1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Zuccarello, distinto melodista, su «La Grande Illustrazione» di Pescara nel dicembre del 1914, e fu ristampata tre anni più tardi nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves, 1917). Il 1° febbraio 1926 fu ripubblicata su «Le grandi firme» ed estrosamente datata in calce «In treno, dicembre ’25» (v. GAB, p. 57 e SFP, pp. 22 e 106-8); e l’identico piccolo escamotage della nuova data rinvia all’analoga vicenda di Come gemelle (v. n. 1). Con il titolo attuale venne infine inclusa nel tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad, 1928), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese.
2 Questa fondamentale peripezia della vita di Perazzetti è stata raccontata nella novella del 1910 Non è una cosa seria, della quale viene qui ripreso precisamente l’explicit: «Conclusione: / Perazzetti aveva sposato per guardarsi dal pericolo di prendere moglie» (IV 73).
3 V. Non è una cosa seria IV 67: «Le diceva serio serio, che non pareva nemmeno lui, guardandosi le unghie adunche lunghissime, di cui aveva la cura più meticolosa».
4 Il celebre episodio proviene da una delle manipolazioni e aggiunte di altra mano al fortunato libretto di Rudolf Erich Raspe (1737-1794), Baron Munchausen’s Narrative of his Marvellous Travels and Campaigns in Russia, stampato originariamente a Oxford nel 1785. La prima e più nota traduzione-rifacimento del racconto di Raspe è posteriore di due anni, e si deve al romantico tedesco Gottfried Bürger. L’episodio cui allude Perazzetti è il seguente: «Un’altra volta mi andò bene per miracolo. Volli saltare un fossato piuttosto largo. Presi lo slancio e via! Ma a mezza strada mi accorsi che avevo fatto male i miei conti e che il fossato era più largo di quello che avevo creduto. Voltai briglia e tornai indietro per prendere più campo. Mi slanciai di nuovo... ma anche questa volta calcolai male la larghezza di quel maledetto fossato e ci sprofondai dentro fino al collo, io e il mio povero Lituano! Mi salvò la mia destrezza e la mia sovrumana energia: afferrai il mio codino e mi tirai su. Proprio così, amici: con la sola forza del mio braccio destro, a rischio di strapparmi il codino, mi tirai su, me e il mio cavallo che stringevo saldamente fra le ginocchia (il Lituano faceva del suo meglio per aiutarmi a sollevarci): tirai, tirai, e finalmente sentii la terra sotto i piedi. Intendo, sotto le zampe del cavallo. E questo vi dimostra l’importanza d’un codino ben fatto e robusto» (v. R. E. RASPE e G. BÜRGER, Il Barone di Münchhausen, trad. ital. di Elda Bossi, Firenze, Giunti, 1994, p. 33).
5 Diceva già don Cosmo Laurentano, ne I vecchi e i giovani: «Vi giuro che non so, in certi momentl, se sono più pazzo io che non ci capisco nulla o quelli che credono sul serio di capirci qualche cosa e parlano e si muovono, come se avessero veramente un qualche scopo davanti a loro, il quale poi, raggiunto, non dovesse a loro stessi apparir vano» (v. RII, p. 156).
6 Già in Non è una cosa seria (v. IV 68), Pirandello aveva ripreso in termini narrativi esplicitamente umoristici un passo dell’Umorismo nel quale alcune osservazioni di ordine etico di Giovanni Marchesini erano state piegate a far da sostegno alla sua teoria della scomposizione e della disaggregazione umoristica. Anche questa seconda avventura di Perazzetti trae spunto da una manipolazione umoristica delle considerazioni del Marchesini sull’assoluto morale e sulla perfezione della morale, considerazioni che nel saggio del pedagogista-filosofo padovano susseguono del resto immediatamente a quelle sullo scontro fra l’anima morale e l’anima istintiva che avevano suggerito a Perazzetti l’idea dell’antro della bestia. Scrive Marchesini: «Perché la morale vissuta o praticata fosse perfetta, non dovrebbe contenere alcun elemento spurio, o negativo. [...] Ora se si considera che elementi eterogenei e discordanti dalla vera morale, ideale, sussistono e s’introducono inevitabilmente nella coscienza di chiunque, non può parere arbitrio il ripetere l’affermazione che non si dia veramente, né sia possibile, l’uomo morale, perfetto. [...] La coscienza della superiorità e inattingibilità completa di questo [l’«ideale etico supremo»], è pur coscienza e valore positivo morale, quale non sarebbe invece la persuasione stolta di averlo completamente raggiunto» (v. G. MARCHESINI, Le finzioni dell’anima. Saggio di Etica pedagogica, Bari, Laterza, 1905, pp. 61-2). Come d’altronde già nell’Umorismo, l’uso della fonte è largamente arbitrario: Perazzetti non parla, come invece Marchesini, di «morale assoluta», ma di un fine che finisce con l’assolutizzarsi in perfetta illusione di realtà e che, d’un tratto svuotandosi, fa venir meno ogni rassicurante senso di realtà; non parla dell’inattuabilità della perfezione morale e discorre invece, molto più pirandellianamente e malinconicamente, dell’inattingibilità e vanità di ogni fine. Nonostante questa deriva, l’assoluto e la perfezione restano l’esca che attira Perazzetti alla sua avventura sotterranea e notturna.
7 Analoga e recente era stata la formulazione del motivo in Un ritratto (v. p. 118): «Sono convinto che non c’è altra realtà fuori delle illusioni che il sentimento ci crea. Se un sentimento cangia all’improvviso, crolla l’illusione e con essa quella realtà in cui vivevamo, e allora ci vediamo subito sperduti nel vuoto». Ma analogamente convinto della vanità d’ogni fine e della labilità della ragione era quello stralunato barone di Münchhausen che è don Cosmo Laurentano ne I vecchi e i giovani, il romanzo pubblicato in volume nel 1913. Sollecitato durante la cena dal pragmatismo padronale cinico di Flaminio Salvo che, dinanzi agli scioperi dei fasci operai nelle sue zolfare, aveva detto: «Hanno ragione; ma la loro ragione è qua!», e s’era toccato il ventre; don Cosmo aveva risposto sospirando: «– La vita! [...] A pensarci bene... Lo zolfo, sicuro... le industrie... questa tovaglia qua, damascata, questo bicchiere arrotato... il lume di bronzo... tutte queste minchionerie sulla tavola... e per casa... e per le strade... piroscafi sul mare, ferrovie, palloni per aria... Siamo pazzi, parola d’onore!... Sì, servono, servono per riempire in qualche modo questa minchioneria massima che chiamiamo vita, per darle una certa apparenza, una certa consistenza... Mah! Vi giuro che non so, in certi momenti, se sono più pazzo io che non ci capisco nulla o quelli che credono sul serio di capirci qualche cosa e parlano e si muovono, come se avessero veramente un qualche scopo davanti a loro, il quale poi, raggiunto, non dovesse a loro stessi apparir vano. Io comincerei, signor mio, dal rompere questo bicchiere. Poi butterei giù la casa... Ricominciando daccapo, chi sa!... Voi dite che quei disgraziati la ragione l’hanno qua? Beati loro, signor mio! E guaj se si saziano... Dove l’avete più voi, la ragione? Dove l’ho più io?» (v. RII, pp. 155-6).
8 Altrimenti contestualizzata, la domanda autoironica echeggia quella di Adriano Meis ne Il fu Mattia Pascal: «Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. [...] Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affisarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia. / Chi era più ombra di noi due? io o lei?» (v. RI, p. 523). Interrogativo che risente in parte dei fumi teosofici del Leadbeater, ma che contiene forse anche un’eco del Peter Schlemihl di Chamisso.
9 Archi a sesto ribassato. Ma «scosciati» (essendo la scosciata una divaricazione estrema delle gambe) va naturalmente a far sistema e ridondanza con «oscenamente», «sfacciataggine», «sguajati», «sconce», contribuendo a costituire l’invereconda incongruità del caffè-necropoli.
10 Boccale (v. Berecche e la guerra, n. 6).
11 Impietrito.
12 Gettando lampi.
13 Come si vede, per quanto declinati umoristicamente fin quasi al grottesco, l’assoluto e la perfezione sono i valori intorno ai quali ruota il racconto. Prima ancora di vedere lo sconosciuto cantante, Perazzetti s’era detto certo che «questo signor Zuccarello, il quale si qualificava da sé con dolce probità distinto melodista, doveva aver raggiunto l’assoluto» (pp. 162-3). Vedutolo e ascoltatolo, lo giudica perfetto. Il Marchesini non avrebbe mai immaginato di poter diventare di fatto il responsabile della assoluta perfezione di Zuccarello quando, di seguito a quanto riportato alla n. 6, aveva scritto: «La morale dunque è finzione se la si fa consistere nel pieno possesso della idealità assoluta morale, o nella perfezione. Ciascuno è morale secondo la propria natura, e condizionatamente a questa, per i motivi che sono in essa, per le inclinazioni particolari ad essa consentanee, e nei modi cui comportano le innumerevoli e svariatissime combinazioni degli elementi del suo divenire psichico. Non esistono due uomini che possano ritenersi moralmente identici, come non esistono uomini identici fisicamente e psicologicamente. Il tipo ideale della sapienza, dell’assoluta bontà, della piena virtù, è un oggetto indistinto della fantasia; non è il distinto etico umano. / La perfezione, se fosse un concetto positivamente valutabile, sarebbe in ciascuno in quanto la sua coscienza morale (negativa e positiva) risponde pienamente alle condizioni da cui è emersa e dalle quali è determinata, e tutti sarebbero da questo punto di vista uomini moralmente perfetti. Abbandonata questa specie di perfezione, si dovrà inferire che è una finzione il supporre che l’uomo per essere morale debba essere moralmente perfetto, o riprodurre in sé un modello universale e identico che si supponga esistere impersonalmente, e che egli possa veramente tradurre in sé spogliandosi affatto degli elementi differenziali della personalità sua. La moralità di un uomo è sempre l’esponente delle accidentalità statiche e dinamiche (per così esprimerci) del suo io; e se un grado di bontà morale è possibile, questo risulta necessariamente dalla limitazione inerente al modo concreto dell’essere e del divenire intimo, personale» (v. G. MARCHESINI, Le finzioni dell’anima, cit., pp. 62-3). Eppure, proprio dalla rilettura umoristica, e deliberatamente deformante, di questa pagina scaturiscono, per paradosso, l’assoluta perfezione e gli attributi divini, ancorché minimi, di Zuccarello, «dio vero del suo mondo qual è». Là dove Marchesini dice che «ciascuno è morale secondo la propria natura» ecc., Pirandello (e per lui Perazzetti) legge che ciascuno è perfetto secondo la propria natura. Là dove Marchesini esclude la possibilità della individuale perfezione, in quanto invalutabile, Perazzetti sostiene invece che la perfezione è in ciascuno «in quanto la sua coscienza morale (negativa o positiva) risponde pienamente alle condizioni da cui è emersa e dalle quali è determinata», e constata sul campo la perfezione di Zuccarello in quanto capace di trovare il punto giusto in cui inserire «il piccolo seme divino che è in tutti» e che di lui ha fatto il padrone d’un mondo: «tanto e non più» è la divisa che lo contraddistingue e che fa di lui, «distinto melodista», «il distinto etico umano» incarnato. Certo Zuccarello è un totem ctonio, un minimo nume infero e notturno; ma non si deve dimenticare che Perazzetti è disceso ad incontrarlo lasciando un mondo apocalittico dove, come egli stesso dice, «pareva che la gente, tutta quanta impazzita come me, andasse in tumulto, e che i campanelli dei tram, le trombe delle automobili chiamassero ajuto».
14 Sia il «caffè notturno», nominato così per la seconda volta, sia l’ombra squallida e fedele che segue Zuccarello anticipano, nonostante l’incomparabilità delle due contestualizzazioni narrative, l’ambientazione e l’analogo motivo de La morte addosso (v. p. 373), non per caso intitolata, sia nella prima stampa del 1918 che in quella dell’anno dopo, Caffè notturno.
1 Fu pubblicata per la prima volta nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini, 1914). Nel 1920 venne ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che recupera sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Nel 1924 venne infine inclusa nel settimo volume delle «novelle per un anno», Tutt’e tre (Firenze, Bemporad).
2 Nel Nuovo vocabolario italiano domestico (Milano, 1869) di Giacinto Carena si legge: «‘Calza’, strisciolina di panno di un determinato colore, che le donne cuciono attorno a una delle gambe de’ loro polli vaganti, per contrassegnarli e distinguerli da altri». V. anche Benedizione n. 11.
3 Scoloriti e flosci (essendo i bargigli le appendici carnose, rosse, che pendono sotto il becco dei gallinacei e sono più sviluppati nei maschi che nelle femmine).
4 La questione della logica della natura, e della sua economia qui data scontatamente e umoristicamente per santa, era entrata nel 1907 nella serrata diatriba che opponeva il professor Vernoni e il senatore Reda nella prima stampa di Dal naso al cielo: «– Ma anche guardando in giù, scusi... la talpa, signor professore: guardiamo la talpa e seguiamo la logica della natura... / Il senatore Romualdo Reda, sentendo nominar la natura, s’inquietava sul serio: scattava, battendo ambo le mani su i braccioli: / – Ma via! ma mi faccia il piacere! ma la sua logica, caro Vernoni! Tanto per ridere... Lasciamo star la natura, per carità! / – Scusi, scusi, scusi, – s’affrettava allora a spiegare il Vernoni, ponendo avanti le mani. – Che la natura abbia una logica, si può forse mettere in dubbio? Ma ne abbiamo una prova lampantissima, scusi, nella sua economia... Mi lasci dire, illustrissimo signor professore! La talpa... Perché la talpa ha così debole l’organo visivo? Ma perché deve star sotterra, è chiaro!» (v. NUAII, p. 1168).
5 Il frutto del carrubo, fatto seccare, ha l’aspetto d’un legume, piatto e liscio, di colore marrone.
6 V. L’esclusa, in RI, p. 147: «A sinistra, accostata al muro, esteriormente sorgeva la scala in due brevi branche molto agevoli. Questa scala a collo, in quella corte [...]».
7 Vecchia moneta borbonica che, ancora intorno al 1870, in Sicilia corrispondeva ad un controvalore di 12,75 lire. V. Ravanà (tra una messa e l’altra) n. 28.
8 «Moneta d’argento e rame fatta coniare da Ferdinando I d’Aragona per il Regno delle due Sicilie, che equivaleva idealmente la 600a parte dell’oncia d’oro» (GDLI).
9 I tarì furono originariamente delle monete auree arabe come il loro nome, il quale passò però in seguito a designare varie monete coniate da Normanni e Aragonesi (il tarì d’argento aragonese valeva due carlini) ed anche il doppio carlino del Regno di Napoli, e sopravvisse nell’uso popolare siciliano.
10 Sottinteso: i pidocchi.
11 Filaccia grossolana che si ottiene dalla prima pettinatura del lino o della canapa.
12 Zeccola deriva da zecca (nome del fastidioso acaro parassita), ma designa la «lappola o pagliuzza che rimane impigliata nel pelo degli animali e spec. nel vello delle pecore» (Devoto-Oli).
13 Leggermente sporgenti (v. Tra due ombre, n. 5).
14 Facendo brillare, rifulgere.
15 Corona di piume intorno al collare.
16 In attesa.
17 V. La levata del sole, n. 25.
18 In possesso di tutti i suoi requisiti.
19 Cittadina siciliana dell’interno, a una quarantina di chilometri da Licata, in direzione nord.
20 Orli dentellati come merletti.
21 Attive, prolifiche (v. Le sorprese della scienza, n. 4).
22 Tappo.
23 Rassicurato.
24 Bargigli (si veda sopra la n. 3).
25 Rimase sbalordito.
26 Zitta zitta. V. anche La fedeltà del cane II 416.
27 Svelta svelta, di furia.
28 “Mordi il ditino” vuole essere la risposta che smaschera la finta ingenuità di chi fa l’innocente, lo gnorri (mozzica è un meridionalismo per mordi, morsica). V. L’uscita del vedovo, n. 8.
29 Tappato. Propriamente, zaffare significa “turare con uno zaffo”, ossia con un particolare tappo o tampone.
30 Cardini.
31 Per la medesima immagine, adibita però a connotare tutt’altro animale e tutt’altro umore, v. Il capretto nero IV 504: «un grazioso capretto nero, nato da pochi giorni, [...] tra le capre sdrajate springava qua e là come se per aria attorno gli danzassero tanti moscerini di luce».
32 La scena finale mima un tutti in scena conclusivo da farsa. Nell’insieme, l’arguto narratore della novelletta paesana intreccia e mescola, come altre volte, all’insaputa degli uomini e delle bestie, storie di bestie e storie di uomini, racconta comportamenti e bisogni umani molto animaleschi e bisogni e comportamenti animali quasi umani. Le due donne, mangiamariti l’una e disperatamente zitella l’altra, sono galline rissose e maligne, ma non immaginano la vicenda dei due galli e delle dieci gallinelle, così come questi non intendono affatto le beghe fra donne e così come il bel gallo vincitore, scortato dalle sue spose, non sospetta d’essere trionfalmente avviato a nutrirsi di sterco. Nel vicolo scosceso e miserabile le due vicende, diversamente fameliche e rabbiose, corrono parallele e grottescamente omologhe. Lo vedono bene il narratore e il lettore; i protagonisti lo ignorano.
1 La vicenda editoriale del lungo e composito racconto è, non meno di quella scrittoria, frammentata e complicata. I due primi capitoli, La birreria e Di sera, per via, vennero pubblicati per la prima volta, con il sottotitolo comune Un’altra vita, sulla «Rassegna contemporanea» il 25 settembre 1914. La guerra sulla carta, La guerra in famiglia e La guerra nel mondo (col titolo comune La piccola e la grande storia), insieme a Berecche ragiona e Nel bujo (col titolo comune Nel bujo), vennero stampati, di seguito a Un’altra vita, come seconda e terza parte della novella, nella raccolta Erba del nostro orto (Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915). Il racconto nella sua interezza venne ripubblicato nel 1919 nella raccolta Berecche e la guerra (Milano, Facchi), nella quale apparve, come racconto a se stante, anche il Frammento di cronaca di Marco Leccio e della sua guerra sulla carta nel tempo della grande guerra europea, testo comprensivo delle pagine successivamente entrate a far parte di Berecche e la guerra come sesto capitolo, e solo in quest’ultima occasione intitolate Il signor Livo Truppel. Nel 1934, infine, e nella sua attuale configurazione, il testo entrò a far parte, come racconto eponimo, del quattordicesimo volume delle «novelle per un anno», Berecche e la guerra (Milano, Mondadori). In quest’ultima edizione, Pirandello volle premettere al lungo racconto di guerra di quasi vent’anni prima la Nota seguente: «Raccolgo in questo XIV volume delle mie Novelle per un anno il racconto in otto capitoli Berecche e la guerra, scritto nei mesi che precedettero la nostra entrata nella guerra mondiale. Vi è rispecchiato il caso a cui assistetti, con maraviglia in principio e quasi con riso, poi con compassione, d’un uomo di studio educato, come tanti allora, alla tedesca, specialmente nelle discipline storiche e filologiche. La Germania, durante il lungo periodo dell’alleanza, era diventata per questi tali, non solo spiritualmente ma anche sentimentalmente, nell’intimità della loro vita, la patria ideale. Nella imminenza del nostro intervento contro di essa, promosso dalla parte più viva e sana del popolo italiano e poi seguito da tutta intera la Nazione, costoro si trovarono perciò come sperduti; e, costretti alla fine dalla forza stessa degli eventi a riaccogliere in sé la vera patria, patirono un dramma che mi parve, sotto quest’aspetto, degno d’essere rappresentato». Questa nota potrebbe essere del tutto indipendente da stimoli esterni, ma certo è che nel 1934 la ristampa di Berecche rischiò di inciampare nella censura: Pirandello, che aveva dato notizia a Marta Abba, il 5 aprile, di aver spedito a Mondadori il volume delle novelle nella speranza che uscisse «prima della fine di maggio, durante la nuova Fiera del Libro», il 4 giugno 1934 le scrive: «Mi rimetterò oggi o domani al lavoro. Scriverò novelle. Ma il Mondadori m’ha scritto che nel volume che stava per uscire la Prefettura di Milano ha segnato un passo, di cui ha avuto scrupoli d’assumersi la responsabilità, e ha perciò mandato tutto il fascio delle bozze qua a Roma per avere il nulla osta dalla Censura Centrale. Ora sta di fatto che si tratta d’una vecchia novella, che gira ormai da venti anni, parecchie volte stampata e ristampata; e quel passo, come può rilevarsi dal contesto del discorso, è innocentissimo, senza la minima offesa per nessuno. Tutto ciò è ridicolo, e fa passar la voglia di scrivere. Se si deve seguitar così, ogni scrittore che si rispetti, butterà via la penna, sdegnato. A chi servirà tutto questo? Ho scritto al Ciano per suggerimento del Mondadori, e in questo momento il segretario del Ciano stesso mi telefona di star tranquillo perché il “nulla osta” è già partito per Milano e che dunque il volume potrà esser senz’altro pubblicato. Meno male! Ma intanto l’inciampo, per causa della Prefettura, c’è stato; e il vero guajo è proprio questo, che i subalterni allarmati, per paura d’assumersi la responsabilità, creeranno un sacco di questi inciampi spargendo il malumore in tutti gli scrittori» (v. LMA, pp. 1125 e 1133).
2 Recipienti di forma cilindrica, barili.
3 Salsicce.
4 I caratteri gotici della scrittura tradizionale germanica. Ma la forma dritta e dura di quei «caratteri tedeschi» tende subito a farsi simbolo della durezza e rigidità del carattere tedesco. Si rammenti del resto la più che remota (1897) sottolineatura dell’asprezza della pronuncia tedesca di Alvina Lander in «Vexilla Regis...» I 345: «Così pure erano invecchiati e tenacemente radicati nell’aspra sua gorga tedesca alcuni errori di pronunzia, non ostante che ella intendesse benissimo l’italiano».
5 Boccali (voce austriaca).
6 Bicchieri, boccali (traslitterazione dal tedesco Schoppen, “quarto di litro” e, per metonimia, “bicchiere da un quarto”).
7 Solo in Germania, solo in Germania voglio morire.
8 Suoni gutturali sgraziati (v. sopra la n. 4).
9 Suggerisce il Nardelli: «Berecche forse da Albrecht, birreria in Roma» (v. FVN, p. 153 e n.).
10 L’impero austro-ungarico e il Reich germanico, ai quali il regno d’Italia era legato dalla Triplice alleanza fin dal 20 maggio 1882.
11 Facendo il cosiddetto passo dell’oca, ossia il passo di parata a gamba tesa, tipico dell’esercito germanico.
12 La didascalia della vignetta satirica indirizzata a Berecche rinvia, per antifrasi, a uno scritto pirandelliano di cinque anni prima, Ricomincio a veder l’Europa, che era l’ultimo (gli altri due essendo Presentazione e Feminismo) dei tre brevi articoli sovraintitolati Da lontano ed era stato pubblicato su «La preparazione» il 15-16 aprile del 1909. L’occasione per ricominciare a vedere l’Europa veniva allora offerta dallo scampato pericolo di una guerra continentale dopo la crisi marocchina del 1905 (che aveva portato Francia e Germania a un passo dal conflitto) e dopo il colpo di mano col quale l’impero austro-ungarico si era annesso la Bosnia e l’Erzegovina, approfittando della rivolta dei Giovani Turchi e della momentanea debolezza della Russia, che trattenne i serbi dallo scendere in guerra. E in quella meno drammatica occasione il dibattito si sviluppava fra l’autore dell’articolo, apertamente antitedesco, e il dottor Paulo Post, assertore della Filosofia del lontano, che la «zavorra» tedesca stimava invece necessaria per la navigazione della barca europea: «La pace è tornata nei Balcani! Spero che, impostando nel lontano della storia, in poche righe succinte, tutto l’armeggio diplomatico di questi ultimi mesi tempestosi, Lei penserà che vi debba trovar posto il nome oramai veramente illustre del ministro degli affari esteri austriaco. Perdio, con poca spesa, in fin dei conti, ha accresciuto di due provincie la sua nazione! E il fatto è che ha potuto impedire agli storici futuri di scrivere un bel capitolo di storia generale, che avrebbe fatto certamente molto onore ai nostri tempi così scarsi di fatti memorabili. Se sapesse, caro dottore, com’ho vagheggiato, durante la sua assenza, questo capitolo di storia generale, che avrebbe potuto recare in campo la leggenda: Scomparsa della razza tedesca dalla faccia del continente europeo. Creda che è mancata proprio per un capello! Se quel maledetto Giappone non avesse date tante nespole alla Russia, se quelle maledette talpe chiercute non avessero fatto alla Francia tutto quel danno sotterraneo, se l’Italia non avesse sprecato inutilmente tanti miliardi, ma sa che bella spremutina si poteva dare alla razza tedesca, stringendola bene di qua e di là, da farle uscire almeno il sangue pazzo, da farle vomitare almeno un po’ di quella sua terribile dottrina, con cui da circa un secolo ormai schiaccia l’umanità, un po’ di metodo storico e tutte le altre afflizioni che ci son venute da lei, i drammi di Sudermann, la musica di Strauss... Non sa che alleggerimento sarebbe stato per i restanti popoli europei? Pesano i tedeschi! [...] / M’aspettavo [...], confesso, una stretta di mano dal dottor Paulo Post, dopo questa lunga tirata [...]. Invece, egli chiuse gravemente l’altro occhio, e rimase un lungo pezzo assorto. Poi borbottò: / – Dunque, finendo di calare, ritroverò ancora la razza tedesca nella vecchia Europa? Mi fa molto piacere. / Non potei frenare uno scatto d’impazienza, per non dire d’indignazione: / – Ma, come, caro dottore! / – Lasciamo stare il sentimento – mi ammonì con austera severità il dottor Paulo Post, protendendo le mani tremolanti. – Col sentimento e coi se non si fa storia, signor mio. Se il Giappone... se i preti... se l’Italia... tutte chiacchiere inutili! Può andare una barca senza zavorra? No. E benedica dunque il peso dei Tedeschi! Lasciamo stare i preti e lasciamo stare il Giappone. Parliamo dei miliardi che lei dice sprecati dall’Italia. Sprecati? Ma allora lei, proprio, non imparerà mai a guardar bene le cose da lontano! Con quei miliardi sappia che l’Italia, signor mio, si è comperata una bellissima povertà. E la povertà per l’Italia è il più perfetto stato. Povera, l’Italia ha arricchito sempre il mondo. Povero mondo, invece, se l’Italia arricchisse davvero! / Ritornerebbe, signor mio, il Medio-Evo» (v. SPSV, pp. 1033-4). Se non per difenderne quest’ultima tesi, tocca a Berecche raccogliere l’eredità di Paulo Post almeno per negare che sia la Germania a rappresentare il medioevo a venire; però, come si vedrà, a Berecche non è più concesso di ricominciare a vedere l’Europa: egli è anzi indotto a vederla malinconicamente retrospinta dall’immanità della guerra «nelle caligini d’una favolosa preistoria» (v. p. 182).
13 Fiammifero (di legno).
14 Come i caratteri gotici dei prodotti tedeschi, anche il fiammifero di legno è germanicamente duro e dritto di contro alla flessibilità dei fiammiferi di cera.
15 L’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando era stato assassinato a Sarajevo, da due terroristi di nazionalità serba, il 28 giugno 1914. Il 28 luglio, l’Austria aveva fatto seguire al durissimo ultimatum di cinque giorni prima la dichiarazione di guerra alla Serbia, e aveva aperto le ostilità bombardando Belgrado. L’Italia alleata, dal momento che l’invio dell’ultimatum non era stato concordato e che l’Austria non era l’aggredito ma l’aggressore, non era vincolata dai protocolli della Triplice alleanza, e il 3 agosto 1914 aveva dichiarato la propria neutralità.
16 La Germania dichiarò guerra alla Russia il 31 luglio e alla Francia il 2 agosto 1914 e, allo scopo di aggirare le linee fortificate francesi, procedette fulmineamente all’occupazione militare del Lussemburgo e del Belgio, neutrali. Il 4 agosto l’Inghilterra immediatamente rispose dichiarando guerra alla Germania e il 23 agosto anche il Giappone entrò in guerra a fianco dell’Intesa.
17 Il problema dei territori italiani rimasti in potere dell’impero asburgico fu uno dei nodi intorno ai quali, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, si giocò il duro confronto fra neutralisti e interventisti e, all’interno di questi ultimi, fra coloro che volevano onorata la Triplice alleanza in cambio di adeguate contropartite e coloro che invece sostenevano la necessità di entrare in guerra a fianco dell’Intesa franco-inglese.
18 L’isolamento diplomatico e il ruolo pressoché passivo dell’Italia al congresso di Berlino, nel 1878, aveva fatto sì che nel 1881 la Francia occupasse senz’altro la Tunisia, vanificando l’attività dei molti coloni italiani presenti nel paese. La Triplice fu in parte effettivamente dovuta anche alla volontà di uscire da quella condizione nociva di isolamento.
19 Sospettati di contrabbandare armi a favore dei turchi, alcuni piroscafi francesi furono in effetti fermati e perquisiti durante la guerra con la Turchia (1911-12) che portò alla conquista italiana della Libia.
20 Berecche rievoca due diversi e storici tradimenti francesi. Il primo risale all’età napoleonica, quando il Bonaparte, trionfatore della campagna d’Italia, all’atto di concludere a Campoformio (il 17 ottobre 1797) la pace con l’Austria sconfitta, consegnò senz’altro agli austriaci la repubblica giacobina di Venezia, che aveva rovesciato il potere conservatore della Serenissima e con la quale la Francia aveva pur stretto un patto di amicizia. L’altro voltafaccia francese contrassegna la fine della seconda guerra italiana d’indipendenza, il decorso della quale era giunto a registrare una situazione militare più che favorevole quando, il 6 luglio 1859, l’alleato Napoleone III aveva imposto bruscamente un armistizio e, cinque giorni più tardi, lo aveva fatto seguire dai preliminari di pace di Villafranca, ben deludenti per le speranze italiane.
21 V. N. MACHIAVELLI, Il Principe, cap. XXI: «È ancora stimato uno principe, quando elli è vero amico e vero inimico, cioè quando sanza alcuno respetto si scuopre in favore di alcuno contro ad un altro. Il quale partito fia sempre più utile che stare neutrale: perché, se dua potenti tua vicini vengono alle mani, o sono di qualità che, vincendo uno di quelli, tu abbia a temere del vincitore, o no. In qualunque di questi dua casi, ti sarà sempre più utile lo scoprirti e fare buona guerra; perché nel primo caso, se non ti scuopri, sarai sempre preda di chi vince, con piacere e satisfazione di colui che è stato vinto, e non hai ragione né cosa alcuna che ti difenda né che ti riceva. Perché chi vince, non vuole amici sospetti e che non lo aiutino nelle avversità; chi perde, non ti riceve, per non avere tu voluto con le arme in mano correre la fortuna sua».
22 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
23 Un’analoga ipotesi catastrofico-palingenetica (motivata peraltro dalla malsana frenesia della vita moderna, non dall’imminenza della guerra) emerge nel 1915 nel vestibolo introduttivo del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «Guardo pe via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno; ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo» (v. RII, p. 520). Sotto questa stessa luce catastrofistica, e con un senso confuso ma fortissimo di disagio nei confronti della civiltà moderna, Pirandello interpreterà, una quindicina d’anni più tardi, anche le profonde crisi economiche che vedrà travagliare l’Europa (e la Germania in particolare) e gli Stati Uniti, e che egli traguarderà attraverso la precarietà e l’incertezza di tutte le sue trattative teatrali, attraverso l’affacciarsi illusorio delle offerte e l’imprevedibile, repentino ritrarsi e dileguare delle medesime, travolte dalla rapidità con cui la ricchezza viene bruciata. Dopo aver vissuto per più d’un anno e mezzo a Berlino, da Parigi, dove s’era trasferito nel dicembre del 1930, il 6 agosto 1931 scrive a Marta Abba, in una delle pochissime lettere che rompono il respiro ossidionale e asfittico del privato: «Le condizioni economiche di tutti gli Stati d’Europa e anche dell’America si prospettano per l’anno venturo spaventose. Non si tratta più di crisi, si tratta piuttosto del fallimento della borghesia in tutto il mondo. L’ordinamento borghese, nella politica, nell’industria, nella giustizia sociale, in tutte le relazioni tra capitale e lavoro, in tutta la sua così detta “civiltà” minaccia di crollare sulle sue fradice basi. Dove questo per ora si risente meno, è qua in Francia, perché appunto qua, con la Rivoluzione francese, questo ordinamento borghese è nato, e qua ha le sue più profonde radici. Si fanno sforzi dovunque per sostenerlo ancora in piedi, e scongiurare che vada tutto a catafascio; ma sono sforzi per ora disperati e non si vede ancora da che parte possa più venir l’ajuto: un ajuto valido e durevole, dico, e non effimero come questo che per ora è portato un po’ alla Germania, un po’ all’Inghilterra. L’avvenire è più che mai torbido e incerto. Bisognerebbe che si capisse a tempo che la così detta “tecnica”, la così detta “scienza” applicata all’industria, è una terribilissima forma di pazzia, che ha lanciato la vita umana a distruggere le sue due categoriche necessità: lo spazio e il tempo. Bisogna che l’umanità, per ritrovar la sua pace e il suo respiro, riabbia il tempo e lo spazio. Come vuoi più senza tempo e senza spazio creare la vita? tutto è fuga vertiginosa, rapina. Bisogna semplificare la vita e ridarle le sue radici; abbattere tutte le sue forsennate costruzioni e renderla di nuovo naturale; distruggere tutte le macchine, tutte, e far che riabbia le sue mani, i suoi piedi, la sua testa per pensare le cose belle, il suo cuore per sentire gli affetti sani. Così è la pazzia scatenata; e non c’è nulla che più basti; ogni ricchezza ingojata, ogni forza naturale sfruttata per questa generale insoddisfazione, che diventa di punto in punto più esasperata e farneticante» (v. LMA, pp. 846-7). Senza che questo comporti l’aprire qui un discorso che pertiene ad altro momento, si può fin d’ora dire che non per caso lo spazio-tempo diventerà una delle ossessioni tematiche della postrema narrativa pirandelliana.
24 Riaffiora, spostato dall’asse dello spazio su quello del tempo, il termine marcato che, dodici anni prima, l’astronomo di Pallottoline! (v. I 385-6 e 387-8) aveva usato per denotare l’immaginaria spinta all’indietro, distanziante, sufficiente a rendere mal visibili o invisibili del tutto le masse enormi degli astri prossimi. Ma va notata la curiosa complementarità fra la congettura dell’amico e la sensazione di Berecche: al tuffo vertiginoso nel futuribile corrisponde, uguale e contraria, la retrospinta nel passato remoto. L’amico pensa e parla al futuro, Berecche è trascinato dal suo discorso a sentire il presente come preistoria prossima ventura.
25 Nella prima stampa, questa proposizione conclusiva del primo capitolo suonava così: «Urtato, poco dopo, dalla vista d’una bionda, prosperosa ragazzona tedesca, che da un manifesto appeso alla parete gli porgeva sorridente, come se nulla fosse, un altro Krügel di birra dalla spuma traboccante, spillato or ora dal fusto inghirlandato, è sorto in piedi e s’è licenziato bruscamente dagli amici per ritornarsene a casa» (v. NUAIII, p. 1413). L’umoristico siparietto narrativo, fondato sull’incontro fra un personaggio ispido e rabbioso ed una di quelle floride e generose ragazze di carta della pubblicità di primo Novecento, non era nuovo: dieci anni prima era toccato al furibondo Melchiorino Palì di imbattersi, nella sala d’aspetto della stazione di Costanova, in una consimile pacificante immagine: «Da uno di quei manifesti, un bel tocco di ragazza scollacciata gli offriva ridendo una tazza di birra dalla spuma traboccante, come per farlo tacere. Ma invano» (v. Sua Maestà II 350). La concomitante ripubblicazione di entrambe le novelle nella raccolta del 1915 Erba del nostro orto è sufficiente a spiegare la cassazione, in Berecche e la guerra, di quella che sarebbe risultata una replica troppo ravvicinata.
26 Nel 1913 Pirandello era andato ad abitare in via Antonio Bosio, che è appunto una traversa di via Nomentana (per quest’ultima v. Mondo di carta, n. 8). Oggi quella strada non appare propriamente né «remota» né abbastanza «in fondo», ma il successivo accenno ai pini e ai cipressi di villa Torlonia (p. 182) visibili dalle finestre di Berecche, induce a pensare che proprio la casa di via Bosio abbia costituito il modello per quella di Berecche (v. GG, p. 262). La casa sarà la stessa nel primo dei Colloquii coi personaggi (v. p. 242) e in seguito, nel 1923, anche un altro personaggio, il signor Bareggi di Fuga (v. VI 163), abiterà quella medesima casa.
27 Sanzeno è un vecchio paese della Val di Non, dirimpettaio di Cles, essendo situato sulla sponda opposta del Lago di S. Giustina. Nella Val di Non sarà interamente ambientata la novella La prova, che Pirandello pubblicherà nel 1935.
28 Borgomastro.
29 Fausto era anche il nome del più giovane dei tre figli di Pirandello, nato nel 1899.
30 Berecche ragazzino rammenta infatti il teatro della guerra-lampo franco-prussiana del 1870, conclusasi, dopo la disfatta francese di Sedan, con la capitolazione della stessa Parigi. Nell’identico gioco con la medesima guerra era consistita l’ultima mania del moribondo Ferdinando, detto il Babbeo, ne I Viceré derobertiani: «Tremante dalla febbre, con la fronte in fiamme, una nuova fissazione sconvolgeva il suo cervello esangue: quella delle vittorie napoleoniche che egli voleva a qualunque costo. Comprata una carta del Reno, passava le sue giornate a piantar spilloni in tutti i posti francesi e spille piccole nei prussiani: col bollettino della guerra alla mano, studiava le operazioni dei due eserciti, mutava di posto i segni secondo i mutamenti reali, e a misura che le spille s’avanzavano e gli spilloni retrocedevano, la sua malattia s’inaspriva. Con voce rauca, cavernosa, spiegava quel che i Francesi avrebbero dovuto fare per riottenere le posizioni perdute: improvvisava piani strategici, disegnava ogni giorno parecchi teatri della guerra, disponeva a modo suo delle divisioni e dei reggimenti esclamando: «Questo di qua va là, quello di là va qua...» finché, stanco, abbattuto, con le mani penzoloni e la testa rovesciata, chiudeva gli occhi e schiudeva la bocca quasi fosse sul punto di spirare» (v. F. DE ROBERTO, Romanzi, novelle e saggi, a cura di Carlo Alberto Madrignani, Milano, Mondadori, 1984, p. 881).
31 Stoffa.
32 Appunto drappi, di stoffa da tappezzeria, con i quali si usava coprire le panche o, come qui, le cassapanche.
33 Mobili d’angolo, angoliere.
34 Ripiani.
35 Pale.
36 Antiquato «indumento maschile [...] bene attillato alla vita, che ricopriva il busto, lungo fino al ginocchio» (GDLI).
37 Sgraziati, senza garbo.
38 Impomatati (perché portati lunghi e rigidi).
39 Il piccolo pizzo di barba fatto crescere sotto il labbro inferiore.
40 La memoria produce una foto d’epoca di tipo un po’ gozzaniano.
41 Da quest’attenzione infantile straniata che si concentra sui movimenti delle dita come se fossero atti di personaggi autonomi, proviene lo spunto per la novella La mano del malato povero e soprattutto per la scena tutta digitale d’apertura di Mentre il cuore soffriva.
42 Edme Patrice conte di Mac-Mahon, il maresciallo di Francia comandante a Sedan. Vale la pena di segnalare l’espansione (cassata solo nel 1934) cui il nome di Mac-Mahon dava luogo nelle stampe del 1915 e del 1919, e che conteneva un ulteriore excursus di storia risorgimentale: «Quanto gli piaceva quel nome, che faceva sobbalzare e aprir gli occhi alla mamma appisolata in un canto. / – Mac Mahon! / Sì, gli piaceva tanto, perché forse non pensava, non sentiva nulla, egli, allora. Qualche eco avevano in lui, forse, per poco, i pensieri e i sentimenti di suo padre o di qualcuno di quegli amici; ma no, parteggiava più, forse, per le loro dita, per questo o per quel dito più aggressivo. / Suo padre, certo, era per i Prussiani; malediceva ancora al Lamarmora che prima, nel 1865, aveva nicchiato alla proposta di Bismarck d’una alleanza italo-prussiana per far guerra all’Austria; e poi, nel 1866, conclusa l’alleanza, non aveva voluto ascoltarne i consigli né seguirne il disegno strategico; e, affrontato stupidamente il nemico su la doppia linea del Mincio e del Po, aveva condotto l’Italia al disastro di Custoza e all’onta di ricevere in dono la Venezia dalle mani di Napoleone III. / Chi sa! Quest’onta, forse, si rinnoverà domani: avremo in dono da altri le terre nostre ancora sotto il dominio dell’Austria, o ci moveremo a prenderle, come fu presa Roma, quasi di sotterfugio, profittando d’una vittoria non nostra e della sconfitta altrui» (v. NUAIII, pp. 1415-6).
43 La redazione definitiva, stampata nel 1934, che qui si riproduce, contiene in questo luogo un evidente refuso che Costanzo diplomaticamente non emenda e che confonde le alleanze e la dislocazione delle forze sul teatro di guerra. Vi si legge: «Belgio, Francia, Inghilterra, di qua, contro la Germania; contro la Russia di là, nella Prussia orientale, in Polonia» (v. NUAIII, p. 584). Restauro la lezione corretta procurata dalle stampe 1915 e 1919.
44 Berecche, nel suo sbalordimento, finisce per confondere sé e la Germania e per pensare a entrambi come a ragazzetti che nel 1870 avevano nove anni, il medesimo 1861 essendo l’anno di nascita di Berecche e l’anno in cui Guglielmo I era salito al trono di Prussia.
45 Pirandello stesso, nel lontano 1890, aveva riconosciuto almeno una mancanza poetica dei Romani, quella del teatro tragico: «I Romani, che hanno del dovere un eccessivo senso, non hanno un teatro tragico. Agere et pati fortia, romanum est! e il gladiatore caduto doveva, tra il sonante plauso della folla al rival trionfatore, morir col sorriso sulle labbra. I Romani ci daran solo le leggi, e lo potranno bene, perché sentono internamente il dramma, lo vivono anzi e la storia ce lo dice; ma appunto per questo non possono scriverlo. La gran tragedia romana è tutta là: nei Commentarii della guerra civile di Giulio Cesare e nelle pagine di Tacito» (v. La menzogna del sentimento nell’arte, in SPSV, p. 845).
46 Sul ripudio della storia leggendaria e della poesia della storia, Pirandello ironizzerà sarcasticamente nell’incipit di Romolo (v. p. 228).
47 Georg Barthold Niebhur (1776-1831), diplomatico, uomo politico e storico tedesco, professore di storia romana a Berlino e, dal 1823, a Bonn; autore della celebre Römische Geschichte bis zum ersten punischen Kriege.
48 L’appassionato ragionamento di Berecche sul metodo si ritrova, decontestualizzato, in un appunto del cosiddetto Taccuino stampato il 1° gennaio 1936 sulla «Nuova Antologia»: «La mancanza di carattere nei singoli individui che si occupano di ricerche e di studii è la fonte di tutti i mali – diceva il Goethe. Specialmente nella critica, questa mancanza si mostra a svantaggio del mondo o divulgando il falso pel vero o per una ben misera verità annientandone una grande, che ci conveniva meglio. Fin qui il mondo credeva all’anima eroica d’una Lucrezia, d’un Muzio Scevola, e se ne lasciava accendere e rianimare. Adesso poi viene la critica storica e dice che quei personaggi non sono mai esistiti, ma che son da considerare come finzioni e favole inventate dalla grande anima dei Romani. Ma che dobbiamo farcene di una sì misera verità? E se i Romani erano così grandi da poter inventare siffatte favole, non dovremmo noi essere almeno tanto grandi da prestarvi fede?» (v. SPSV, p. 1212). Quest’opinione di Goethe proviene dai famosi Colloqui con Goethe di Johann Peter Eckermann: «Wir sprachen über den Zustand der neuesten Literatur, wo denn Goethe sich folgendermaßen äußerte [Discorrevamo della condizione della più recente letteratura, e al proposito Goethe si pronunciò come segue]: “Mangel an Charakter der einzelnen forschenden und schreibenden Individuen,” sagte er, “ist die Quelle alles Übels unserer neuesten Literatur. Besonders in der Kritik zeigt dieser Mangel sich zum Nachteile der Welt, indem er entweder Falsches für Wahres verbreitet, oder durch ein ärmliches Wahre uns um etwas Großes bringt, das uns besser wäre. Bisher glaubte die Welt an den Heldensinn einer Lucretia, eines Mucius Scävola und ließ sich dadurch erwärmen und begeistern. Jetzt aber kommt die historische Kritik und sagt, daß jene Personen nie gelebt haben, sondern als Fiktionen und Fabeln anzusehen sind, die der große Sinn der Römer erdichtete. Was sollen wir aber mit einer so ärmlichen Wahrheit! Und wenn die Römer groß genug waren, so etwas zu erdichten, so sollten wir wenigstens groß genug sein, daran zu glauben.”» [“La mancanza di carattere del singolo individuo che ricerca e scrive” disse, “è all’origine di tutti i mali della nostra più recente letteratura. Soprattutto nella critica questa mancanza si palesa pregiudizievole per il mondo in quanto o divulga il falso come vero oppure ci conduce attraverso un vero ben povero a qualcosa di grande e migliore di noi. Finora il mondo ha creduto nello spirito eroico di una Lucrezia, di un Muzio Scevola, e se n’è lasciato riscaldare ed entusiasmare. Ma ora viene la critica storica e dice che quei personaggi non sono mai esistiti, che vanno guardati come finzioni e favole inventate dallo spirito grande dei Romani. Cosa farcene di una verità così miserabile! E se i Romani sono stati abbastanza grandi da inventare cose come quelle, noi dovremmo essere almeno abbastanza grandi da saperci credere.”»] (v. J. P. ECKERMANN, Gespräche mit Goethe, Weimar, Gustav Kiepenheuer Verlag, 1913, p. 155). Pirandello aveva maneggiato il libro di Eckermann fin dal lontano 1896, come testimoniano l’elzeviro intitolato Goethe ed Eckermann e stampato il 2 febbraio di quell’anno sulla «Rassegna settimanale universale» e la relativa nota di Lo Vecchio-Musti (v. SPSV, p. 902 e n.).
49 Come nella campagna del 1870 contro la Francia, la Germania, forte della propria rapidità di manovra, aveva accarezzato agli inizi del conflitto mondiale l’illusione di poterlo risolvere con un Blitzkrieg, una guerra-lampo.
50 Desueto per “i gomiti”.
51 Il gallo è l’emblema nazionale francese.
52 Nei paraggi della città ucraina ebbe luogo una dura e lunga battaglia protrattasi dal 5 al 12 settembre 1914, e nella quale l’armata russa inflisse agli austriaci una pesantissima sconfitta. Il «macello» che indigna Gino Viesi è naturalmente dovuto al fatto che trentini e triestini, sudditi austriaci, erano arruolati nell’esercito imperiale austro-ungarico.
53 L’invettiva è il segno di una contraddizione senza sblocco; è, da parte del lacerato Berecche, il ripudio insultante e denegante di ciò che ha lungamente amato. È la risposta al nero, disperata, del vecchio Berecche all’entusiasmo dei giovani che inneggiano al Belgio e alla Francia, e ai quali egli non può né unirsi né opporsi gridando viva la Germania.
54 Che non si vede che è cieca.
55 Pio X morì il 20 agosto 1914. La successione degli eventi storici non è puntualmente rispettata, poiché la battaglia di Leopoli (v. n. 52) è posteriore alla morte del papa.
56 Che (v. La ricca, n. 7).
57 Si allude forse alle recriminazioni degli ambienti clericali per la convenzione col governo italiano sottoscritta da Napoleone III nel settembre 1864, in forza della quale le guarnigioni francesi erano state ritirate da Roma l’anno dopo; per il tardivo, anche se risolutivo, intervento a Mentana dell’esercito francese a protezione dello Stato pontificio nel 1867; infine per il richiamo definitivo delle truppe francesi da Roma allo scoppio della guerra con la Prussia nel 1870.
58 Il 2 agosto, Pio X aveva rivolto ai cattolici di tutto il mondo un ultimo messaggio nel quale vibrava l’orrore del pontefice e lo sbigottimento per il conflitto appena scoppiato, che si preannunciava immane e come nessun altro sanguinoso.
59 Dopo quello contro la Germania, è il secondo anatema di Berecche; ed esprime l’altra contraddizione che lo dilania, quella fra l’inconcussa fedeltà al valore-guida della ragione e la nostalgia cocente, creaturale, d’un abbandono fideistico senza riserve.
60 Letargo e filosofia erano accostati anche in Quando s’è capito il giuoco, novella il cui imperturbabile protagonista viveva addirittura in una «specie di perpetuo letargo filosofico» (v. IV 437 e n. 3).
61 V. Pallottoline! I 385.
62 V. Pallottoline! I 387 («E questo medesimo animale uomo pretende di dare un dio, il suo Dio a tutto l’Universo!») e n. 20.
63 Berecche richiama ad esempio il manualistico sommario d’un tratto di storia di pieno medioevo. Ottone I il Grande (912-973) fu imperatore e re di Germania; Ludovico il Fanciullo (Louis l’Enfant), re dei Franchi orientali, era stato l’ultimo dei Carolingi in Germania ed era morto nel 911.
64 Nel 1922, in Enrico IV, Pirandello farà assumere al protagonista l’immaginaria ottica inversa di chi guarda dal remoto secolo XI alle vicende del presente: «E pensare, da qui, da questo nostro tempo remoto, così colorito e sepolcrale, pensare che a una distanza di otto secoli in giù, in giù, gli uomini del mille e novecento si abbaruffano intanto, s’arrabattano in un’ansia senza requie di sapere come si determineranno i loro casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione. Mentre voi, invece, già nella storia! con me! Per quanto tristi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: che vi ci potete adagiare, ammirando come ogni effetto segua obbediente alla sua causa, con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolga preciso e coerente in ogni suo particolare» (v. MN2, pp. 850-1).
65 Per l’attimo d’eternità, v. La toccatina, n. 21.
66 Al figurato, l’immagine era affiorata l’anno prima in Un ritratto, p. 116: «Negli occhi stranamente aperti, intenti e come smarriti in una disperata tristezza, aveva la rinunzia di chi resta indietro in una marcia di guerra, estenuato, abbandonato senza soccorso in terra nemica, e guarda gli altri che vanno avanti e sempre più s’allontanano portandosi con loro ogni romor di vita, così che presto nel silenzio che gli si farà vicino, intorno, sentirà certa e imminente la morte».
67 Nei manoscritti dell’Enrico IV si conserva traccia anche di un’altra ragione di inabissamento e di non conoscenza della realtà vera del passato. In una prima stesura era Landolfo a fornirla (v. MN2, p. 1092), in una redazione successiva è lo stesso pseudo-Enrico IV a enunciarla: «LANDOLFO Eh certo che, leggendo la storia... ENRICO IV Ti puoi figurare come può esser vera, solo che pensi un po’ alla vita, quale veramente è; e com’è adesso, dev’essere stata anche negli altri tempi... ARIALDO Ah, come? Ma allora... ENRICO IV Allora che? Ci vorresti creder sul serio? Ma immagina un po’ come te la imposterà, domani, la storia, questa vita d’oggi, disincarnata! I nessi, i nessi che ci troverà, di cause e d’effetti, questo o quello storico, secondo come la piglierà! – Capite, capite che, forti di quest’argomento, noi uomini del mille e cento, potevamo metterci a ridere, spensierati e leggeri, di tutto quanto sta scritto sui tempi nostri: ridere sul grugno a ogni dotto d’antichità, e gridargli di levarsi, perché non è stato vero niente di tutto ciò che crede di sapere, perché tutto è stato il giuoco di tre o quattro, più forti, che se la sono tirata di qua e di là, come han voluto e a caso, questa bella pagliacciata, comune e sempre la stessa!» (v. MN2, pp. 1257-8).
68 Cronache giornaliere.
69 Al cospetto delle stelle e al lume della «ragione filosofica» che ha ripreso in lui il sopravvento sull’angoscia, Berecche è spinto a ricalcare passo passo le orme ragionative del personaggio del primo dei Colloquii coi personaggi (v. pp. 243-4). Le due sceneggiature narrative sono solo in apparenza molto diverse: là l’io narrante, con moto palesemente difensivo, proietta fuori di sé quello scomodo fantasma; qui è il tormentato Berecche a passare da uno a tutt’altro stato d’animo, dall’angosciato coinvolgimento alla pacata, ancorché melanconica, meditazione.
70 Al di là dello scontro fra interventisti e neutralisti, tra germanofili difensori della Triplice e fautori dell’Intesa, al di là di ogni differenza d’inclinazione e opinione, la conclusione di Berecche è particolarmente amara e delusa. Il professore di storia cinquantatreenne (che Pirandello finge dunque nato solo sei anni prima di lui) non fa propria alcuna delle propagandate ragioni ideali di quella che sarà detta la «grande guerra». È ben vero che le considerazioni di Berecche cadono nel tempo sospeso della neutralità italiana, quando la guerra è ancora solo quella degli imperi centrali contro Francia, Inghilterra e Russia, ma resta il fatto che per lui si tratta di una guerra mercantile e imperialistica scatenata dalla Germania, e le sue conclusioni non lasciano in alcun modo pensare che egli creda che l’Italia possa avere delle buone ragioni per prendervi parte. Anche nel numero dell’aprile 1915 di «Noi e il Mondo» (la rivista mensile de «La Tribuna»), rispondendo a un’inchiesta sulla guerra intitolata Interrogati, risposero, Pirandello dice: «Assistevamo prima, nei serragli, al pasto delle belve. Assistiamo ora a un pasto più mostruoso: al pasto delle macchine impazzite. Io vedo così questa immane guerra, sotto questa specie. Guerra di macchine, guerra di mercato. L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, come ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, doveva fabbricarsi di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità e divenir servo e schiavo di esse. Ma non basta fabbricarle, le macchine: perché agiscano e si muovano debbono per forza ingojarsi la nostra anima, divorarsi la nostra vita. Ed ecco, non più soltanto idealmente, ma ora anche materialmente, se la divorano. Sette uomini – dicono – al minuto: per il trionfo dei prodotti industriali d’una nazione diventata, non pur nei cantieri, anche negli animi e negli ordini, metallica, un immenso macchinario» (v. CAR, p. 200, n. 11). È con tutt’altro spirito, e avendo di mira bersagli polemici precisi, che anche Marco Leccio, nonostante il suo fervido patriottismo, parla nel Frammento di cronaca degli interessi mercantili soggiacenti alla guerra: al buon Livo Truppel (là come qui svizzero tedesco d’origine) dice: «Bel paese, va’ là, il tuo! Tutte le fabbriche di orologi mutate in fabbriche di proiettili... Affarone, la guerra! Anche per gli Stati Uniti d’America, sì! Affaroni, affaroni... Sfido io! con questa guerra che non si vede! Diecimila colpi per cogliere un uomo... [...] Un bel congegno, per tutti i fornitori, questa strategia moderna... L’hanno inventata i tedeschi, e tanto basta. E intanto la Svizzera sciala» (v. Frammento di cronaca di Marco Leccio..., p. 223).
71 Operoso ma anche faccendone. V. già Visitare gl’infermi I 267. Qui l’accoppiamento in rima con saccente non lascia dubbi sulla declinazione deprecativa dell’attributo.
72 Fornita di zampe robuste, ben piantata. V. Pari, n. 8.
73 Questo sesto capitolo, inserito nella novella nel 1934, tardi e senza plausibili ragioni narrative, è tolto di peso, con i pochi necessari aggiustamenti del caso, dalla parte incipitale del Frammento di cronaca di Marco Leccio... (v. pp. 253-7), al quale si rinvia anche per le note di commento.
74 Diventata, da figlia primogenita del garibaldino del 1866 Marco Leccio, primogenita di un professore germanofilo, Bezzecca Leccio diventa Teutonia Berecche.
75 V. sopra la n. 26. Un ultimo ricordo, spostato e deformato, di questa casa e dei cipressi amati da Berecche e per altri odiosi, trapasserà in un episodio (tutto ipotetico e mentale) di Uno, nessuno e centomila: «Quella è una finestra che dà sul giardino. E là fuori, quei pini, quei cipressi. / Lo so. Ore deliziose passate in questa stanza che vi par tanto bella, con quei cipressi che si vedono là. Ma per essa intanto vi siete guastato con l’amico che prima veniva a visitarvi quasi ogni giorno e ora non solo non viene più ma va dicendo a tutti che siete pazzo, proprio pazzo ad abitare in una casa come questa. / – Con tutti quei cipressi lì davanti in fila, – va dicendo. – Signori miei, più di venti cipressi, che pare un camposanto. / Non se ne sa dar pace» (v. RII, p. 767).
76 L’attacco di questo settimo capitolo, mentre notifica bruscamente la scomparsa dei due giovani e dunque una repentina frattura evenemenziale, segna però anche una ripresa del punto di vista focalizzato su cui s’era chiuso il quinto capitolo. L’attacco di questo capoverso fa viceversa seguire a un falso segnale di continuità («E pianti, strilli, strepiti») una disorientante rotazione del punto di vista: d’un tratto la casa e la famiglia di Berecche sono guardati da fuori e diventano un oggetto di curiosità collettiva.
77 E ce ne andiamo a mangiare.
78 Contratte, rattrappite.
79 Per l’autobiografismo di questa situazione narrativa, v. FVN, p. 146: «Poi andò a battere alla porta della stanza dov’egli si chiudeva per scrivere. / Prese a battere colle mani, colle ginocchia, colla testa, disperatamente»; e p. 162: «Tra il figlio lassù che smuore e la moglie qua che batte alla porta, che tempesta la porta coi piedi colle ginocchia coi gomiti, i personaggi s’azzuffano».
80 V. FVN, p. 154 e GG, pp. 273-4. Nella prima stesura (1961) di questo capitolo della sua biografia, che volle sottoporre al vaglio di Stefano Pirandello, Giudice richiamava questo passo di Berecche: chi fosse particolarmente interessato ai risvolti biografici e alle testimonianze, può ora vedere il commento del figlio Stefano, in G. GIUDICE, Annotazioni di Stefano Pirandello a un capitolo di biografia pirandelliana, in «Rivista di studi pirandelliani», XII (dicembre 1994), n. 12-13, pp. 155-6.
81 La lezione a stampa del 1934 («quei no, quel no») è palesemente incongrua e frutto d’errore. Si restaura la lezione corretta: «quei no, quei no», attestata sia da Erba del nostro orto (1915) che da Berecche e la guerra (Milano, Facchi, 1919).
82 Funzionario di polizia.
83 Così venne chiamata la legione di volontari italiani comandata da Giuseppe Garibaldi (il figlio primogenito di Ricciotti che nel 1918 venne poi nominato generale di brigata), la quale nel 1914 combatté a fianco dell’Intesa nelle Argonne.
84 La parte centrale di capoverso sarà ripresa, nel 1923, nella definitiva redazione della novella Acqua e lì (v. VI 172), nella quale accadrà al dottor Calajò di vedere morire di scarlattina i due figlioli. Ma la cosa più degna di nota è che Berecche, dall’anestesia in cui si è rovesciata la sua disperazione estrae la constatazione lucida della propria capacità di ragionare perfettamente, la prova, per così dire, della razionalità che scaturisce dall’astrazione e concettualizzazione dI una sofferenza troppo grande per essere sofferta; laddove Calajò, dallo sperimentare in sé, come il «più spaventoso dei fenomeni», il medesimo effetto del dolore, ritiene di dover viceversa ricavare «la coscienza, lucidissima, d’essere impazzito». Come dire che l’esperienza del limite di sopportabilità del dolore corrisponde al luogo psicologico d’una coincidentia oppositorum in cui pazzia e ragione sono tutt’uno. Su una tale situazione-limite, Fongi, medico in ritiro e uomo del buon senso, non starà né con Berecche né con Calajò, e riproporrà per parte sua un luogo comune interpretativo: «nessun segno più manifesto di pazzia che il ragionare, o il credere di ragionare, in certi momenti».
85 A stanghetta.
86 Nelle prime due stampe, quest’ultimo sfogo del filogermanismo di Berecche, tanto più rabbioso in quanto irreparabilmente minato, toccava vertici di violenza verbale assolutamente inusitati per Pirandello e suonava così: «Chi? La Francia, la Russia, l’Inghilterra? E valgono forse più di lei? Che valgono di fronte a lei? Merda, ecco, sì, merda, come direi in faccia al mio figliuolo, se l’avessi qua, lui che è andato in ajuto di quella Francia fradicia; merda! ecco, merda! merda!» (v. NUAIII, p. 1422).
87 Quasi rantolando nel pianto. V. L’ombra del rimorso (1924), n. 9.
88 Abito maschile di rappresentanza, lungo, a doppio petto.
89 Scarmigliato e in disordine.
90 V. FVN, p. 154: «Breve, Pirandello si dispone a far domanda di entrar nelle guide volontarie a cavallo, insomma di comprarsi un cavallo, dacché per andare a piedi è un po’ tardi, e servire».
91 Ingrugnato.
92 Il ben noto editore milanese Ulrico Hoepli aveva tradizionalmente in catalogo una ricca serie di manuali tecnico-pratici.
93 All’impulso generoso che lo spinge a pensare di arruolarsi fra le guide a cavallo pur di essere vicino al figlio partecipando insieme a lui alla guerra, Berecche fa seguire la severa disciplina tedesca del metodo e, del tutto inesperto com’è, ricorre senz’altro all’ausilio del manuale. Ma la vertiginosa spirale retrorsa dallo slancio incontrollato e patetico alla testarda serietà dello studio notturno, dalla fantasticheria eroica della cinquantatreenne guida a cavallo alla realtà di un attempato lettore di manuali d’equitazione, segna anche lo slittamento della vicenda sul versante umoristico.
94 Strada romana tra Villa Borghese e il quartiere Nomentano, dove abita Berecche.
95 Terreno del maneggio (segnato di orme fitte dal calpestio dei cavalli).
96 Gli esercizi che il cavallo deve eseguire nell’equitazione d’alta scuola.
97 Resistenze o rifiuti a eseguire un esercizio.
98 Evoluzione sono detti i cambi di velocità e di direzione; la mezz’aria è una delle figure del maneggio con sospensione inferiore a quella della corvetta, la quale consiste nel movimento del cavallo che, continuando a camminare ed equilibrandosi sulle zampe posteriori, alza e piega verso il petto le anteriori; la parata è l’arresto brusco del cavallo, che viene fatto alzare sulle zampe posteriori per fermarsi poi sulle quattro zampe; la passata è la figura consistente nel percorrere al galoppo la linea retta in un senso e nell’altro nonché le due mezze volte che si descrivono all’estremità della linea; piroetta è detta la volta sul posto al passo o al galoppo, facendo perno sulla zampa posteriore.
99 Urta con violenza contro la sella.
100 Restando impigliato nella staffa.
101 V. Colloquii coi personaggi, p. 245: «Dovevo consumare dentro me l’ansia senza requie per il mio figliuolo, che mentre io qua mi sarei straziato invano e sarei stato costretto purtroppo ad attendere e a soddisfare a tutti i piccoli materiali bisogni della vita, avrebbe esposta la sua lassù; e ogni momento, che per me sarebbe passato così, poteva essere per lui il supremo; e sarebbe toccato a me, allora, dopo, di seguitarla a vivere, questa atrocissima vita».
102 V. anche, prossimo, il Frammento di cronaca di Marco Leccio. Pur portatori, in partenza, di due ottiche ideologiche contrapposte, Marco Leccio e Federico Berecche finiscono con il rappresentare, nei confronti della rovinosa rapina della guerra, le due facce del medesimo doloroso medaglione paterno: angosciati in eguale misura per la sorte dei figli combattenti, impossibilitati entrambi (nonostante le loro patetiche velleità) a vestire una divisa e condividerne i rischi, entrambi delusi e scettici nei riguardi d’una guerra che non è la loro e nello spirito della quale non si riconoscono. Così l’appassionato e irriducibile ribellismo garibaldino dell’uno, come l’amore per la metodica disciplina tedesca dell’altro, sfociano in un rifiuto amaro venato di nichilismo.
103 Questa datazione viene apposta da Pirandello solo alla stampa del 1934.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Giornale di Sicilia» il 17-18 gennaio 1915 (v. SFP, pp. 22 e 110-1). Successivamente compresa nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves, 1917), entrò infine a far parte del tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad, 1928), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese.
2 A questo «la» seguono numerosi altri segni che designano la partner e vittima, ignota e muta, del protagonista. Ma l’enigma della sua identità, posto in questo incipit incorniciante, non sarà sciolto che quando la seconda metà della cornice verrà incassata e saldata a chiudere il racconto.
3 È il preannuncio di una infrazione socialmente intollerabile. Il protagonista parla ossimoricamente di una «spaventosa gioja» e della «voluttà d’una divina, cosciente follia», dunque di un piacere come sempre e più che mai colpevole e inammissibile. E deve guardarsi dalla più classica fra le sanzioni che la società commina a tali trasgressivi e incomprensibili godimenti: la diagnosi di pazzia e la conseguente restrizione manicomiale (v. Il treno ha fischiato).
4 Sono tutti ruoli, e ruoli sociali. Proprio perciò la serie enumerativa pare chiusa e coerente. La mancanza emergerà più oltre.
5 Il segnale della scissione e del distacco dello spirito dai sensi e dal corpo non potrebbe essere più chiaramente verbalizzato.
6 Per chiarezza e intensità, il passo non ha quasi riscontri, né nelle novelle né altrove, prima che, nel 1932, Donata Genzi, la protagonista di Trovarsi, mostri sorprendentemente di ricordarsene quando dice: «Finché si resta così... sospesi... da potersi volgere con la mente... qua, là... a ogni richiamo in noi d’una sensazione, d’una impressione... a tante immagini che un desiderio momentaneo può accendere... o un ricordo rievocare... con quest’alitare in noi... sì, di ricordi indistinti... non d’atti, forse nemmeno di aspetti... ma, appunto, di desiderii quasi prima svaniti che sorti... cose a cui si pensa senza volerlo, quasi di nascosto da noi stessi... sogni... pena di non essere... come dei fiori che non han potuto sbocciare... – ecco, finché si resta così, certo non si ha nulla; ma si ha almeno questa pienezza di libertà... di vagare con lo spirito... di potersi immaginare in tanti modi... Ora, compiere un atto, già non è mai tutto lo spirito che lo compie... tutta la vita che è in noi... ma ciò che siamo solo in quel momento... – eppure ecco che quell’atto d’un momento – compiuto – c’imprigiona, ci ferma lì... con obblighi, responsabilità, in quel dato modo e non più altrimenti... E di tanti germi che potevano creare una selva, un germe solo cade lì, l’albero sorge lì, non potrà più muoversi di lì... tutto lì, per sempre...» (v. MNII, p. 914). Come nei rapimenti mistici, una sorta di estasi psichica consente al personaggio di provare la sensazione tutta interiore dell’essere e dell’essenza, avvertiti come nostalgia di pienezza-interezza e perciò sofferti come angoscia d’irrealtà. Come sempre, una simile esperienza può aver luogo solo a prezzo d’una smemoratezza del corpo e, addirittura, d’una totale eclisse dei sensi e del pensiero: vigile e senziente è esclusivamente lo spirito. V. il nitido preannuncio de Il coppo IV 338-9: «Stanco, s’era sdrajato per più ore su l’erba d’un prato, e... sì, forse per il vino... aveva anche pianto, sentendosi perduto come in una lontananza infinita; e gli era parso di ricordarsi di tante cose, che forse per lui non erano mai state». E si tenga anche presente, nonostante l’incertezza della datazione, uno degli Appunti pubblicati da Pirandello sul «Corriere della Sera» il 7 aprile 1929: «Ho avvertito più volte, nel silenzio di certi luoghi insoliti e remoti, come un sospetto che ci fosse qualcosa di misterioso a me, da cui il mio spirito, pur lì presente, era condannato a restar lontano; e in cui, se fossi potuto entrare, forse la mia vita si sarebbe aperta in chi sa quali nuove sensazioni, da parermi di vivere in un altro mondo» (v. SPSV, p. 1208). In altra chiave e altro contesto, il «rimpianto di qualche cosa che poteva essere e non è stata» riaffiora anche ne L’amica delle mogli (v. MNII, pp. 109-10).
7 Anche questa concentratissima parte dell’anamnesi, che connota l’esperienza del ritorno alla realtà, può essere assunta come paradigmatica ed esemplare (v. Pena di vivere così VI 100 e n. 36). Stretti nella loro connessione sequenziale, questo momento e il precedente producono la violenta dissociazione e la precaria ricomposizione dell’io che costituisce il seguito della narrazione.
8 A partire da una circostanza diametralmente opposta, ossia dalla scoperta della causa presunta, e falsa, che lo ha reso oggetto di disprezzo anziché di rispetto e considerazione, ad una lancinante analoga conclusione è spinto nel 1920 anche il Martino Lori del dramma Tutto per bene, memore di questo disconoscimento silenzioso di sé del protagonista de La carriola: «Perché tutto è finito, non posso più vivere! Se è finito! se non posso più distruggerlo quello che sono stato per gli altri! È qua – in questo mio corpo – in questi miei occhi che guardavano senza vedere chi ero per tutti; in questa mano che porgevo, senza sapere che apparteneva a uno, di cui tutti ridevano o avevano schifo! Come faccio più ora a guardar la gente? a porgere questa mano? Ne ho io, ora, schifo e raccapriccio! Di me stesso, sì, quale ora mi vedo e mi tocco: – uno che non sono io, che non sono stato mai io – e da cui non mi par l’ora di fuggire! non mi par l’ora! / accenna così dicendo, smarritamente, di volersene andare / non mi par l’ora!» (v. MN2, p. 492).
9 Il grande motivo dinamico della catastrofe delle forme trova qui una attualizzazione di incomparabile chiarezza. Nello specchio opaco e scuro della porta di casa, in quella specie di lapide di bronzo e d’ottone, il personaggio si vede morto. E, in un certo senso, muore a quella vista. Ma proprio perciò è un altro l’exitus del soggetto che si fa strada in questo modo, e il dato sequenziale e narrativo che più immediatamente lo contraddistingue è proprio l’abolizione dell’evento morte dalla dinamica evenemenziale. Invece della morte, che era (e talora è, come in Candelora) il degno explicit risolutivo dell’assoluto del dramma o di quello dell’insostenibile angoscia (come sarà, tra breve, in Mentre il cuore soffriva), interviene, abruptivo quanto una morte, uno scollamento che comporta una violenta relativizzazione della persona e dell’identità. In termini pirandelliani, è il vedersi vivere che si sovrappone al vivere. D’un tratto il protagonista, volgendo lo sguardo su se stesso e in se stesso, riflettendo sul proprio spaesamento e la propria infelicità come tante volte avevano fatto in passato gli eroi romantici nei loro monologhi, scopre con orrore la propria perfezione, il suo essere maschera meticolosamente e puntigliosamente verosimile. In questo modo la perfezione e l’apparente pienezza diventano problema per il soggetto, diventano un insopportabile impaccio, una prigione in cui si sente incatenato. E, in queste condizioni, il procedere euristico e naturale, realistico, della vicenda o del dramma diviene impossibile. Il protagonista, irrigidendosi, vacilla, balbetta e infine si ferma, tace: l’adesione alla realtà non ha più senso per un simile soggetto destituito d’ogni protagonismo e fattosi oggetto sotto i propri stessi occhi. La persona, che aveva egregiamente funzionato come luogo della volontà e delle decisioni, come scatenatrice di eventi, non sopporta la coscienza della propria perfezione come congegno, come macchina sociale, come uomo letteralmente artefatto, ossia costruito per saturare l’immagine della persona socialmente determinata e funzionare come tale. L’eventualità complementare, ossia quella di aderire volontariamente e ludicamente, con grande leggerezza, a qualcuno dei ruoli che si scoprono così gravosi al protagonista de La carriola, sarà umoristicamente sviluppata nel capitolo IV del sesto libro di Uno, nessuno e centomila, intitolato Medico? Avvocato? Professore? Deputato? (v. RII, pp. 864-7).
10 Proprio questo è il difetto incorreggibile di questi epifanici svelamenti e straniamenti umoristici: l’io può goderne (si fa per dire) solo a patto di scindersi e dimidiarsi. Alla potenza, tutta mentale, della sua nuova ottica, si oppone fatalmente la sua concreta impotenza come persona.
11 V. La trappola IV 305 e L’umorismo, in SPSV, pp. 151-3.
12 È la più stremata formulazione del paradossale doppio vincolo in cui l’uomo è preso: vivere comporta non vedersi e non sapere e tuttavia morire, ma conoscersi, ossia vedersi vivere, significa a sua volta constatare che la vita è cessata, significa morire. È questa la terribile coincidenza degli opposti: così la vita come la non-vita sono morte. Si tratta d’uno dei punti di massima e più luttuosa concentrazione del nichilismo che percorre il corpus pirandelliano. La tetra considerazione verrà ripresa in Uno, nessuno e centomila, e in termini quasi pedagogici, da Vitangelo Moscarda, irritato nel suo delirio di inconsistenza dall’ambivalenza di Anna Rosa, ferocemente insofferente «d’ogni cosa che accennasse a durare e stabilirsi» e nel contempo irresistibilmente e narcisisticamente attratta dallo specchio in cui non smette di mirarsi e dalle innumerevoli fotografie di sé che conserva: «– Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive. / – Ma nient’affatto! Non riesco anzi a tenermi mai ferma un momento, io. / – Ma vuole vedersi sempre. In ogni atto della sua vita. È come se avesse davanti, sempre, l’immagine di sé, in ogni atto, in ogni mossa. E la sua insofferenza proviene forse da questo. Lei non vuole che il suo sentimento sia cieco. Lo obbliga ad aprir gli occhi e a vedersi in uno specchio che gli mette sempre davanti. E il sentimento, subito come si vede, le si gela. Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai» (v. RII, pp. 889-90). L’ultimo a riprendere, un po’ cripticamente, il desolato aforisma sarà, nel 1934, il Romeo Daddi “impazzito” di Non si sa come: «ROMEO (staccando, con serietà piena di rimpianto e di ammirazione) Tu hai detto, Giorgio, una bella sentenza: la vita è a patto di credere; non di sapere. GIORGIO (sbalordito) Io ho detto così? ROMEO (senza far caso dello sbalordimento di Giorgio) Non l’hai detto? Scusami; me lo son figurato, perché un marinajo deve pensare così. GIORGIO Un marinajo? Perché? ROMEO Perché conoscersi è morire. GIORGIO E un marinajo non può conoscersi? ROMEO Un marinajo crede» (v. MNII, pp. 836-7).
13 Pirandello pubblicherà il 22 giugno 1921 su «L’Idea nazionale» lo scritto Gli scrupoli della fantasia (da allora fatto seguire come Avvertenza sugli scrupoli della fantasia a tutte le ristampe de Il fu Mattia Pascal). Ribatte in quelle pagine alle accuse di inverosimiglianza, cerebralità e disumanità che gli erano state mosse da più parti, e risponde in particolare ad Adriano Tilgher che, in un articolo recente (Il teatro dello specchio, in «La Stampa», 18-19 agosto 1920), gli imputava la mancanza di un «valore e senso universalmente umano» nelle vicende narrate e nei personaggi. Parte di questo autocommento apologetico, che vale ormai per il romanzo del 1904 che stava per essere ristampato ma anche, se non più, per i testi teatrali (basti dire che la prima dei Sei personaggi aveva avuto luogo il 9 maggio del medesimo 1921), calza come un guanto alla vicenda de La carriola: «Ma se il valore e il senso universalmente umano di certe mie favole e di certi miei personaggi, nel contrasto, com’egli dice, tra realtà e illusione, tra volto individuale ed immagine sociale di esso, consistesse innanzi tutto nel senso e nel valore da dare a quel primo contrasto, il quale, per una beffa costante della vita, ci si scopre sempre inconsistente, in quanto che, necessariamente purtroppo, ogni realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani, ma illusione necessaria, se purtroppo fuori di essa non c’è per noi altra realtà? Se consistesse appunto in questo, che un uomo o una donna, messi da altri o da se stessi in una penosa situazione, socialmente anormale, assurda per quanto si voglia, vi durano, la sopportano, la rappresentano davanti agli altri finché non la vedono, sia pure per la loro cecità o incredibile buonafede; perché appena la vedono come a uno specchio, che sia posto loro davanti, non la sopportano più, ne provan tutto l’orrore e la infrangono o, se non possono infrangerla, se ne senton morire? Se consistesse appunto in questo, che una situazione, socialmente anormale, si accetta, anche vedendola a uno specchio, che in questo caso ci para davanti la nostra stessa illusione; e allora la si rappresenta, soffrendone tutto il martirio, finché la rappresentazione di essa sia possibile dentro la maschera soffocante che da noi stessi ci siamo imposta o che da altri o da una crudele necessità ci sia stata imposta, cioè fintanto che sotto questa maschera un sentimento nostro, troppo vivo, non sia ferito così addentro, che la ribellione alla fine prorompa e quella maschera si stracci e si calpesti? / «Allora, di colpo» dice il critico «un fiotto d’umanità invade questi personaggi, le marionette divengono improvvisamente creature di carne e di sangue, e parole che bruciano l’anima e straziano il cuore escono dalle loro labbra.» / E sfido! Hanno scoperto il loro nudo volto individuale sotto quella maschera, che li rendeva marionette di se stessi, o in mano agli altri, che li faceva in prima apparir duri, legnosi, angolosi, senza finitezza e senza delicatezza, complicati e strapiombanti, come ogni cosa combinata e messa sù non liberamente ma per necessità, in una situazione anormale, inverosimile, paradossale, tale insomma che essi alla fine non han potuto più sopportarla e l’hanno rotta. / L’arruffìo, se c’è, dunque è voluto; il macchinismo, se c’è, dunque è voluto; ma non da me: bensì dalla favola stessa, dagli stessi personaggi; e si scopre subito, difatti: spesso è concertato apposta e messo sotto gli occhi nell’atto stesso di concertarlo e di combinarlo: è la maschera per una rappresentazione; il giuoco delle parti; quello che vorremmo o dovremmo essere; quello che agli altri pare che siamo; mentre quel che siamo, non lo sappiamo, fino a un certo punto, neanche noi stessi; la goffa, incerta metafora di noi; la costruzione, spesso arzigogolata, che facciamo di noi, o che gli altri fanno di noi: dunque, davvero, un macchinismo, sì, in cui ciascuno volutamente, ripeto, è la marionetta di se stesso; e poi, alla fine, il calcio che manda all’aria tutta la baracca» (v. RI, pp. 582-4). Ed è semmai da aggiungere che, rispetto al decorso qui descritto, che è quello dell’autodafé della maschera che «si scopre nuda», il destino del protagonista della novella, impossibilitato a sferrare «il calcio che manda all’aria tutta la baracca» e annoverabile fra coloro che, pur vedendo l’assurdità della propria condizione, non possono infrangerla e «se ne senton morire», è un destino ancor più crudele, che sarà impietosamente condensato nella infantile e terribile innocuità e inanità della sua ribellione.
14 Il motivo del fatto come prigione o «gancio» nel quale l’uomo resta ineluttabilmente impigliato, è tra i più costanti e ostinati. Proviene addirittura da Se..., novella del 1894 (v. I 83-4 e n. 13). Si ritrova ne Il dovere del medico (1902), in Personaggi (1906), in Risposta (1912) e in Candelora (v. p. 304), prima di venir ripreso nel 1921 in una battuta del Padre nei Sei personaggi in cerca d’autore (v. MN2, p. 701). Interconnesso ai moventi posti in essere dalla remotissima Se... e rabbiosamente riagitati ne La trappola, il motivo (e con esso questo passo de La carriola) verrà messo definitivamente a dimora in Uno, nessuno e centomila: «Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia più. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò che ha fatto, resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie, o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno, come un’aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta. E come potete più liberarvi?» (v. RII, p. 798). E anche l’angoscia che ne deriva echeggerà ancora in Trovarsi, nella seconda parte della lunga battuta di Donata Genzi cui s’è già avuto occasione di rinviare (v. MNII, p. 914).
15 Anche questo ritratto canino è ben noto: nella cagna lupetta si può infatti facilmente riconoscere una discendente della cagnolina appartenuta alla signorina Pepita Pantogada de Il fu Mattia Pascal: «Piccola, tozza, grassa su le quattro zampine troppo esili, Minerva era veramente sgraziata; gli occhi già appannati dalla vecchiaja e i peli della testa incanutiti» (v. RI, p. 535).
16 Sbizzarrirsi nel gioco.
17 Impietrita, stupefatta.
18 Come il sintomo non è la malattia, così, purtroppo, l’occulto e spostato gesto simbolico non è la liberazione e la guarigione, ma piuttosto la spia d’una regressione psicotica. Il personaggio non aderisce più alla sua antica e solida identità, si limita a fingerla e recitarla per gli altri; ma non ne ha conquistata, né può sperare di avviarsi a conquistarne, un’altra: può soltanto adombrarla infantilmente in quel momentaneo atto di ribellione. E resta catturato nell’insensato andirivieni fra la smisurata finzione della continuità e della tenuta e la finzione minima con la quale le nega replicando all’infinito l’euforia della scoperta e la disforia della propria scissione.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Giornale di Sicilia» il 21-22 febbraio 1915 (v. SFP, pp. 22 e 97-100). Nel 1917 fu compresa nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves). Nel 1928 entrò a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 «Nella pratica semiologica, la parola che per le sue caratteristiche fonetiche viene (e più spesso veniva) fatta pronunciare al malato nel caso dell’auscultazione e palpazione del torace allo scopo di individuare, mediante le valutazioni del fremito vocale, la presenza di eventuali versamenti pleurici o di adenopatie tracheo-bronchiali» (Devoto-Oli).
3 A ben guardare, non è chiaro che cosa questo trattino inserito nel testo debba separare o distinguere nella ininterrotta allocuzione della voce narrante, né risulta del tutto limpido e motivato il nesso esplicativo causale che segue (è ben per questo che...). Il leggero salto logico è dovuto al fatto che, in quest’ultima redazione, pare che la voce narrante, dopo aver detto che «il vero guajo è un altro» e che chi chiede quale sia mostra di non avvertirlo e dunque non merita spiegazioni, lasci effettivamente cadere la risposta. Nelle stampe del 1917 e del 1928 le cose non andavano così, poiché al posto della traccia residuale costituita da quel trattino si leggeva: «Che forse per sé, fuori di noi, le cose hanno un lor modo d’essere, un senso, un valore? Il modo è mio, il senso è in me, il valore è quello ch’io dò loro. E perché debbo accettare il vostro? Scusate. Non saprò mai nulla per me, domandando a voi; perché voi non potete sapere se non ciò che pare a voi. E che gusto avrò io a saper le cose a modo vostro? Scusate». E, dopo la pausa d’un accapo, il discorso riprendeva: «Ecco, dunque, il vero male, dunque, amici miei, è questo, che ormai» ecc. (v. NUAIII, pp. 1302-3). Agli amici, ancorché immeritevoli, la risposta veniva data e corrispondeva, senza causali ambigue, alla sintetica definizione del «vero male», costituito dall’«immutabile realtà convenuta e convenzionale» che la collettività umana, in forza d’una comunanza di idee diventata norma egemone e consuetudine passiva, ha sovrammesso nei secoli alle cose. Il vero guaio non è dunque tanto l’incomunicabilità, e la conseguente non fruibilità, del sapere soggettivo, quanto l’oppressione mummificante del sapere collettivo.
4 Un lampo, il fulgore di un attimo.
5 Il motivo dell’insofferenza delle forme e delle convenzioni, impostato chiaramente fin da L’umorismo (v. SPSV, pp. 151-3), era già stato sviluppato in modo intenso e suggestivo ne La trappola e ne La carriola; ed è destinato a riaffiorare dolorosamente, tra non molto, in Pena di vivere così (v. VI 99-100). Ma l’aspirazione del «pazzo» monologante è la più ambiziosa: quella di forzare il varco scopertosi alla visione e all’intuizione d’un attimo e di passare stabilmente oltre, in quella dimensione complessivamente altra in cui le cose hanno un senso nuovo, e nuove, inusitate, sarebbero tutte le relazioni che con le cose si stabilissero. I vecchi mondi di carta, i recenti richiami dei treni che fischiano ed anche i rimedi avvenire della geografia sarebbero tutti patetici surrogati a fronte di quest’impresa. Non per caso, di questa lunga considerazione e dei propositi che la concludono serberà precisa memoria, ancora nel 1932, lo scontroso Elj Nielsen di Trovarsi, che prima dirà: «Mi voglio conservare gli occhi nuovi, io, ha capito? E sto con la natura. Mi guardo da ogni intimità, come dalla peste. Non voglio disillusioni. Voglio che anche gli altri mi restino nuovi. Tutto nuovo. Il bello per me è l’improvviso... ciò che non par vero... le sorprese continue che vengono... Se considero una cosa da vicino e sto a pensarci, addio! Vivere in società? domandare perché uno ha detto o fatto una tal cosa? È da crepare. Io voglio restare estraneo: estraneo»; e in seguito chiarirà: «Non posso soffrire tutto quello che è solito [...] Dipingo male – grazie – lo so; ma perché non è facile, sai, dipingere come vorrei io... le cose come appajono in certi momenti... lo scoppio, lo scompiglio di tutti gli aspetti consueti che hanno ridotto la vita, la natura, oh Dio, come una moneta logora, senza più valore. Io non capisco: è come volersi umiliare... subire... Il solito cielo che t’ammicca con le solite stelle, sulle solite case che ti sbadigliano con le solite finestre, e tu che vai sul solito lastricato delle solite strade... Ah, che soffocazione! Ti sarà avvenuto qualche volta – non sai come – non sai perché – di vedere all’improvviso la vita, le cose, con occhi nuovi... – pàlpita tutto, a fiati di luce – e tu, sollevata in quel momento e con l’anima tutta spalancata in un senso di straordinario stupore... – Io vivo così! In questo stupore! E non voglio sapere mai nulla!» (v. MNII, pp. 921 e 928-9).
6 Leggera tela di cotone.
7 La delirante illusione conoscitiva che anima il narratore è quella per cui le cose (qui la mano, sola parte visibile d’un uomo invisibile e sconosciuto), emancipate dalle relazioni consuete, osservate, lasciate parlare attraverso le loro segnature e i loro moti, e ascoltate, possono raccontare favole autentiche e altrimenti inconoscibili. Naturalmente, la trappola che egli non vede è quella delle parole, sue e solo sue, nelle quali è costretto a tradurre i cenni e gli atteggiamenti, muti e «forse incoscienti», della mano narrante.
8 Magra, smunta (macro è voce letteraria).
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Giornale di Sicilia» il 22-23 marzo 1915 (v. SFP, pp. 22 e 102-4). Nel 1917 venne compresa nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves). Nel 1928 entrò a far parte del tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad).
2 L’immagine delle lumachelle che nascono dopo la pioggia, proveniente da Gara, una lirica di Zampogna (v. SPSV, p. 598), verrà ripresa nel 1920 in una prosetta che vuole rappresentare una sorta di allegoria vegetale del teatro «grottesco»: «Non sono tutte gusciaglia. Guardate qui che bollichío iridescente, ora che si mettono a far la bava! Eh, i fiori, profumo; le lumachelle, bava. Ma fa pure un bel vedere, questa bava che luce, or che rigonfia così tutta fervida e così tutta riflessi e colorata, or che risiede frigida, e vi spuntano per entro, uno più lungo e l’altro meno, gli occhi della lumachella che fa le corna per guardare intorno, a tentoni, sorniona» (v. SPSV, pp. 991-2).
3 L’immagine caricaturalmente degradata del professore di storia non ammette dubbi: l’ironia è evidente. Al proposito, in uno dei Foglietti pubblicati da Corrado Alvaro nel 1938 si legge (v. SPSV, p. 1227): «Il dilemma che si vuol fare per la storia, o arte o scienza, è veramente specioso. Quasiché essa per forza debba essere o l’una o l’altra. Ma la storia non è né arte né scienza: la storia è storia. Assume aspetto scientifico quando alla ricostruzione e alla interpretazione dei fatti applica certe leggi psicologiche individuali, sociali, tecniche, ecc.; aspetto artistico quando anima con l’opera della fantasia la visione dei fatti accertati». V. anche la vicina Berecche e la guerra, p. 187, da dove il motivo pare riverberare.
4 Il narratore, evocando la lupa e gli avvoltoi, allude a quanto tramandato da Livio a proposito della leggendaria salvazione dei gemelli Romolo e Remo e della fondazione di Roma. V. TITO LIVIO, Ab urbe condita libri, I, 4: «Tenet fama cum fluitantem alveum, quo expositi erant pueri, tenuis in sicco aqua destituisset, lupam sitientem ex montibus qui circa sunt ad puerilem vagitum cursum flexisse; eam submissas infantibus adeo mitem praebuisse mammas ut lingua lambentem pueros magister regii pecoris invenerit – Faustulo fuisse nomen ferunt» [Persiste ancora la tradizione che, quando le acque poco profonde lasciarono in secco l’ondeggiante canestro nel quale i bimbi erano stati abbandonati, una lupa assetata, scesa dai monti circostanti, fu attratta dai loro vagiti; che essa, abbassatasi, offrì le sue poppe ai piccini con tanta mansuetudine, che il mandriano del re – dicono si chiamasse Faustolo – la trovò nell’atto di lambire i bimbi con la lingua]; e I, 6-7: «Quoniam gemini essent nec aetatis verecundia discrimen facere posset, ut di quorum tutelae ea loca essent auguriis legerent qui nomen novae urbi daret, qui conditam imperio regeret, Palatium Romulus, Remus Aventinum ad inaugurandum templa capiunt. // Priori Remo augurium venisse fertur, sex voltures; iamque nuntiato augurio cum duplex numerus Romulo se ostendisset, utrumque regem sua multitudo consalutaverat: tempore illi praecepto, at hi numero avium regnum trahebant. Inde cum altercatione congressi certamine irarum ad caedem vertuntur; ibi in turba ictus Remus cecidit» [Poiché erano gemelli, e non valeva dunque come criterio risolutivo il rispetto dovuto all’età, affinché gli dèi sotto la cui protezione erano quei luoghi indicassero con segni augurali chi doveva dare il nome alla nuova città, chi dopo averla fondata doveva regnarvi, Romolo, per prendere gli auspici, occupò come luogo d’osservazione il Palatino; Remo l’Aventino. Si dice che a Remo per primo apparvero come segno augurale sei avvoltoi; e poiché, quando ormai l’augurio era stato annunziato, se n’erano offerti alla vista di Romolo il doppio, le rispettive schiere li avevano acclamati re entrambi: gli uni pretendevano d’aver diritto al regno per la priorità nel tempo, gli altri invece per il numero degli uccelli. Venuti quindi a parole, dalla foga della discussione furono spinti alla strage; fu allora che Remo cadde colpito nella mischia] (v. TITO LIVIO, Storia di Roma dalla sua fondazione, vol. I, introduzione e note di Claudio Moreschini, traduzione di Mario Scàndola, Milano, Rizzoli, 19947, pp. 236-7 e 240-1).
5 Mosche cavalline, in quanto molestano gli animali nelle parti posteriori (culajo è voce toscana).
6 «Le pare [...] mill’anni» vale: non vede l’ora (v. già La signorina I 161).
7 Una bellezza.
8 Edificata su un progetto nuovo di zecca. V. già Concorso per referendario al Consiglio di Stato II 183.
9 Quelle che sfruttano la luminosità dell’arco voltaico, ossia della scarica elettrica che il passaggio della corrente produce tra due elettrodi posti a opportuna distanza.
10 Sorbire appena il colmo. V. Un invito a tavola I 323 e n. 16: «– Eh via, per aprir l’appetito, – gli suggerì Nicola, dandogli in mano il bicchiere. / Allora don Diego lo accostò alle labbra, per cortesia, e lo scoronò appena appena con un sorsellino cauto».
11 Il nonagenario Romolo riprende qui una considerazione che era stata di Quaquèo, il lampionaio filosofo di Certi obblighi (v. IV 274): «E a guardare così da lontano, si pensa che i poveri uomini, sperduti come sono sulla terra, tra le tenebre, si siano raccolti qua e là per darsi conforto e ajuto tra loro; e invece no, invece non è così: se una casa sorge in un posto, un’altra non le sorge mica accanto, come una buona sorella, ma le si pianta di contro come una nemica, a toglierle la vista e il respiro; e gli uomini non si uniscono qua e là per farsi compagnia, ma si accampano gli uni contro gli altri per farsi la guerra».
12 Non ce la faceva (non riparare in questa accezione è espressione del toscano familiare).
1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo La signora Frola e il sig. Ponza, suo genero, sul «Giornale di Sicilia» il 20-21 aprile 1915 (v. SFP, pp. 22 e 115-7). Con il titolo attuale, venne compresa nel 1917 nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves). Fu poi recuperata dall’editore (senza plausibili motivazioni) in sede di allestimento del quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937), nel quale, con gratuita incongruità, venne ristampata – così come Padron Dio, testo risalente addirittura al remoto 1898, e Quando s’è capito il giuoco (1913) – insieme alle ultime dodici novelle pirandelliane. Nell’aprile del 1917 (simultaneamente dunque all’uscita della novella in raccolta, o addirittura prima) Pirandello ha inviato in lettura all’attore e capocomico Ruggero Ruggeri Così è (se vi pare), la «parabola» teatrale in tre atti sviluppata a partire dalla novella e che la compagnia di Virgilio Talli metterà in scena il 18 giugno al Teatro Olympia di Milano. Che Pirandello abbia deciso di non inserire il racconto nel novero delle «novelle per un anno», si può spiegare quasi certamente proprio col fatto che Così è (se vi pare), il suo primo capolavoro teatrale in lingua italiana, rappresentato con successo, in certo modo bruciò la sintetica sceneggiatura novellistica. Et pour cause, dal momento che la commedia-parabola non è, come spesso altre volte, l’amplificazione d’un canovaccio narrativo, e costituisce invece un ripensamento sostanziale, che comporta un tutt’altro equilibrio dell’ottica e dei conflitti che presiedono alla vicenda.
2 Il narratore-allocutore propone a sorpresa, e con effetto disorientante, come passo d’apertura e come premessa al racconto, quella che è una delle conclusioni di esso («c’è da ammattire»), conclusione che sarà ripresa, tale e quale, a storia raccontata.
3 Probabile toponimo di fantasia. V. L’illustre estinto, n. 15.
4 Preliminare rispetto alla narrazione dei fatti, e tuttavia anch’essa conclusiva, la presa di posizione giurata del narratore non potrebbe essere, all’apparenza, più ferma e dirimente di così. Egli si dà, infatti, come una voce valdanese interna alla collettività cittadina e compresa della terribilità del dilemma che la follia della suocera o del genero pone alla comunità. Ma l’impegno non richiesto ed estremo del giuramento, l’enfasi della sua perorazione esclusivamente preoccupata dell’angoscia e dello sgomento dei concittadini, e la sua totale adesione ai loro dubbi ottusi, devono mettere in sospetto. I paesani e anche i cittadini pirandelliani (vale a dire la folla, la gente, la massa) cadono facilmente nei tranelli di simili dilemmi apparentemente bicorni, per sciogliere i quali non hanno strumenti interpretativi abbastanza acuminati. E altrettanto vale per personaggi semplici o troppo appassionati, che gli eventi e i sentimenti sconvolgono e travolgono. Ma alcuni personaggi privilegiati, e soprattutto i narratori pirandelliani, sono fatti di un’altra pasta: sono, in primo luogo, e spesso, umoristi, e gli umoristi non giurano mai sul serio. Chi ne dubitasse, tenga presente che da una costola di questo narratore ambiguo nasce, nel testo teatrale, lo straordinario personaggio di Lamberto Laudisi, il quale mostrerà che lo sgomento angosciato della cerchia cittadina altro non è che futile, inquisitoria e persecutoria curiosità nei confronti del riserbo sofferente della signora Frola e del signor Ponza; e che ci sono verità essenziali negate alla comprensione della gente comune e referenze recondite inattingibili per i prefetti e per la loro cerchia.
5 L’immaginario indirizzo di Valdana corrisponde alla lettera a quello della casa di Richieri di cui Vitangelo Moscarda fa donazione a Marco di Dio in Uno, nessuno e centomila (v. RII, p. 834).
6 Al primo momento, dapprima.
7 Giustificare capziosamente. V. già Il nido I 214.
8 Dapprima, in un primo tempo.
9 La storia è finita. Ed è, palesemente, una storia triste e oscura, che ha imprigionato tre persone in una claustrazione senza scampo e in una rete relazionale patologica tendenzialmente indissolubile. Tutti e tre ne soffrono e nessuno dei tre può farne a meno. I fantasmi di ciascuno dei tre compongono la loro realtà, mentre ognuno dei tre ritiene di dover amorosamente e pietosamente sacrificare la propria realtà ai fantasmi degli altri due.
10 Si abbiano presenti l’incipit del racconto e la n. 2. Coerente con la sua postazione ironico-umoristica, il narratore finge nuovamente di appiattirsi sull’irrisolto interrogativo che mette a repentaglio le rozze certezze conoscitive della collettività sociale. Tutt’altro sarà l’atteggiamento di Laudisi (erede diretto del narratore de La mano del malato povero e di tutti i personaggi che sostengono la non omologabilità e la non condivisibilità delle opinioni soggettive), il quale spenderà invano la propria saggezza presso la gretta società inquirente: «LAUDISI E chi dei due? Non potete dirlo voi, come non può dirlo nessuno. E non già perché codesti dati di fatto, che andate cercando, siano stati annullati – dispersi o distrutti – da un accidente qualsiasi – un incendio, un terremoto – no; ma perché li hanno annullati essi in sé, nell’animo loro, volete capirlo? creando lei a lui, o lui a lei, un fantasma che ha la stessa consistenza della realtà dov’essi vivono ormai in perfetto accordo, pacificati. E non potrà essere distrutta, questa loro realtà, da nessun documento, poiché essi ci respirano dentro, la vedono, la sentono, la toccano! – Al più, per voi potrebbe servire, il documento, per levarvi voi una sciocca curiosità. Vi manca, ed eccovi dannati al meraviglioso supplizio d’aver davanti, accanto, qua il fantasma e qua la realtà, e di non poter distinguere l’uno dall’altra!» (v. MN1, p. 469).
11 Via via i termini della questione sono stati messi in gioco tutti: egoismo, gelosia, crudeltà, malattia, pazzia, amore. I valdanesi non risolveranno mai il falso dilemma (chi è il pazzo dei due) perché non è loro mai riuscito di capire in che modo l’amore possa coniugarsi con quegli altri termini. Eppure la realtà non fantasmatica che sta sotto i loro occhi è quella d’un amore malato che protegge se stesso con ogni mezzo.