiori preferisse, soprattutto quali colori volesse, così avrei comprato i semi. La ringraziai della sua lettera ed espressi preoccupazione per la frattura alla gamba. Le porsi cordiali saluti.
L’indomani mattina, mentre andavo al cottage (ormai ci passavo gran parte delle giornate) notai un ciuffetto di bucaneve vicino alla siepe. Colsi il più bello e lo riposi tra due fogli di carta assorbente che misi sotto un fermaporta a forma di leone che Daisy aveva in casa, poi mi dedicai all’interessante compito di aprire le casse. Ce n’erano solo tre, impilate in un angolo del soggiorno. La prima era piena di classificatori e cartelline, la seconda conteneva un misto di articoli di cancelleria, una macchina da scrivere portatile e delle foto incorniciate avvolte in carta di giornale, nella terza, invece, c’erano sceneggiature dattiloscritte per il cinema e la TV. Diedi un’occhiata veloce a queste ultime, poi tornai alla prima cassa.
Cominciai dalle foto. Ce n’erano sei. La più grande era di una donna anziana con i capelli alla maschietta ondulati, seduta su una poltroncina di vimini in giardino. Immaginai fosse sua madre, benché non le somigliasse. Sul retro c’era scritto: «JESS, BRIGHTON, 1938». Chi era Jess? In un’altra molto più piccola c’era un uomo in pantaloni alla zuava che cingeva le spalle di una giovane donna con il cappello a cloche e un abito a vita bassa che le nascondeva completamente le forme. La foto era color seppia e sul retro Daisy aveva scritto: «I TUOI NONNI: 1928». La successiva era il ritratto di un uomo molto giovane in uniforme della RAF, seduto, i gomiti puntati sul tavolo. Sul retro: «TUO PADRE: 1942». La quarta era di una bambina molto graziosa seduta su una spiaggia di ciottoli. Sul retro: «TU, QUATTRO ANNI, A BRIGHTON». Cominciavo a capire: le foto erano per sua figlia, Katya Moreland. Le ultime due raffiguravano Katya adolescente in jeans e giacca con le frange, con la didascalia: «TU AL MIO MATRIMONIO», e poi a braccetto con un uomo in dolcevita che fumava la pipa: «TU E EDWIN 1980». Nessuna di Daisy. Che delusione. Esaminai le foto della figlia da grande per trovare delle somiglianze, ma non ci riuscii. In quella scattata al matrimonio (con Jason Redfearn, immagino) aveva un’espressione imbronciata. I capelli lunghi le arrivavano alle spalle, lisci e pesanti, molto diversi da quelli della madre. Anche la bocca era diversa, più grande, e teneva le labbra strette in un atteggiamento di ostentata ostilità. In quella con l’uomo, invece, era completamente diversa: sembrava piena di vita, luminosa, sorrideva in modo seducente. Una bella ragazza, allegra e spensierata. Ma Katya non mi interessava. Incartai di nuovo le foto e le misi su uno scaffale.
Passai giornate intere a esaminare i contenuti delle casse. I classificatori contenevano quasi soltanto documenti professionali, etichettati con i nomi dei canali televisivi con cui aveva lavorato, ma vi trovai anche un paio di interessanti ritagli di giornale relativi al secondo matrimonio. Uno raffigurava la coppia in cima a una scalinata, con Katya sullo sfondo, in jeans e giacca con le frange, annoiata. La didascalia diceva: «MATRIMONIO CIVILE TRA LA COMMEDIOGRAFA DAISY LANGRISH E L’ATTORE JASON REDFEARN». Non era una foto nitida, ma si vedeva comunque l’espressione seria di Daisy e l’incredibile bellezza di lui. Misi da parte il ritaglio per studiarlo con calma con la lente d’ingrandimento che avevo in barca, e disposi i classificatori in fila sullo scaffale in basso.
Trascurai gli articoli di cancelleria e la macchina da scrivere e mi dedicai alla cassa dei dattiloscritti. Ce n’erano molti: delle sceneggiature televisive c’era più di una versione. Trovai anche qualche pièce teatrale, dattiloscritti rilegati con titolo e nome dell’autrice battuto a macchina su un’etichetta apposta sul frontespizio. Li misi da parte per leggerli in seguito. Mi avrebbero raccontato qualcosa di lei? Certamente, pensai, a patto di avere l’intuito di saper leggere tra le righe. Non è possibile scrivere narrativa senza tradirsi, nel bene e nel male. L’avevo capito dai romanzi che avevo letto anche senza nutrire particolare interesse per gli autori. Con Daisy sarebbe stato diverso: avrei capito quali erano le cose importanti per lei, i suoi timori e i suoi desideri. In un certo senso l’avrei conosciuta, e ciò avrebbe reso più facile costruire un legame di intimità attraverso le lettere: per il momento ero ancora un estraneo.
Ormai era febbraio inoltrato, ed era sempre più difficile lasciare il cottage per passare la notte sulla barca, squallida e trascurata com’era. Siccome non potevo tenere accesa la stufa tutto il giorno, al mio ritorno la trovavo fredda e umida, oltre che angusta e tetra. Una sera presi delle coperte e un cuscino dalla stanza degli ospiti e mi sistemai davanti al camino per dormire. Dopo quella volta tornai alla barca per prendere il sacco a pelo, e in seguito ci andai una volta al giorno per controllare che non affondasse. Se fosse comparsa Miss Blackstone – evento improbabile – avrei detto che il sacco a pelo si era bagnato per una perdita d’acqua in cabina e l’avevo steso davanti al fuoco per farlo asciugare. A tale scopo lo lasciavo a portata di mano in soggiorno.
Mi rispose circa una settimana dopo che le avevo mandato la lettera in cui le domandavo dei semi.
Mi piacerebbero dei fiori azzurri: speronelle (non quelle rosa), fiordalisi e floghi. Mi piace il loro odore pepato. Anche i papaveri mi piacciono, soprattutto quelli delicati, piccoli, giallo chiaro, bianchi e rosa. E la nemofila. Le sembrerà strano che conosca tutti questi nomi, ma quando ero bambina mia zia aveva un giardino incantevole, perciò mi piacerebbe coltivare proprio le piante che amava lei. La lavanda, la varietà viola scuro, e se possibile qualche garofano, quelli bianchi dal profumo buonissimo – non so come si chiama quella varietà particolare – e l’eliantemo. Forse non tutte queste piante si ottengono dal seme, ma lei saprà di certo quali si possono acquistare in vaso e quali no. L’altra volta sono stata una sciocca: qualche sterlina nel borsello ce l’avevo, me ne ero dimenticata. Gliele allego. Se non dovessero bastare mi faccia sapere. Da queste parti i giardini – quando ci sono – straripano di piante che starebbero bene in una serra gotica. Sono felice che il cottage non ne abbia una. Che strano: ci ho abitato pochissimo eppure mi manca, mi dispiace soprattutto non poter vedere il risveglio del giardino a primavera.
Ha già cominciato a leggere Čechov? Sto leggendo la sua corrispondenza, letterariamente molto bella e ricchissima di informazioni su di lui. Non posso fare granché oltre a leggere. Il fatto che il film andrà avanti senza di me è frustrante, ma sarebbe ancora più brutto stare lì a vedere come stravolgono la sceneggiatura o peggio ancora la riscrivono. E così sono bloccata tra quattro mura. La sera guardo vecchie pellicole: qui ce n’è una bella scorta.
Ho riletto la prima lettera che mi ha scritto e non posso fare a meno di chiedermi perché lei sia così solo se non le piace questa condizione. Ha amici che abitano troppo lontano per venire a trovarla? Ha qualche familiare? [Queste parole erano cancellate, ma riuscii a decifrarle lo stesso.] La barca deve essere molto fredda in questa stagione, perciò spero che riesca a scaldarsi quando accende il fuoco nel cottage. Qui il freddo è quasi un lusso, nessuno ha bisogno di abiti pesanti, bevande calde e un camino acceso. Questo ospedale è praticamente un hotel cinque stelle. Ho una stanza super accessoriata, dispongo di menu come al ristorante, fiori freschi, frutta e persino un mini frigo per tenere i succhi e l’acqua in fresco. Una volta al giorno zoppico su e giù per il corridoio con i bastoni da passeggio (ormai posso fare a meno delle stampelle) anche se camminare è ancora abbastanza doloroso.
Accidenti, non so perché mi sono dilungata così tanto su argomenti che non la interessano per niente. Il fatto è che ho troppo tempo a disposizione e nulla con cui occuparlo.
Dimenticavo le digitali, quelle bianche. E forse mi ripeto, ma amo anche i malvoni, benché a molte persone ricordino i copriteiera.
Cordialmente,
Daisy Langrish
Nella busta c’era una banconota da venti sterline.
Ecco le aperture che aspettavo da lei e per le quali mi ero adoperato: erano arrivate molto prima di quanto credessi. La lettera diceva molte cose: che si sentiva sola, che aveva nostalgia di casa e che iniziava a mostrare interesse per me. Aveva letto più di una volta la mia lettera, si preoccupava della mia solitudine. Era un’opportunità per raccontarle qualcosa in più della mia vita, stimolando così ulteriori confidenze da parte sua. Lasciai perdere le casse e quel che c’era dentro, e mi misi a scrivere. Stendere la bozza mi tenne occupato per il resto della giornata, e il giorno dopo la sistemai e la copiai in bella. La lessi ad alta voce per sentire se l’effetto era quello che cercavo.
Cara Miss Langrish,
innanzitutto, ecco un bucaneve che ho raccolto sotto la siepe accanto al cancello. È una delle sorprese meravigliose che ci riservano i giardini quando cominciamo ad averne cura.
La ringrazio per il denaro. Non credo si trovino i semi di flogo: ne comprerò due o tre piante, e con il tempo si moltiplicheranno da sole. La varietà di garofani che le piace si chiama Mrs Sinkins, in ricordo della moglie del giardiniere che l’ha selezionata. È vero, hanno il profumo migliore di tutti. Ne prenderò qualcuno, e poi li propagheremo per talea. La lavanda è costosa, ma se desidera averne un cespuglio su entrambi i lati della porta, le suggerisco di acquistarne una dozzina di piante. Oppure posso aspettare e acquistare i semi, per far durare di più il denaro che mi ha mandato.
Ho l’impressione che viva segregata dal mondo. Forse una simile distanza da tutto e tutti le si addice perché quando scrive ha bisogno di tranquillità. Oppure sta troppo male per scrivere? Per come ne parla, l’incidente sembra una cosa da nulla, ma deve essere grave se la costringe all’immobilità per così tanto tempo. Vorrei davvero poterla aiutare. Sono sempre stato bravo a prendermi cura delle persone, e adesso, ahimè, mi ritrovo senza nessuno da accudire. Sappia che al suo ritorno potrà contare sul mio aiuto: posso guidare, fare la spesa, assisterla in ogni modo durante la convalescenza.
Forse la mia è una proposta impertinente. Sono sicuro che avrà molti amici che non vedono l’ora di prendersi cura di lei; volevo solo dire che io sono qui e sono a sua disposizione.
Mi chiede perché sono così solo. È una storia lunga, com’è giusto che sia quando si è vissuto a lungo. Suppongo che la mia vita, in gran parte, sia stata una lotta per non essere rifiutato. Mia madre morì quando avevo cinque anni e mezzo e credo di non aver mai superato quel lutto. Accadde all’improvviso. Ebbi il morbillo, lei mi stette vicino e si ammalò. Ci furono delle complicazioni respiratorie (abitavamo in un cottage molto umido) e alla fine credo sia morta di polmonite. Mio padre si risposò quasi subito. La mia matrigna era una donna orribile, piena di astio nei miei confronti. Entrambi mi picchiavano spesso, e mi facevano sentire di troppo. Avevo una cameretta tutta per me, così mi rifugiai nella lettura...
Interruppi il racconto della mia infanzia. Non dovevo raccontarle tutto subito, ed era importantissimo scegliere con cura cosa dirle. Valutai con cura e proseguii:
Mio padre era capo giardiniere in una grande tenuta nobiliare della zona, perciò sin da bambino frequentai la figlia (l’unica) dei padroni. Forse questa storia le sembrerà ovvia, persino banale, ma crescendo insieme la nostra amicizia si trasformò in un sentimento più forte e mi innamorai perdutamente di Daphne, e lei di me. Per un po’ riuscimmo a mantenere il segreto, ma Daphne, giovane e innocente com’era, decise di raccontarlo ai genitori affinché acconsentissero al nostro matrimonio. Quando suo padre morì lei divenne ancora più determinata e non volle ascoltare i miei moniti. Ero convinto che sposarci sarebbe stato un errore madornale e volevo mostrarmi degno di lei facendo qualcosa di diverso che stare alle dipendenze di mio padre (mi obbligava a lavorare con lui) nella tenuta. C’è da dire che qualche anno prima, quando era stato il momento di scegliere se e come proseguire gli studi, gli insegnanti delle medie mi avevano suggerito di fare domanda per una borsa di studio al liceo pubblico, ma mio padre si era opposto. Quindi, in un certo senso, la mancanza di istruzione mi imprigionava in un lavoro che i genitori di Daphne non avrebbero mai e poi mai considerato appropriato per il loro futuro genero.
Ovviamente lo disse a sua madre. Lo scoprii quando Lady C (capirà nel corso della storia perché non scrivo il cognome per intero) mi fece chiamare. Immaginavo perfettamente il motivo della convocazione, o almeno così credevo.
Non dimenticherò mai quella scena. Era seduta sul sofà della biblioteca – una stanza sfarzosa in cui ovviamente non ero mai stato ammesso fino ad allora – vestita di nero, con una lunga collana di perle che toccava senza posa con le bianche dita dalle unghie laccate di rosso.
Non è facile scrivere queste cose. Quanto accadde in quella biblioteca sembra una scena da melodramma ottocentesco.
«Daphne mi ha detto che vuoi sposarla», disse, senza avermi invitato a sedermi.
Replicai che, pur amando Daphne, sapevo che dovevamo aspettare.
«Non è e non sarà mai questione di aspettare».
«Daphne è disposta a farlo, me lo ha detto. Glielo chieda».
«L’ho mandata via. È meglio che non vi vediate mai più».
«Dov’è andata?».
«Non te lo dirò mai. E non chiedere ai domestici, perché nessuno lo sa».
«Non può impedirle di scrivermi».
«Mando via anche te. Tuo padre è d’accordo. Te ne vai entro questa settimana».
«E se mi rifiutassi di partire?».
«Non sarebbe una mossa saggia. Il tuo impiego presso la tenuta termina oggi, e se ti metterai alla ricerca di un altro posto ti serviranno delle referenze. Le ho fornite al tuo nuovo datore di lavoro, ma non lo farò per altri che sceglierai tu. Forse non ti rendi conto che ti sei comportato in modo subdolo. Non sei una compagnia opportuna per mia figlia. Ritieniti fortunato che mi sia presa il disturbo di trovarti una collocazione altrove».
Non riuscivo a pensare a come risponderle. La mia mente, il mio cuore, erano sopraffatti dall’idea che non avrei più rivisto Daphne. Ma l’arroganza di quella donna, l’assoluta naturalezza con cui dava per scontato che le avrei ubbidito, mi fecero arrabbiare.
«Come osa trattarmi così? Lei che non ha mai alzato un dito in vita sua crede di potermi comandare a bacchetta e spedirmi dove vuole solo perché sono un operaio? Amo Daphne... e...». Non riuscii a continuare e, con mia grande vergogna, scoppiai in lacrime davanti a quella donna odiosa. Stavo troppo male, non riuscivo a smettere. Ricordo che mi asciugai gli occhi con la manica e, quasi accecato dalle lacrime, feci per uscire da quella stanza immensa.
Ma a quel punto accadde qualcosa di straordinario.
«Vieni qui», disse con un tono di voce così diverso da prima che mi voltai a controllare che non ci fosse qualcun altro nella stanza.
«Vieni», ripeté, con una tale dolcezza che dovetti ubbidire.
Toccò uno sgabello accanto al divano, e andai a sedermi. Ci fu un momento di silenzio in cui mi fissò pensierosa, come se mi stesse valutando. Sentii che le costava molto dire quello che stava per dire.
«Sei tutto tuo padre quando ti arrabbi».
Non risposi. Non mi piaceva somigliare a mio padre, e sapevo che non mi aveva richiamato per dirmi questo.
«Capisco in parte ciò che senti. Sei sconvolto, sei arrabbiato con me, ti senti ferito e pensi che io sia una snob».
Era tutto vero, non servivano commenti. Non volevo farmi rabbonire da quei discorsi conciliatori né mostrarle le mie emozioni. La fissai con freddezza, forse feci addirittura spallucce.
«Povero ragazzo».
«Il fatto che le dispiaccia non cambia le cose. Continuerò a cercare Daphne finché non la trovo».
«E io ti imploro di non farlo. Ti imploro».
«Perché? Mi disprezzerebbe ancora di più se mi adeguassi al suo volere, giusto?».
Sorrise e mi afferrò la mano con un gesto improvviso. La sua era sottile e fresca e avrei potuto stritolarla con facilità.
«Non mi resta altra scelta che dirti la verità. Ma a una condizione: che non racconti nulla a tuo padre».
Non sarebbe stato difficile. «Be’, tanto con lui non ci parlo».
Me lo disse. Venni a sapere che Daphne e io eravamo fratellastri, avevamo lo stesso padre, e nessun altro lo sapeva oltre a lei. «E ora lo sai anche tu».
La fissavo, ma lei non riusciva a sostenere il mio sguardo. «Mi sembra una storia alla Lady Chatterley», commentai nel tentativo di offenderla. Lei non si scompose.
«Non proprio. Mio marito voleva un erede. Tuo padre si sposò qualche mese dopo. Ebbi una figlia». Tacque per un istante. «Non rimanemmo insieme a lungo», soggiunse con una sfumatura di amarezza.
«Adesso è meglio che tu vada. Sulla scrivania c’è una busta con dentro le informazioni sul tuo nuovo posto di lavoro. Sanno che arriverai tra due giorni. Là ti troverai meglio che da noi, perché il loro capo giardiniere andrà in pensione tra poco. Se lavorerai bene potresti prendere il suo posto».
Presi la busta e me ne andai.
E qui mi fermai, allarmato da quanto avevo scritto. Rilessi da cima a fondo. Complessivamente ero soddisfatto. La mia storia era così improbabile da poter passare per vera, poi aggiunsi:
La lettera conteneva indicazioni per raggiungere una tenuta vicino Sevenoaks, nel Kent. La coincidenza tra la contea e il mio cognome mi parve colma di ironia. C’erano pure cento sterline in banconote da cinque. Non vidi mai più Daphne.
Mi fermai ancora una volta e conclusi:
Santo cielo quanto mi sono dilungato! Chissà cosa mi è preso per scrivere così tanto. Ma no, in realtà lo so: volevo parlarle di una cosa che non avevo mai raccontato a nessuno. [Questo era vero.] Volevo confidarmi con lei, e so che non sarebbe possibile senza un patto di fiducia. Vorrei davvero che lei si fidasse di me!
Cancellai queste ultime parole, non completamente, ma facendo in modo che con un piccolo sforzo fossero leggibili. Chi non cerca di leggere le parole cancellate se c’è la pur minima possibilità di decifrarle?
Non la annoierò oltre con la mia storia. Le pene del primo amore ci colgono quando siamo giovani e dotati di grandi capacità di recupero, ma ovviamente sul momento vediamo soltanto le tribolazioni e non percepiamo la nostra forza. Scegliamo tutti la persona sbagliata quando siamo giovani? E ne ricaviamo qualche insegnamento? Adesso che sono avanti con gli anni sento di sapere molte più cose, ma non voglio vivere seguendo il solco delle mie esperienze. Riesce a dare una risposta a queste domande? Io no, non ci riesco.
Il suo affezionato,
Henry K.
Decisi di studiare bene il contenuto delle casse prima di mettermi a leggere i suoi scritti. La decisione era dovuta in parte al timore di non apprezzare (o capire) i suoi lavori e di conseguenza non riuscire a parlargliene per lettera, ma anche alla speranza di ricevere una risposta prima di rimettermi a scrivere.
Così affrontai la cassa più noiosa, quella con la macchina da scrivere e la cancelleria. Ciononostante, una volta sistemata la roba, proprio quando stavo per mettere via la cassa, notai sul fondo una grossa busta legata con un nastrino bianco sporco. Non era sigillata, quindi bastò sciogliere il nodo per scoprire un tesoro. Un plico di lettere, un piccolo album di foto e un diario di cinque anni rilegato in pelle rossa screpolata, con la chiusura a lucchetto così consumata che sarebbe stato facile aprirlo. Cominciai dalle lettere. Erano suddivise in tre plichi sottili tenuti insieme da elastici consunti, alcune con la busta e altre senza.
Per prima cosa guardai chi era il mittente. Le lettere più vecchie (carta ingiallita, inchiostro sbiadito) erano di Jess, di cui avevo già visto la foto. Scoprii che era la zia. Erano quasi tutte senza data tranne due cartoline, e la destinataria era chiaramente Daisy da bambina, negli anni Quaranta. La calligrafia di Jess era molto regolare, ma non per questo leggibile. Mi sforzai di decifrarne un paio, poi rinunciai e le misi da parte per dopo. Poi c’erano le lettere dal collegio della figlia. Posso smettere di studiare il violino? Non sono portata e detesto l’insegnante; Questa settimana ci hanno dato da mangiare topi macinati e uova di rana... sinceramente il cibo fa sempre più schifo, e Lavinia ha vomitato prima di riuscire ad arrivare in bagno. Da Edimburgo scriveva:
Vorrei che la smettessi di stare in ansia per me. Sono perfettamente in grado di badare a me stessa. E comunque non mi interessa trovare un uomo, sposarmi e riprodurmi, come previsto dal protocollo sociale. Io invece voglio fare qualcosa per il mondo, voglio una vera carriera. Non ne posso più di come ci trattano gli uomini, e stai sicura che farò in modo di essere completamente indipendente. Almeno su questo dovresti darmi ragione, considerando la tua esperienza con papà. Dev’essere un sollievo avere la tua età e non doversi preoccupare per queste cose. Guarda zia Jess: lei non ha mai avuto a che fare con gli uomini ed è felice.
In un’altra lettera diceva:
Scusami se sono stata intollerante e odiosa. So che mi vuoi bene e che zia Jess ti manca molto più che a me. Il problema è che sei troppo fiduciosa e gentile. Vedi il mondo attraverso una specie di velo romantico, perciò ti scongiuro di non cercare un uomo che prenda il posto della zia. Sono l’unica realista della famiglia e mi sento in dovere di proteggerti, anche se forse ti sembro scontrosa e priva di tatto. È fantastico che ti sia messa a scrivere, e non importa se non diventi famosa o ricca, perché presto comincerò a guadagnarmi da vivere e potrò ripagarti. Hai rinunciato a molte cose per me, lo so bene. Con Lizzie vogliamo andare in India dopo gli esami finali, perciò mi troverò dei lavoretti durante le vacanze per mettere da parte qualcosa.
Infine trovai una cartolina che diceva semplicemente: E va bene. Se proprio ci tieni, verrò.
C’erano due lettere di Anna Blackstone, ma riguardavano questioni puramente letterarie, quindi le lasciai perdere.
Il terzo plico era composto da bigliettini molto brevi. I messaggi cominciavano con il disegno di una margherita ed erano firmati devoto, preoccupato, delirante, sconvolto e in un caso abbattuto – J. Solo per dirti che ti amo più di ieri e meno di domani. P.S. Potresti per caso prendermi lo smoking in tintoria?
Sono molto felice di non essere più una semplice comparsa ma un idolo da amare... per il tuo gatto ovviamente. Anche se immagino che Sykes preferirebbe una comparsa che gli allunga una sardina a una star del cinema che lo adora. Ti ama solo perché gli dai cibo e lusinghe, mentre io... be’, io ti amerò finché non sarai così vecchia e debole che non riuscirai nemmeno più ad aprirgli le scatolette. Digli che sei soltanto la sua governante, mentre io sono il tuo amante, marito, amico e ammiratore per sempre. G.F. Jason.
Questo era il messaggio più lungo. Poi presi il diario e tirai il laccetto consunto che lo teneva chiuso finché non si ruppe. Ne scivolò fuori una lettera scritta su carta da posta aerea, sottile, stropicciata come se fosse stata aperta e ripiegata molte volte. La prima frase diceva tutto. Questa è la lettera più difficile che abbia mai scritto in tutta la mia vita. Daisy era stata lasciata con quelle parole, tanto più brutali perché scritte con totale inconsapevolezza. Povera Daisy! È interessante che le persone, prima di fare una cosa che ferisce gli altri, si giustifichino dicendo quanto sia difficile per loro. Che strazio era stato per Jason e Marietta scrivere quella lettera! Ma allora perché farlo? Continuai a leggere. Il motivo era l’intensità del loro amore, che Jason descriveva con dovizia di particolari. Certo, Daisy doveva essere proprio ansiosa di saperlo! Ricordai di aver visto un’attrice di nome Marietta alla TV qualche anno prima, recitava in una sit-com. Era una donna minuta, con occhioni immensi, piccoli seni appuntiti e gambe fantastiche generosamente messe in mostra dalla minigonna. Ovviamente era molto più giovane di Daisy.
Mi domandai cosa avesse significato tutto questo per lei, quanto ci avesse sofferto. Ricordai due cose contemporaneamente (difficile che le abbia pensate nello stesso istante, ma nella memoria le due intuizioni sono legate strette): una era l’assoluta mancanza di lettere del primo marito, solo una foto e un’allusione non certo lusinghiera fatta da Katya, l’altra era l’espressione diffidente di Daisy la prima volta che l’avevo incontrata. Forse in realtà non le piacevano gli uomini, le facevano paura o non era ricettiva a livello sessuale. In entrambi i casi non era colpa sua, forse aveva incontrato due zotici egocentrici, evento frequente nella vita di molte donne, secondo la mia esperienza. Eppure l’istinto mi diceva che era stata sensibile, ma che gli uomini l’avevano ferita e le cicatrici erano ancora dolenti.
Il diario cominciava poco prima che conoscesse Jason. All’inizio si trattava soprattutto di appunti di natura professionale, di preoccupazione per l’improvviso fidanzamento di Katya e del racconto del matrimonio alla quale il primo marito (lo Stach della foto) si era presentato inaspettatamente.
Incredibilmente, la sua presenza non mi ha fatto né caldo né freddo. È così facile dimenticare una persona dopo che è passato tanto tempo! Non era cambiato. Non ho provato nulla, solo il lieve timore che si ubriacasse mettendo Katya in imbarazzo durante la festa. Ma è andato tutto bene, lei era raggiante di felicità, come circondata da un alone magico di gioia che la proteggeva dai bicchieri in frantumi e dal sentimentalismo di certe rievocazioni.
Io però volevo saperne di più sulla sua storia con Jason, così sfogliai velocemente finché non arrivai al giorno del loro primo incontro. Era un breve appunto del marzo ’72.
Stamani ho conosciuto un uomo bellissimo, un attore ovviamente. Ero sulla barca di Rodney per uno dei suoi aperitivi della domenica mattina. Credevo che un uomo così affascinante non potesse essere simpatico e di compagnia, perché dominato dalla vanità, dall’egocentrismo e dal desiderio di diventare una star, e invece sbagliavo! Mi ha detto che non stava lavorando (perché gliel’ho chiesto) ed è finita lì, non ha più parlato di sé.
Qualche pagina dopo era chiaro che si era innamorata di lui alla follia. Nei due anni successivi non aveva scritto quasi niente. A volte cominciava a raccontare, ma si fermava dopo un paio di frasi. In uno dei paragrafi più lunghi spiegava come mai.
Mi ero riproposta di annotare tutto, se non quotidianamente almeno una volta a settimana, ma sono troppo presa per scrivere al di là del lavoro. Dovrei parlare della felicità assoluta che provo, ma è più difficile di quanto credessi. Posso soltanto dire che so che esiste, che è qui e riempie ogni momento, ogni pensiero e tutto ciò che faccio con lui e senza di lui. Sono felice nel presente – sempre che lo si possa isolare dal resto – e non smetto mai di guardare al futuro, sia quello immediato (come un’uscita a cena insieme), sia quello più distante (come una vacanza in Francia fra qualche mese). Quando esce non vedo l’ora che torni e non vedo l’ora che le cose che abbiamo fatto insieme ieri diventino un ricordo... e poi immagino quando faremo l’amore. È straordinario come la sicurezza e l’eccitazione possano andare di pari passo, mentre finora avevo creduto che si escludessero a vicenda. Sentirmi sicura del mio amore per lui e del suo per me rende la vita quotidiana un’avventura.
Volevo arrivare alla rottura. Sfogliai rapidamente fino al marzo 1975.
Anna me l’ha detto ieri sera. Sono contenta che sia stata lei. Non ha nemmeno accennato ai dubbi che ha sempre nutrito nei confronti suoi e del nostro matrimonio. So che mi vuole bene, e che ciò dovrebbe essermi di conforto, ma non provo niente. È come se dal nulla, senza motivo, mi avessero lanciato addosso una bomba che però non mi ha ucciso. Sono ancora viva ma non possiedo più niente.
In seguito:
Com’è accaduto? Perché mi ha mentito così tanto e così a lungo? Mi rendo conto che era tutto terribilmente ovvio, che doveva accadere... infiniti segnali che chiunque altro avrebbe notato. Come si può infliggere così tanta sofferenza alla persona che si sostiene di amare? Forse non mi ha mai amato. Quando ci siamo conosciuti non aveva niente, faceva l’imbianchino e la comparsa, quando capitava. Se un tempo mi amava e poi ha smesso, perché non me l’ha detto? Perché ha lasciato che lo scoprissi da sola? E se invece non mi ha mai amato, deve essere stato ancora più difficile dirmelo. Forse perché gli uomini sono fondamentalmente diversi dalle donne? Mi desiderava e per lui quello era amore. Ora desidera un’altra, e anche quello è amore.
Su un’altra pagina:
È un attore, recitare gli viene naturale.
E poi:
Ho quasi quarantotto anni e lui ne ha quarantuno. È una spiegazione grossolana. Lei ne ha venti, ecco la vera ragione. Posso anche coprirlo d’insulti dopo quella lettera, ma l’amore e la sofferenza della perdita continuano a vivere come se non l’avesse mai scritta. Insomma, non so come si fa a diventare indifferenti.
Aprile.
L’ho convinto a tornare e dirmi le cose in faccia. Non so perché mi sembra così importante, ma lo è. Vivo un profondo contrasto al riguardo: non voglio che veda quanto sono infelice, ma allo stesso tempo voglio che sappia precisamente quanto mi ha reso infelice. Voglio che lo senta, che gli importi qualcosa, che gli stia a cuore. Pura follia. L’orgoglio è una specie di corsetto che mi tiene insieme, perlomeno di fronte a lui. Manterrò la calma e gli chiederò semplicemente cosa è accaduto tra noi.
No, non gli chiederò niente. Deve dire quello che prova. Mi basta.
Forse non verrà.
Forse – c’è una remota possibilità – quando ci vedremo tutto tornerà come prima, come agli inizi della nostra storia.
Alla fine è venuto, proprio quando ormai mi preparavo a un’ennesima delusione. È venuto ed è stato orribile, quando è andato via la prima volta ho pensato che sarei morta. Ovviamente non si muore, si va soltanto in mille pezzi. È tornato perché aveva dimenticato la sua ventiquattrore. Durante quell’ultima ora insieme a lui ho pensato che forse era stato tutto un incubo orrendo. Ricordo che ho cercato di dirgli quanto lo amavo, e lui mi ha chiuso le labbra sfiorandole con le dita, mi ha baciata per non farmi parlare. Poi si è rivestito e se n’è andato. L’ha fatto solo per pietà. Per pietà!
Maggio.
Non credevo fosse possibile essere così infelice, desiderare in modo così doloroso la sua voce, il suo tocco, la sua semplice presenza, anche se ora so che mi ha dato soltanto opportunismo, menzogne e pietà. Come posso amare una persona così? Forse in realtà non lo amo. Forse anche per me si trattava soltanto di una forma di opportunismo; forse l’amore non corrisposto non esiste, e io devo piangere e disperarmi per non ammettere l’umiliazione di aver preso un abbaglio del genere. Forse sono troppo orgogliosa o arrogante per riconoscere che mi sono fatta fregare.
Luglio.
Credevo che scrivere mi avrebbe aiutato, e invece non serve a niente. È come se la mia mente e il mio cuore fossero bloccati. L’unico modo per farli funzionare è pensare a lui. I gesti quotidiani mi costano una fatica immane. Alzarmi la mattina (lo sforzo peggiore), fare il bagno, mettere su il caffè. Mi siedo e scrivo liste di cose da fare e poi non trovo neppure una ragione per agire.
Stamani c’era un articolo sul giornale: un ragazzo che aveva smarrito il cane, che era stato poi ritrovato avvelenato. Allora lui l’ha portato in braccio per tre chilometri fino dal veterinario. Un ragazzino di nove anni con un labrador di sei mesi, e il veterinario l’ha salvato. Ho pianto tutta la mattinata. Piango per qualsiasi cosa. Il cane è guarito, perché piangevo?
Agosto.
Anna mi dà ragione e dice che dovrei lasciare questo appartamento. È stata tanto paziente con me. Stiamo trascorrendo un fine settimana in un cottage che ha affittato in campagna, nell’East Anglia, una zona che non conoscevo. C’è un sole bellissimo, e il cottage ha un giardino che mi ha ricordato Jess. Ho raccontato ad Anna quanto è stata importante Jess per me, ed è stata la prima volta che ne parlavo con qualcuno che sembrava capirlo davvero. È stata anche la prima giornata in cui non ho mai pensato a lui. L’ho detto ad Anna e lei ha commentato che era una cosa buona. Io invece non mi sento affatto meglio, perché se riesco a dimenticarlo così in fretta significa che non l’ho veramente amato. «Ed è così importante?», mi ha chiesto. Ci sono rimasta male. «Certo che è importante», ho detto. Siamo tornate da una lunga passeggiata e ci siamo sedute a tavola in cucina, davanti a una tazza di tè. È calato il silenzio. Le ho detto: «Spero bene che tu sia d’accordo con me. Credi anche tu nell’amore, giusto?».
«Certo. Ma non credo che i sentimenti debbano essere permanenti per essere reali. Sono reali finché ci sono. E poi le cose cambiano. Ti sei fatta un’idea eroica dell’amore, sei una romantica, ma l’amore non regge sempre il peso degli ideali, e gli ideali tengono raramente conto delle persone. Passami una sigaretta, dai».
«Quindi mi stai dicendo che mi aspettavo troppo da lui?».
«Può darsi. Oppure chiedevi troppo a te stessa».
«Se uno ti racconta bugie, è difficile credere al suo amore».
«Certo. Ma Jason non ti ha sempre detto bugie. Ne sono sicura. Non ha deciso a tavolino di usarti, questo sarebbe stato intollerabile. Ti ha reso molto felice. E credo che avrebbe raggiunto la notorietà, sarebbe diventato una stella del cinema, anche senza di te. Non era questo il suo scopo. Ti ha amata, e poi si è innamorato di un’altra». Chissà perché queste parole, dette da lei, non suonavano brutali.
«Capisco cosa vuoi dire, e forse hai ragione, ma resta il fatto che d’ora in poi non riuscirò a fidarmi di chi dice di amarmi».
Ha fatto spallucce. «È una scelta, in fondo. Se uno è ossessionato dalla paura di essere investito da una macchina, finirà per non uscire più di casa. Non credo che una vita come quella ti andrebbe bene. Puoi scegliere cosa imparare dalle esperienze, come in ogni altro ambito. Oppure puoi non imparare niente». Ha sbuffato in modo curioso, sembrava una risata. «Guarda me. Mi hanno messo sotto una volta sola e adesso non esco più».
Più tardi le ho chiesto se le andava di parlarmene, e lei ha risposto: «Prima o poi te ne parlerò». Ho capito che non lo farà tanto presto.
Scrivo queste righe seduta sul letto, nel cottage. Torniamo a casa domani, e Anna si è presa una pausa dal lavoro per aiutarmi a cercare un alloggio. Le voglio bene. Questo sentimento non cambierà. È stata la prima conversazione su Jason in cui non abbia pianto, neppure ripensandoci, come ora mentre scrivo.
Poi niente di interessante per diversi mesi.
Stamani ho portato Anna a vedere l’alloggio in Blomfield Road. Comprende il penultimo e l’ultimo piano di un edificio che dà sul Regent’s Canal. Ci sono due stanze grandi e due piccole, oltre a una cucina (striminzita) e un bagno (discreto). Sul retro c’è un ampio giardino di proprietà degli inquilini del piano di sotto, ed è bello anche soltanto poterlo vedere. Il contratto prevede un periodo di locazione breve, ma Anna ne è entusiasta e mi ha trasmesso fermezza e anche un po’ del suo entusiasmo. Qui posso cominciare una nuova vita.
Qualche settimana dopo.
La mia ultima notte in questa casa. Una fine che me ne ricorda un’altra ben più brutta. Abiterò in un luogo che lui non ha mai visto né mai vedrà. Anna ha ragione riguardo al cambio di ambiente, ma ciò non toglie che sia uno sradicamento, come se mi strappassi quell’uomo dal cuore. Si tratta di sentimentalismo? Una parola che spesso usiamo per definire quel che provano gli altri quando non sappiamo accettarlo, credo. Adesso, quando penso a lui – non spesso come prima né così a lungo –, provo ancora dolore. Mi sono abituata a una condizione di solitudine, alla castità. Qualche settimana fa l’ho intravisto a una festa di premiazione e ho di nuovo sentito quella fitta di dolore. Mi dava le spalle – la sua testa spiccava tra la folla – e ho sentito una specie di colpo sordo alla base della spina dorsale, non come quando avevo Katya in pancia e mi dava calcetti delicati, ma proprio un calcio potente che mi ha lasciata senza fiato. In quel momento lo volevo, avrei fatto qualsiasi cosa per riaverlo. Il dolore è passato, lui si è voltato, qualcuno mi ha dato un drink, e poi è scomparso, forse perché mi aveva visto.
No. Fatta eccezione per quella volta alla festa mi sono abituata all’idea che nessuno mi bacerà più o mi toccherà o entrerà dentro di me. Invece non mi sono per nulla abituata all’idea che non amerò né sarò più amata per il resto della mia vita. Credo che il mondo sia pieno di sofferenze segrete come questa, che si annidano nel corpo come l’arsenico e la malaria, senza che possiamo farci niente. Se penso a tutte le donne che hanno perso il loro uomo in guerra o per mano altrui, la mia perdita mi appare limitata, insignificante, forse persino colpa mia... Tuttavia arrivo a comprendere il loro dolore. E so che le persone ti concedono un periodo di lutto e poi vogliono che torni alla vita normale, quella che conducono loro, con priorità diverse, piena di cose poco importanti.
Diedi una scorsa alle pagine seguenti per controllare se Jason fosse stato rimpiazzato, ma non trovai niente. Poi, memore di come Miss Blackstone era piombata al cottage senza preavviso, finii di svuotare le casse e misi via i documenti per riprendere la lettura in un secondo tempo. Era marzo, tirava un gran vento e le nuvole correvano in cielo. Dovevo controllare la barca tutti i giorni, un’incombenza che mi pesava sempre di più, ma c’erano due buone ragioni per farlo: anche i proprietari potevano tornare senza preavviso, e una visita da parte di Miss Blackstone mi avrebbe costretto a ricominciare ad abitarci. Così chiusi il cottage, non senza averlo ispezionato con l’occhio critico di un visitatore esterno che vi cercasse segni di occupazione. Convinto di non aver lasciato tracce, mi incamminai sul sentiero e raggiunsi il ponte da cui partiva l’alzaia.
Già a diversi metri di distanza dalla barca notai che c’era qualcosa di strano. I portelli di boccaporto erano aperti e uno sbatteva al vento. Era entrato qualcuno.
Pensai che fossero stati dei bambini, qualche gruppo di ragazzi. A giudicare dalle confezioni vuote di biscotti e cioccolato sparse in giro avevano saccheggiato la dispensa. Avevano aperto i cassetti e gli armadietti, ma da lì non mancava niente, tranne il mio temperino (che tenevo nel cassetto delle posate), una torcia elettrica e una penna stilografica che non usavo mai. Cosa non trascurabile, anzi fondamentale per me, i documenti e i libri erano intatti. Tuttavia quei ragazzi sarebbero tornati, se la barca fosse sembrata abbandonata. La porta della dinette aveva un lucchetto, ma da tempo avevo smesso di chiuderlo per pigrizia, così per i ladri era stato facile manomettere la serratura. La misi a posto e rinforzai le asole della porta. Decisi che era meglio rimanere in barca quella notte, con la lampada accesa in cabina. Quindi pulii la stufa e la accesi (ci avevano provato anche i ladri ed era piena di cartacce bruciate). Poi mi accorsi di non avere con me né il sacco a pelo né nulla da mangiare, così tornai al cottage. Era già buio, il vento si era calmato e la temperatura stava scendendo rapidamente. Mentre arrancavo per il sentiero – senza torcia – maledissi gli intrusi. L’indomani avrei valutato se conveniva spostare l’ormeggio sulla sponda opposta all’alzaia per garantirmi maggiore sicurezza. Mi ero abituato alle comodità del cottage e l’idea di trascorrere la notte in quella barca così umida mi metteva molta apprensione.
Ma quando arrivai, trovai un’altra sorpresa: una lettera di Daisy. Prima di leggerla volli recuperare il sacco a pelo, una scatoletta di carne di manzo sotto sale, qualche patata e il whisky che rimaneva da una bevuta che mi ero concesso la settimana precedente.
Pelai le patate, aprii la scatoletta, mi versai il whisky, poi finalmente mi sedetti al tavolo della cucina e lessi la lettera.
Caro Mr Kent,
la ringrazio per la sua interessantissima lettera. Che storia incredibile! Non so cosa dire, se non che la vicenda di cui parla deve essere stata assai dolorosa per lei. Descrive così bene il colloquio con Lady C che mi è quasi sembrato di essere in teatro – perdoni la sfacciataggine – a osservare il dramma che andava in scena. Ma mi rendo conto che per lei non deve essere stato per nulla divertente: una tragica coincidenza di cui né lei né quella povera ragazza potevate essere a conoscenza. Posso soltanto sperare che da allora lei abbia incontrato una donna con cui sposarsi o con cui convivere. Il “vissero felici e contenti” per me non è altro che una pericolosa favola che ci inganna tutti. Sarebbe un sollievo se mi dicesse che alla fine ha trovato una persona da amare. Per rispondere alla sua domanda – se quando siamo giovani scegliamo sempre le persone sbagliate – posso solo dire che probabilmente siamo in molti a cadere nell’errore. A me è successo. Quanto impariamo dagli errori? Dipende da quanto siamo disposti a imparare. La trappola più pericolosa è credere che sia possibile farlo semplicemente osservando gli altri; e poi dimentichiamo spesso la distanza da cui li guardiamo (non ci è possibile entrare nella loro pelle o sapere precisamente cosa sentono): questo, insieme alle lenti colorate di rosa e all’approccio critico e difensivo che adottiamo con gli altri, ci impedisce di apprendere. Definiamo le persone sciocche, irresponsabili o egoiste senza considerare i loro bisogni o la loro ignoranza. Dico queste cose, ma non le metto in pratica. La mia critica vale quanto quella di un altro. La critica ci esonera dal compito più difficile, che è quello di fidarci delle persone che ci stanno intorno.
Credo che presto mi dimetteranno. La prossima settimana mi faranno un’altra radiografia e mi diranno se le ossa sono guarite abbastanza da poter tornare a casa e riprendere la vita di sempre. Non aspetto altro, e tornerò al cottage non appena potrò guidare.
Stavo per dimenticare di ringraziarla del bucaneve. È stato un gesto davvero incantevole e lo conserverò. Immagino che al mio ritorno saranno tutti sfioriti, ma forse per allora ci saranno i narcisi?
I miei genitori sono morti in un incidente d’auto quando avevo tre anni, ma sono stata più fortunata di lei perché la mia meravigliosa zia si è presa cura di me, e da sola mi ha dato l’affetto di un padre e di una madre. La sua infanzia invece deve essere stata assai deprimente. Mi dispiace tanto.
Che fortuna avere trovato un giardiniere esperto e un custode così scrupoloso. La ringrazio di cuore.
Cordiali saluti,
Daisy Langrish
Lessi e rilessi la lettera finché non la imparai quasi a memoria, tanto era piena di cose che volevo sentirmi dire. Aveva cominciato a trovarmi interessante, questo era evidente, e voleva confidarsi. Inoltre sarebbe tornata a breve: cos’altro potevo chiedere? Se tutto si fosse verificato nell’ordine corretto sarebbe stato facile gestirlo, reagire nel modo giusto e darle un’impressione positiva. Se Daisy – ormai nei pensieri la chiamavo per nome – mi avesse avvertito per tempo del suo arrivo, avrei eliminato ogni traccia della mia presenza dal cottage, avrei acceso il camino e lo scaldabagno per accoglierla come si deve, un vaso di fiori freschi e la spesa appena fatta sul tavolo della cucina, e avrei accompagnato il tutto con un messaggio di benvenuto e una dettagliata nota spese, in modo da confermarle la mia precisione e onestà. Se invece fosse arrivata senza avvisare mi avrebbe colto in fallo. E se poi avesse deciso di farmi una visita a sorpresa sulla barca? Non mi sembrava probabile, ma non è nel mio carattere escludere l’improbabile. Al mattino avrei tentato di ormeggiare la barca sull’altra sponda del canale e avrei dato una bella ripulita, casomai Daisy avesse mandato Miss Blackstone a cercarmi. Questo era un altro pensiero sgradevole, perché comportava un serio lavoro di riordino delle mie carte, che andavano nascoste con cura. I ladruncoli non le avevano degnate di attenzione, ma Miss Blackstone era un’osservatrice perspicace, e tra le mie carte c’erano molti segreti che era meglio restassero tali. Così mi misi subito al lavoro. Nel corso degli anni avevo scritto parecchio, su quaderni e fogli sparsi, e anch’io come Daisy avevo pacchetti di fotografie che documentavano la mia vita passata. Aprii l’ultima lattina di birra, accesi la penultima sigaretta e intimai a me stesso di non soffermarmi troppo sulle lettere o sulle immagini che stavo archiviando, ma mentre impilavo plichi da infilare nei sacchetti di plastica, da uno di essi scivolò a terra una foto di Charley. Povera, scialba Charley, imbruttita dal vestito aderente di raso bianco che indossava al matrimonio con quel mascalzone altolocato che se l’era impalmata. Credeva di essere stata carina almeno quel giorno, in abito da sposa, e così mi aveva dato la foto; io ovviamente l’avevo subito sommersa di aggettivi come raggiante, innocente e incantevole, che mi venivano alla bocca con facilità. «Oh, Harry! Davvero lo pensi? Avevo solo un vestito elegante!». Era il suo modo per incoraggiarmi a farle altri complimenti. (Dio che noia doverla rassicurare in continuazione!).
I suoi genitori – i miei datori di lavoro – le avevano trasmesso i loro tratti somatici meno affascinanti. Suo padre era un ometto tarchiato e rotondo, gli occhi troppo vicini e la bocca slargata; sua madre aveva una faccia a forma di pera, anche il corpo a forma di pera, ma molto più grossa, e gambe globose come quelle di un pianoforte. La poveretta aveva ereditato tutti questi difetti nonché una chiostra di denti regolari, certo, ma troppo grandi per una persona poco più alta di un metro e sessanta. L’altra cosa che aveva preso dai suoi era una quantità smisurata di denaro, con la promessa di ulteriori ricchezze in eredità. Ed era figlia unica. Solo gli orecchini con diamante che indossava alle sue nozze valevano una fortuna.
Sigmond Kesler, il giovane mascalzone, l’aveva evidentemente sposata per soldi, ma lei l’aveva capito troppo tardi, quando ormai era innamorata pazza di lui. «È stato il mio primo uomo», mi spiegò. Quando la conobbi era sposata da tre anni e profondamente infelice. Sigmond, mi disse, aveva assolto i suoi doveri coniugali soltanto due volte. Era chiaro che aveva un’amante, me ne accorsi subito; Charley invece ci arrivò molto dopo, come sempre. «Lavora come uno schiavo, a casa non c’è quasi mai, e nell’ultimo anno la ditta l’ha mandato all’estero di continuo; ovviamente non può portarmi con sé perché si tratta di viaggi di lavoro, così mi tocca stare tutto il giorno da sola nella nostra immensa casa di Bishops Avenue [venni a sapere in seguito che si trovava a Londra], senza nient’altro da fare che portare i cani a spasso per Hampstead Heath. Papà dice che le persone devono lavorare sodo per dare prova del loro valore, perciò dovrei essere fiera di lui. Lo sono, certo, ma non lo vedo quasi mai e quando ci vediamo dice che gli viene l’asma se dorme nella stessa stanza come me».
Veniva a Lawn Court nei fine settimana e a volte anche per periodi più lunghi, quando il marito era via. Avevo cominciato a lavorare a Lawn Court dopo il mio congedo dalla Marina per invalidità. Devo dire che fu un sollievo immenso! Non mi ero mai trovato a mio agio con gli altri soldati, stipati prima in una corvetta, poi in una motosilurante e infine in una delle poche cannoniere a vapore, un lungo incubo in cui la noia mortale era spezzata solo da momenti di puro terrore. Se non altro nella corvetta c’era un cuoco che aveva un po’ di esperienza; nelle altre due navi il cuoco era un membro qualsiasi dell’equipaggio, un incapace privo della furbizia e dell’intelligenza necessarie per farsi assegnare un’altra mansione. Come molti altri soffrivo il mal di mare. Avevo ricevuto un addestramento da fuciliere, e quando fui trasferito sulla motosilurante possedevo una certa familiarità con la mitragliera Oerlikon. Quando passai alla cannoniera a vapore fui promosso sottufficiale. Sapevo bene che il mio nuovo grado, al pari del capitano e del suo vice, comportava i rischi maggiori perché il nostro obiettivo era eliminare gli ufficiali nemici sul ponte una volta svanito l’effetto sorpresa dei siluri. Il grande vantaggio tattico delle cannoniere a vapore consisteva nella silenziosità, mentre le motosiluranti le sentivi da entrambi i lati da miglia e miglia di distanza. Tuttavia la cannoniera era vulnerabile in un punto: bastava un solo proiettile nelle condutture del vapore per danneggiarla e immobilizzarla. Non ne hanno più costruite per questo motivo, credo. Rimasi ferito durante un’azione notturna al largo di Newhaven, e dopo la convalescenza in ospedale mi fu assegnato un lavoro d’ufficio a Weymouth che durò qualche settimana, dopodiché mi congedarono. Tutto questo, me ne resi conto mentre ricordavo, era ottimo materiale per una lettera a Daisy. E c’era la questione se parlare o no di Charley. Ci pensai mentre finivo di riordinare, poi caddi esausto sul letto e mi addormentai senza nemmeno spogliarmi. Riuscii soltanto a pensare, prima di cedere al sonno, che avevo reso felice Charley per un periodo, felice come non lo era mai stata né sarebbe più riuscita a essere dopo di me.
Il mattino dopo spostai la barca. La sponda opposta all’alzaia era costituita da una serie di terrapieni ripidi e scivolosi, coperti di rovi e sovrastati da alberi. Fu complicatissimo risalirci e mi graffiai dappertutto. Avventurarsi di notte giù per quell’argine sarebbe stato pericoloso e sgradevole, pensai. Mentre andavo al cottage ricordai che a quattrocento metri da dove stavo io, dall’altra parte, era ormeggiata una chiatta. Il proprietario possedeva una canoa minuscola che a volte usava per risalire fiumi inaccessibili all’imbarcazione. In quel periodo era via: andava in barca solo d’estate. Se fosse tornato in anticipo avrei visto del fumo uscire dalla ciminiera e gli avrei riportato la canoa con tante scuse, raccontando che l’avevo presa per affrontare un’emergenza. La slegai dal tetto della cabina e risalii il canale pagaiando. Sul lato dell’alzaia crescevano delle canne fittamente raggruppate che potevano tornare utili per nascondere la canoa. In ogni caso avrei portato via le pagaie.
Ora che avevo risolto il problema numero uno, potevo dedicarmi alla questione successiva: cancellare ogni mia traccia dal cottage. Ci volle meno tempo di quanto temessi. Ammonticchiai la legna nel camino e portai fuori la cenere per spargerla in giardino. Era una di quelle splendide giornate che annunciano la primavera. Le primule erano fiorite, insieme ai narcisi. Dovevo ricordare di parlargliene nella lettera. Lavai tazze e piatti e rassettai la cucina, poi salii di sopra per controllare. Le camere sembravano a posto, il bagno necessitava di una ripulita, ma a quel punto quello di scrivere a Daisy era diventato un bisogno imperioso. Sentivo di dover fare ancora qualche passo avanti nell’intimità tra noi prima che tornasse e, mentre andavo di sotto, decisi di scriverla lì nel cottage invece che tornare nella mia squallida casa galleggiante. Accesi il fuoco che avevo preparato con cura e mi ci piazzai davanti con una tazza di Nescafé. Avrei scritto la lettera, l’avrei imbucata al villaggio e ne avrei approfittato per fare la spesa settimanale, perché le provviste scarseggiavano.
Cara Miss Langrish,
grazie per la meravigliosa lettera e la splendida notizia che sta guarendo e presto tornerà a casa! È stata via così tanto e per motivi così sgradevoli che posso ben immaginare il suo sollievo nell’essere finalmente libera. L’unica volta che sono stato in ospedale per un periodo abbastanza lungo (avevo per così dire fermato un proiettile stando sul ponte di una cannoniera, nel 1944) è stato come essere in prigione.
E ci sono i narcisi, «i narcisi che spuntano prima che la rondine compaia, e colorano di bellezza i venti di marzo». Shakespeare1 li evoca molto meglio di Wordsworth, non trova? La prima volta che ho letto Il racconto d’inverno, questo verso mi ha commosso. Forse lei crede che gli uomini non debbano piangere; in tal caso non sono degno di essere definito tale.
Ma torniamo alla primavera. Marzo procede mite come un agnellino. I venti forti sono diventati tiepide brezze, mentre i fiori del biancospino e i salici lungo il canale risplendono del verde luminoso delle nuove gemme. Le primule e le viole sono fiorite così come il ciliegio selvatico (non citerò Housman, ma è evidente come la primavera ispiri i poeti visto come tutto sembra in perenne mutamento).
Oh, che piacere mi dà scriverle! E quante cose vorrei dire oltre a quelle che scrivo in queste lettere. Sono d’accordo con lei sul fatto che immaginiamo di conoscere le persone, e forse persino diventiamo le persone che osserviamo. Ci rendiamo conto della nostra solitudine soprattutto nei momenti di lutto e di perdita. Il paradosso è che non credo che siamo fatti per rimanere da soli. Ci sforziamo così tanto e con tale costanza di stare con gli altri, di diventare parte di qualcosa che sta fuori da noi, che questo bisogno deve per forza avere un’origine naturale. Non so se mi esprimo chiaramente: naturale per me significa istintivo, come lo è l’autoconservazione. La mia loquela è un po’ arrugginita; leggo e cerco di riflettere, ma è da moltissimo tempo che non ho nessuno con cui valga la pena parlare.
Grazie per la comprensione che mostra verso la storia del mio lontano amore. Come dice lei sembra davvero una pièce teatrale, anche se le coincidenze sono più affini alla vita di quanto non lo sia l’arte, non crede? Mi colpisce come gli scrittori debbano sempre faticare per spiegare o razionalizzare una coincidenza allo scopo di impedire al lettore di considerarla una scappatoia della trama. E tuttavia episodi simili fanno parte della vita di ognuno.
È molto gentile a sperare che abbia trovato una persona da sposare, da amare e con cui vivere. Sì, l’ho trovata, ma la nostra felicità è durata poco. Se ci ripenso, mi dico che la durata non è importante; dopotutto ciò che conta è sempre la qualità di un’esperienza.
Devo confessare che mi sono innamorato di una donna sposata. Dico subito che non solo era profondamente infelice quando la conobbi, ma che non era mai stata felice dal giorno del matrimonio. I suoi genitori avevano scelto per lei un uomo ricchissimo. Povera Charley! Era stata una bambina delicata, intimorita principalmente dal padre che aveva aspettative altissime nei suoi confronti. Abitavano in campagna e lui voleva che partecipasse ai concorsi ippici, che giocasse a tennis e che danzasse. Charley doveva anche essere simpatica e remissiva, e soprattutto sposare un uomo abbiente. Era molto timida; mi confessò che trovava difficile, a volte impossibile, entrare in luoghi affollati. Soffriva seriamente di asma e di tremende emicranie che le impedivano di fare ciò che i genitori volevano per lei.
Si sposò a diciott’anni soprattutto per sottrarsi alla tirannia di suo padre.
Mi fermai per riflettere. Volevo evitare qualsiasi effetto drammatico perché questi, come le coincidenze, funzionano solo in piccole dosi. Anche se c’è da dire che le coincidenze rappresentavano lo strumento più economico per raccontare la mia storia in modo conciso e toccante.
Non la annoierò con i dettagli di questa storia lunga e dolorosa. Mi limiterò a dire che Charley scoprì quasi subito il tradimento del marito. Aveva un’amante fissa e dalla moglie si aspettava che badasse alla casa e mettesse al mondo dei figli. Lei, poverina, fallì miseramente come padrona di casa ed ebbe due aborti spontanei, dopodiché i dottori le sconsigliarono ulteriori tentativi. Detestava così tanto la solitudine nella sua casa londinese che si era ridotta a tornare dai genitori nel fine settimana. E fu così che ci incontrammo.
Il marito non volle concederle il divorzio. Quando me lo disse, agii d’istinto: scappammo insieme e per quasi un anno la nostra felicità fu perfetta. Fu in quel periodo che cominciai a progettare giardini e, inaspettatamente, riscossi un certo successo.
Non so come raccontarle il resto della storia. Curiosando tra gli scaffali della sua libreria ho trovato The Constant Nymph di Margaret Kennedy, e per una stranissima coincidenza anche la mia Charley è morta come quella ragazza che cercava di aprire una finestra rimasta incollata al telaio per colpa della vernice. Quasi non riuscivo a crederci: una romanziera aveva descritto esattamente una cosa che era accaduta a me, anzi alla mia povera Charley. In seguito si disse che aveva un difetto a una valvola cardiaca e che sarebbe potuto succedere in qualunque momento. Era sempre stata una creatura fragile e delicata, anche se l’asma e le emicranie erano molto migliorate da quando mi prendevo cura di lei. Aveva sollecitato in me una tenerezza e un desiderio di proteggerla che non credevo di possedere, e mi aveva completamente sedotto e affascinato con tutto l’amore che riversava su di me. Ma quella fu la fine. Chissà come mi sarei sentito se avessi letto quel romanzo di Margaret Kennedy prima che Charley morisse. La coincidenza sarebbe stata una pugnalata al cuore in entrambi i casi.
Devo dirle che in seguito mi sposai, credo più che altro in reazione a quella perdita. Sposai una donna che era interessata soltanto allo status sociale che le garantiva il matrimonio. Ossessionata dalla carriera, mi sminuiva continuamente perché guadagnavo meno di lei. Ci siamo separati quasi due anni fa, quando ho scoperto che aveva un’altra relazione che mi aveva nascosto. Non è stata una tragedia allora e non lo è adesso. Ho commesso un grave errore e l’ho pagato caro, perché mi ha preso la casa, ciò che conteneva e anche il poco denaro che possedevo. I soldi non sono mai stati la cosa più importante per me, ma devo confessare che mi sento scombussolato. Dopo la morte di Charley sapevo che il mio desiderio più grande era avere qualcuno da amare e curare teneramente, e adesso tutto questo mi è negato. Ma so che è così per molte persone, e non voglio che lei pensi che mi considero un caso eccezionale. Credo che in molti passino l’intera vita a soffrire di questa mancanza. Non lo crede anche lei?
Se può, la prego di avvisarmi quando tornerà. Vorrei farle trovare il cottage riscaldato e pronto ad accoglierla. Con la sfortuna che ha avuto, si merita qualche premura. E io voglio dargliela.
Rileggendo questa lettera mi sembra di aver indugiato fin troppo sulle mie vicende. Mi sono confidato, e non lo facevo da molto tempo. Prendo atto di ciò che dice riguardo alle critiche che ci esonerano dal compito di fidarci. Può criticarmi quanto vuole, ma la prego di fidarsi di me. Se sapessi qualcosa in più su di lei le mie lettere sarebbero meno egocentriche. Non riesco a controllare la curiosità, forse impertinente, che nutro nei suoi confronti, ma sappia che è in totale buona fede. Sento che è stata tradita in passato, ma io non la tradirei mai. Ecco, è meglio che la smetta, o finirò per farla arrabbiare.
Con grande cordialità,
Henry K
Ero in apprensione per la lettera, soprattutto dopo averla imbucata. Daisy poteva trovarla troppo invadente e decidere di tagliare i contatti con me. Considerai la possibilità di scrivere un messaggio in cui mi umiliavo e le chiedevo di ignorare la lettera (ovviamente non poteva, quindi in un certo senso non avevo nulla da perdere), ma poi decisi di non farlo. Ritirai i soldi, feci la spesa e tornai alla barca.
La prima metà di aprile passò senza eventi degni di nota. Ripulii la cabina finché non ne potei più e lavorai in giardino, rimandando le operazioni più faticose a dopo il suo ritorno, così avrei avuto una scusa valida per frequentare il cottage. Lessi anche due dei suoi lavori teatrali. La risposta non arrivava e cominciai a temere di essermi davvero preso troppe libertà. Avevo tenuto copia delle mie lettere perché non volevo rischiare di scivolare su qualche particolare. Pensavo continuamente a lei. Le commedie mi fornirono qualche dettaglio in più su Daisy – molto meno del diario, ovvio – ma dovetti riconsiderare e correggere la mia idea che i romanzieri rivelino se stessi nei loro scritti: è arduo distinguere il genuino svelamento di sé dal mestiere, dall’arte o da tutto ciò che è funzionale all’intreccio e alla costruzione dei personaggi. Tuttavia notai una sorta di disillusione romantica, quasi una reazione all’essere vittima di un femminismo militante ma approssimativo. E scoprii che Daisy sapeva essere molto divertente, cosa che non mi sarei mai aspettato. Lessi soltanto due commedie per il teatro perché c’erano solo quelle: gran parte dei dattiloscritti non erano altro che prime stesure e altre versioni di quelle due. Una riguardava il conflitto della protagonista tra carriera e matrimonio, e l’aspetto interessante era il modo in cui presentava le varie scelte e poi le metteva in pratica. Le conseguenze della scelta venivano mostrate nella scena successiva e alla fine il serpente si mordeva la coda. L’altra era una pièce drammatica più cupa, basata sul mito di Orfeo ed Euridice, ambientata però all’inizio del Novecento. Nonostante contenesse rivendicazioni femministe, a un livello ulteriore parlava di come ogni relazione debba fare i conti con l’incompatibilità dei desideri. Era un dramma sulla radicale mancanza di fiducia, e per questo la trovai molto interessante.
Man mano che cresceva in me l’ansia per la lettera, scrissi una serie di messaggi, ma qualcosa mi diceva di non spedirglieli, mi rendevo conto che proseguendo su quella china avrei solo peggiorato le cose.
Poi, un mattino, mentre sfruttavo una pausa tra un acquazzone e l’altro per disporre sul terreno alcune lastre di arenaria in modo da capire se sarebbero bastate per creare un sentiero fino alla porta, sentii il rumore di un’auto che si avvicinava. Da come rallentava capii che era diretta al cottage. Per un istante pensai che fosse Daisy, ma non con la sua macchina. Resistetti alla tentazione di alzarmi per dare un’occhiata, giudicando che farmi vedere concentrato sul lavoro avrebbe dato un’impressione migliore.
L’auto si fermò, la portiera sbatté e qualcuno fece scorrere il nottolino del cancello. Mi tirai su; dopotutto ero il custode.
Non era Daisy.
«Lei deve essere Henry Kent», disse una voce che riconobbi.
«E lei è Mrs Moreland».
«Come fa a saperlo?».
L’avevo riconosciuta al primo sguardo, dalle foto. Era una donna ancora giovane, con una folta chioma scura raccolta in una serie di ciocche attorcigliate sulla nuca, la fronte libera, occhi verdi e bocca larga che prendeva una piega molto attraente quando rideva. «Ho riconosciuto la sua voce dalla nostra conversazione al telefono».
«Ho guidato per ore. C’è qualcosa di caldo da bere?».
«Credo ci sia del Nescafé».
«Ottimo! Me lo faccio da sola, non si disturbi. Ho la chiave».
«La porta è già aperta. Ho arieggiato la casa perché non ha la guaina di impermeabilizzazione».
Entrò senza dire niente. Chissà come si era procurata la chiave.
«Vuole anche lei un caffè?», gridò dalla cucina.
«Sì, grazie».
La raggiunsi in cucina. Stava guardando i resti del mio pranzo sul tavolo.
«Di solito mangio in casa quando lavoro in giardino, perché o fa troppo freddo o piove». Non vedevo l’ora di farle la domanda che mi stava a cuore, ma qualcosa mi metteva in guardia dal mostrarmi troppo impaziente di sapere. Così aspettai finché non fummo seduti a tavola intenti a mescolare il caffè bollente, e le chiesi come stava sua madre.
«Non saprei di preciso. Ha fatto sapere alla sua agente che non appena arriva vuole venire qui, così Miss Blackstone mi ha chiesto di venire a dare un’occhiata perché lei questa settimana non può. Mia madre non è una donna con un grande senso pratico. Anna dice che ha ancora difficoltà a muoversi, quindi dovrei controllare le scale e il bagno per capire se può farcela da sola. Quanto distano i negozi? Non so se è in grado di guidare, e ovviamente non può fare su e giù con le sporte della spesa. Immagino ci siano dei taxi?».
«Potrei farle da autista».
Mi guardò con occhio critico.
«Forza, mi giudichi». Era evidente che lo stava facendo, e non volevo che la cosa prendesse una piega troppo seria. «Ho sessantacinque anni, abito su una barca che custodisco per conto di amici, per un periodo limitato. Quando vado al villaggio passo sempre accanto al cottage. Un giorno ho visto che ci si era trasferito qualcuno, così ho chiesto a sua madre se le serviva un giardiniere. Tutto qui. Poi, siccome è stata lontana a lungo mi ha chiesto se potevo arieggiarle il cottage. Ammiro molto sua madre, mi interessano gli scrittori e non posso dire di averne conosciuti tanti nella mia vita. Quello che conosco bene sono i giardini e la letteratura».
La osservavo mentre ascoltava. Fissarla non mi costava fatica, anzi, trovo che guardare le persone negli occhi funzioni molto bene: per loro è rassicurante e per me è un ottimo indicatore di come accolgono la mia presenza.
Aveva un viso molto espressivo. Riuscivo a vedere le domande che si formavano nella sua testa un attimo prima che le formulasse.
«Sì, sono stato sposato... cioè sto cercando di divorziare, ma mia moglie occupa la mia casa e spende i miei soldi, perciò non ha fretta. In fondo me lo merito: mi ha sposato per ciò che possedevo e non per ciò che sono».
«Oh», commentò. «Mi dispiace».
«Non è un problema suo. Sto bene così. Non ho grandi esigenze, e i soldi che ricevo da sua madre mi aiutano ad andare avanti».
«È cresciuto nella West Country?».
«Ha l’orecchio fino».
«Dove?».
«Nel Wiltshire. Dopo la guerra trovai lavoro nel Kent».
Rimanemmo in silenzio. «Mi sembra un colloquio di lavoro».
«Forse lo è». Spinse indietro la sedia e si alzò. «Vado a dare un’occhiata di sopra».
Lavai le tazze e, senza pensarci, mi accesi una sigaretta. È meglio se la fumo fuori, pensai. Qualcosa mi diceva che Katya non era una fumatrice. Il sentiero stava venendo bene. Forse il proprietario precedente aveva comprato le lastre di pietra proprio per fare quel lavoro.
Non somigliava per niente a sua madre, né nell’aspetto fisico né nel carattere. Quando era arrivata indossava un montgomery, che aveva subito tolto rivelando una camicia a quadri con tasche sul petto (generoso) e una gonna a ruota stretta in vita da una cintura. Era facile immaginarla senza vestiti, e devo ammettere che è un gioco che faccio spesso. A prescindere dal fremito erotico o d’altro genere che può darmi questa pratica, trovo che a volte sia anche utile per capire le persone. Era importante che piacessi a Katya, o che si fidasse abbastanza da considerarmi sotto una luce favorevole.
«Mr Kent!».
Era seduta sul bracciolo del divano e frugava nella borsetta.
«La casa va bene, ma bisognerebbe occuparsi di un paio di questioni. Potrei fare una lista di cose che servono e lei potrebbe cercare un operaio o un tuttofare. È abbastanza urgente, perché mia madre potrebbe tornare a breve».
«Mi dica cosa le serve. Forse posso occuparmene io stesso».
Bisognava installare un corrimano per le scale. «Sono molto ripide, le servirà qualcosa a cui tenersi». Stesso discorso per il bagno, dove servivano delle maniglie per entrare e uscire dalla vasca. «E credo che potrebbe essere utile mettere un telefono in camera».
Non ero capace di installare la linea telefonica, ma potevo occuparmi senza problemi del corrimano e delle maniglie. Peccato che il negozio di fai da te più vicino fosse a una quindicina di chilometri.
«Possiamo andarci con la mia macchina e comprare il materiale già oggi, ma dobbiamo partire subito, perché poi devo tornare a casa».
Dissi che mi andava bene. Chiudemmo il cottage e partimmo.
Aveva una vecchia Volvo scassata, con i sedili posteriori ingombri di vestiti, giocattoli e cianfrusaglie da bambini. Guidava bene.
«Non abbiamo misurato la lunghezza delle scale».
«Ci ho pensato io».
«Lei è un uomo molto pratico. Una dote che apprezzo».
«Lo sono solo quando si tratta degli altri. Di mio perdo sempre tutto, dimentico le cose...».
Rimanemmo a lungo in silenzio. «Mia madre ha bisogno di qualcuno che si occupi di lei. Non ha nessuno tranne Anna, che però non sempre ha tempo. Lei si considera una persona pratica e realista, ma non lo è affatto».
«Mi sembra una figlia coscienziosa».
«Oh, no!», esclamò, poi soggiunse: «Sono più brava a dire cosa è bene per lei che a metterlo in pratica con lei».
Non sembrava in vena di parlare, così mi limitai a darle indicazioni sul percorso.
Comprammo il corrimano, le viti e il resto, poi disse che voleva fare un po’ di spesa per sua madre. «C’è un frigo, giusto? Funziona?».
«Credo di sì».
Al supermercato comprò un sacco di roba. Cacao, tè, cioccolata solubile – «La mamma va pazza per la cioccolata» –, burro, salame e prosciutto affettati, uova, bacon – «Se non torna entro una settimana, li mangi pure lei» –, cipolle, aglio, conserva di pomodori, sardine, acciughe, spaghetti, riso, muesli, miele e marmellata di amarene – «Mio padre la adorava, ce l’avevamo sempre in dispensa quando ero piccola» –, carta igienica e detersivi e sei bottiglie di vino rosso – «Beve solo vino, e bianco non le piace» –, tre barrette di cioccolato extrafondente e qualche lampadina – «Quella dell’abat-jour in camera non funziona». Prese anche due tramezzini con le uova e delle arance. «Faccio uno spuntino veloce prima di ripartire», disse. Tornammo a casa e scaricammo la spesa. «Mentre mangia vado alla barca per prendere gli attrezzi», dissi.
«Non è urgente. Mangi qualcosa con me, prima».
Così ci sedemmo di nuovo a tavola, e Katya preparò il tè. Il mio tramezzino era farcito con carne in scatola. Chiamò la compagnia telefonica e prese un appuntamento per estendere la linea fino in camera da letto. Le assicurai che il giorno dell’appuntamento con i tecnici non mi sarei allontanato dal cottage. A quel punto era a suo agio con me e provava un’intensa curiosità. Mi sottopose a un fuoco di fila di domande sul mio lavoro, presente e passato. Le dissi che progettavo giardini.
«E dove ha imparato?».
«Da ragazzo ho lavorato in una grande tenuta dove avevano ogni genere di giardino immaginabile: serre calde, un laghetto con piante acquatiche, un orto recintato, bordure, aiuole, frutteti, boschetti, di tutto, insomma».
«Ha l’aria di essere Rackham».
Rimasi sbalordito. «Come fa a saperlo?».
Fece spallucce. «Ho tirato a indovinare. Non ne sono rimasti tanti di posti come quello, giusto? Pare sia in rovina. Il National Trust non ha voluto occuparsene perché la villa in realtà è abbastanza grottesca. Immensa ma priva di pregi architettonici, dice Edwin, che si interessa a queste cose. E poi mi diceva che ha vissuto nel Kent...».
«Sì, in un’altra tenuta immensa, ma i proprietari avevano abbastanza soldi per mantenerla».
«Dove si trova?».
«Poco distante da Sevenoaks. Non si tratta di Knole, però. Credo che non ne abbia mai sentito parlare perché era più piccola e piuttosto comune».
«Ma se ha appena detto che era immensa».
«A confronto con Rackham tutto è piccolo. E adesso tocca a me?».
«Per fare cosa?».
«Domande».
Sembrò sorpresa, poi sorrise in modo consapevole e civettuolo. «Perché no? Mi sembra giusto».
E così, nel poco tempo rimasto prima che partisse, raccolsi qualche informazione su di lei. Non le piaceva abitare in campagna, e la vacanza in Bretagna che faceva ogni anno con la famiglia non soddisfaceva il suo desiderio di viaggi. Ne dedussi che il rapporto con il marito attraversasse un momento difficile, si sentiva isolata e incerta quanto a cosa fare della sua vita.
«In campagna si possono fare soltanto dei lavoretti... io voglio una carriera». Poi aveva detto: «Non sono creativa come mia madre, altrimenti me ne starei in casa a dipingere, per esempio. È fortunatissima ad avere questo dono. Anche se per il resto devo dire che la fortuna non l’ha assistita».
«Cosa vuole dire?».
«Be’, è mio padre, ma ora mi rendo conto che non deve essere stato facile viverci insieme. Anzi, deve essere stato faticoso da morire. Si innamora di una e subito dopo si innamora di un’altra. La sua ultima fidanzata ha dieci anni meno di me. E poi beve troppo e non ha mai il becco di un quattrino. La sua vita sembra una brutta sceneggiatura per un bravo attore, se capisce cosa voglio dire. Mia madre ha dovuto lasciarlo; ora lo capisco, anche se all’epoca l’ho odiata per questo».
«In seguito ha sposato un attore, vero?».
«Esatto. Sapevo fin dall’inizio che era uno stronzo, ma lei si fidava, credeva che fosse la storia più romantica della sua vita. Non appena è diventato famoso l’ha mollata e si è messo con Marietta Reed, l’attrice. La conosce?».
«Sì. Deve essere stato un periodo difficile per lei».
«Decisamente. Quando l’ha lasciata, mia madre aveva cinquant’anni e le sembrò che la sua vita fosse finita. In un certo senso è stato così... alla sua età non ci si aspetta certo di trovare un altro».
«Lo crede davvero?».
«Ovviamente vale per le donne, non per gli uomini. Gli uomini hanno più possibilità; le donne invece devono combattere contro le più giovani che cercano uomini più grandi». Mi fissò con un’espressione cinica che si addiceva perfettamente ai suoi occhi verde chiaro. «Scommetto che se volesse...».
«Cosa?».
«Potrebbe sedurre una ragazza. Ma non funziona a parti invertite».
«Cleopatra era molto più grande di Antonio».
«Be’, ci sono sempre le eccezioni che confermano la regola», disse in tono frivolo, come se le eccezioni esistessero solo per essere respinte.
Poi dichiarò che doveva proprio partire. L’accompagnai alla macchina.
«Gliel’ha chiesto lei di posare un lastricato?».
«No, mi ha chiesto soltanto di curare il giardino. Ho trovato le lastre in garage, erano state acquistate per questo, immagino».
«Be’, si dà da fare».
«Grazie. Risultare gradito è uno dei miei obiettivi».
«Devo dire che le riesce davvero bene».
«Mi farà sapere quando torna sua madre?».
«Se me lo dice, sì. Come faccio a comunicare con lei?».
«Se dicessi che mi troverà al cottage ogni mattina tra le undici e mezzogiorno, potrebbe telefonarmi?».
«Va bene. Grazie per tutto ciò che fa. Non dimentichi l’appuntamento con i tecnici del telefono. Non mi piace sapere che mia madre è sola in casa senza un telefono accanto al letto».
«Non lo dimenticherò».
Mi sembrò incerta su come congedarsi, ma quando ebbe trovato le chiavi dell’auto mi tese la mano. La afferrai, la avvicinai alle labbra, guardai Katya negli occhi e la baciai.
«Santo cielo, che gesto barocco!».
«Sono proprio così: barocco».
Rientrai quando il rumore dell’auto fu svanito del tutto. Per un po’ rimasi seduto al tavolo in cucina a pensare a Daisy, alla prima volta che l’avevo vista, in impermeabile e stivali, con quel cappello maschile che nascondeva i suoi bellissimi capelli. Rivissi l’eccitazione iniziale, la prima volta che avevo posato il mio sguardo indagatore su quel volto elisabettiano. Il giorno dopo avevo acceso il fuoco per lei mentre faceva avanti e indietro tra la cucina e il soggiorno per preparare e servire il tè. Il vassoio sul cuscino ricamato, la sua voce argentina, il momento in cui si era tolta il cappello. Finiti i ricordi, mi diedi da fare con la fantasia. Nella realtà, quando il fuoco ormai scaldava la stanza, si era tolta la giacchetta ricamata con i papaveri; nella mia immaginazione le tolsi anche il dolcevita nero a collo alto, mentre lei, ubbidiente, teneva le braccia alzate per aiutarmi a sfilarlo. Questo era il momento in cui non bisognava avere fretta, e la pazienza veniva sempre premiata. Non le avrei abbassato le spalline della sottoveste, né avrei cercato di sganciarle il reggiseno: invece le avrei fatto dolcissimi complimenti, dicendole quanto era bella; le avrei baciato le mani, le avrei dichiarato il mio amore in toni così protettivi e teneri che si sarebbe sentita rassicurata. Il desiderio carnale sarebbe rimasto nascosto dietro la fervente adorazione. Mai e poi mai l’avrei ferita o tradita, questo le avrei detto, e lei si sarebbe sentita apprezzata e al sicuro con me, e libera di lasciarsi andare.
Forse dovrei puntualizzare che le manovre di seduzione variano a seconda del carattere di ogni donna. Ci sono donne che devono essere pungolate per provare desiderio e altre che rispondono solo a dimostrazioni quasi brutali di libidine; altre ancora vogliono semplicemente conferme della loro capacità di attrarre i maschi. La mia Daisy era diversa. Quel che avevo letto di lei, i dettagli che Katya mi aveva appena svelato, la mia prima impressione, tutto confermava un carattere gentile incattivito dal tradimento. L’idea che l’avrei domata, che infine avrebbe capitolato, era intensamente erotica. Intuii che mi sarebbe toccato accontentarmi di semplici fantasie per un periodo di tempo indefinito. Ma le fantasie sono un grande conforto, oltre che uno scudo protettivo e una forma di potere.
Prima di sparecchiare presi qualche appunto di ciò che mi aveva detto Katya, e ripensandoci, anche di quello che le avevo raccontato di me. Non avevo detto poi molto, ma certo era inquietante che fosse arrivata a Rackham così velocemente. Riflettei. Alla villa non c’era più nessuno che avesse sentito parlare di me: mio padre era morto qualche anno prima; Daphne era sicuramente sposata con un elegantone un po’ tonto; e sua signoria non avrebbe mai rivelato a nessuno quello che mi aveva detto quel giorno. Ciononostante era stato stupido da parte mia rispondere alle domande di Katya Moreland in modo così sconsiderato, anche se un mio silenzio sarebbe sembrato strano.
Lavorai al sentiero ancora per un po’, dopo mi preparai un’ottima cena a base di uova e bacon. La tentazione di aprire un rosso fu fortissima, ma mi trattenne il fatto che nessuno regala bottiglie di vino in numero dispari, e io non potevo permettermi di ricomprarlo.
Ancora una settimana, pensai prima di addormentarmi. Non mancherà più di una settimana.
1 «Daffodils, that come before the swallow dares and take the winds of March with beauty», W. Shakesperare, Il racconto d’inverno, atto IV, scena IV, in Tutte le opere, vol. 4, trad. it. di F. Marenco, Bompiani, Milano, 2019, p. 1391.