«Be’, Josh, almeno hai imparato che, se qualcosa sembra troppo bello per essere vero, probabilmente è così.»
Mi sono chiesto quanto tempo sarebbe passato prima che qualcuno se ne uscisse con quel commento arguto sul cognome di Jade.1 Otto minuti e trentasette secondi dall’inizio della festa, ancor prima di quanto avessi previsto.
Non è neanche ancora entrato in casa, ma l’onore va a zio Peter. Un uomo dal cui aspetto si direbbe che sia arrivato non con una Mercedes 4×4, ma con una macchina del tempo direttamente dall’estate del 1976. Sembra un membro del duo Hall & Oates, quello con gli orrendi baffi. La sua camicia, sbottonata fino a metà sul petto, mette in mostra una catena d’oro pacchiana e un tappeto di peluria grigia.
Entra dandomi formalmente la mano e stringendomela forte, come se fossimo a un convegno d’affari e non a una festa. Vent’anni di lavoro nella City gli hanno regalato non solo una ricca pensione, la possibilità di godersela presto e di comprarsi un’auto di lusso, ma anche la propensione a dare la mano a chiunque incontri: controllori ferroviari, cassieri dei supermercati, addetti alle toilette.
«Scusa, non abbiamo avuto il tempo di cambiarlo», afferma senza mostrare alcun segno di rammarico o di imbarazzo quando mi piazza in mano un regalo. Indica in direzione dei miei cugini, Petula, Penelope e Percival, che stanno scendendo dall’auto e sono troppo impegnati con i loro nuovi iPhone per alzare lo sguardo.
Anche nelle occasioni migliori detesto aprire i doni di fronte alla gente. C’è sempre quel momento, appena lo hai scartato, in cui devi fingere di sorridere. Oggi non sorriderò né fingerò di farlo, e mentre lo zio se ne sta sulla soglia invitandomi con un gesto ad aprirlo, non ho l’energia né la verve per mettermi a discutere. Strappo quella che sembra una carta natalizia riciclata da cui spunta un libro intitolato Come organizzare il matrimonio perfetto.
Geniale.
Davanti c’è ancora l’etichetta adesiva £ 1.99. Non so cosa sia più offensivo.
«Un giorno ti verrà sicuramente utile!»
Sogghigna e mi dà una pacca sulla schiena superandomi per stringere la mano a chiunque si sia già riunito in salotto, dove la festa è già nel pieno. Come sottofondo immaginate Sinatra e Martin più che drum and bass. Papà non ama la musica moderna e considera tale qualsiasi pezzo post anni Sessanta.
Mi caccio in tasca la carta da regalo. Indosso ancora gli stessi abiti che portavo a Londra ieri sera. Ho deciso di non tornare nel nostro appartamento. Non da solo. Non dopo tutto quello che è successo. Per fortuna i miei genitori vivono poco fuori Bristol. E in momenti del genere non c’è un altro posto come casa. O così credevo.
I miei cugini seguono il loro padre al di là della soglia porgendomi tutti le loro condoglianze a doppio taglio, come se per passare il tempo durante il viaggio non avessero ascoltato la radio ma escogitato battute comiche ad hoc.
«Jade Toogood? Direi più che altro Jade Poco di buono.»
«Farle la proposta non è stata chiaramente un’idea troppo buona.»
«Era ovviamente troppo buona per te.»
Faccio del mio meglio per non reagire.
La mamma si è vagamente sovreccitata quando le ho detto che avrei chiesto a Jade di sposarmi e ha pensato che sarebbe stata una buona idea riunire la famiglia, i vicini e a quanto pare una serie di sconosciuti per una festa di fidanzamento a sorpresa. Cosa ci può essere di peggio che passare un giorno a festeggiare il tuo fidanzamento con persone che quasi non conosci? La risposta è passarlo con loro a piangere il tuo mancato fidanzamento.
«Gli inviti sono già partiti», ha spiegato la mamma quando le ho chiesto se potessimo annullare tutto. Mi ha guardato come se i partecipanti fossero rimasti accampati in strada per settimane e non bastasse fare un giro di telefonate per dire a tutti di non preoccuparsi di venire.
Lo striscione FELICE FIDANZAMENTO appeso sulla facciata della nostra casa rivestita di mattoni degli anni Sessanta è stato girato e trasformato con un pennarello in modo piuttosto creativo, devo ammetterlo, in FELICE RITORNO A CASA. È di certo una nuova visione del motivo per cui sono tornato così all’improvviso a vivere con i miei. La maggior parte delle persone avrebbe comprato un nuovo striscione. Ma in fondo la maggior parte delle persone avrebbe annullato la festa. I miei non sono la maggior parte delle persone.
La mamma aspettava questo giorno, e la possibilità di mettersi in mostra nel quartiere, da secoli. L’ultima festa che aveva dato risaliva a quando io, il primo della famiglia, ero stato ammesso all’università. Aveva raccontato a tutti che avevo rinunciato alle offerte di Oxford e di Bath, piuttosto che della Brookes and Spa. Mettersi in mostra è il passatempo nazionale in questo paese. È più o meno tutto quello che c’è da fare a Cadbury. Se il vicino Weston-super-Mare ha un molo e gli asini che puoi cavalcare sulla spiaggia, Cadbury ha una rivendita di fish and chips, una farmacia che serve anche ufficiosamente da luogo d’incontro del gruppo Weight Watchers e il PUB NAZIONALE DELL’ANNO, come annuncia fiera l’insegna. Solo in piccolo si precisa che il riconoscimento è stato conferito nel 1987 e che da allora il locale ha avuto cinque gestioni diverse. In paese nessuno si laurea mai. Io volevo fuggire, vedere il mondo, imparare l’arte e la letteratura, innamorarmi, ma grazie a una serie di cattive scelte sono stato risucchiato qui senza che mi sia rimasto niente in mano. Non ho una fidanzata. Non ho una carriera. Non ho niente.
Mi allontano dalla porta d’ingresso e sbircio in salotto. Papà, come sempre quando si trova in mezzo a un gruppo di persone, sfrutta l’occasione per far soldi. Con una camicia scozzese addosso e i pochi capelli che ancora gli rimangono in testa, è nell’angolo a organizzare una scommessa su chi sarà il primo a morire in paese. Se azzecchi chi tirerà le cuoia per primo, ti porterai a casa il piatto (ovviamente dopo che papà si sarà preso la sua lauta commissione). Non so se sia peggio di quando ha speculato sulla cerimonia della mia laurea comprando biglietti in più e rivendendoli a prezzi esorbitanti davanti al Barbican.
La mamma nel frattempo è nel suo elemento, si aggira estasiata per la stanza con vassoi di canapé come se fosse un’ospite dell’alta società nella New York degli anni Venti. Da poco in pensione dopo che ha lasciato il suo lavoro di agente immobiliare, si abbuffa di cioccolatini, così potrà partecipare al gruppo Weight Watchers, che considera più un evento sociale e una scusa per conoscere pettegolezzi succosi. L’unico sfogo che ha altrimenti è Graham, il suo terapeuta, che ha iniziato a vedere ogni settimana e che sostiene di saper predire il futuro. Presumibilmente non le ha detto che sarebbe successo questo.
La nonna, che pare rimpicciolirsi sempre più ogni volta che la vedo, canta e balla nel centro della sala esibendosi in una performance solitaria de Il mago di Oz per chiunque voglia assistervi. È l’anima di ogni festa.
Benché questa sia stata data apparentemente in mio onore, non riconosco gran parte delle altre persone stipate in sala. Anzi, non riconosco quasi la sala. La mamma l’ha arredata con una varietà di mobili, ornamenti e ninnoli che domani papà riporterà nei negozi da cui provengono. Per un giorno soltanto sembra che viviamo in una casa di Good Housekeeping. Il divano è nuovo. Ci sono plaid, cuscini e pouf. Ci sono piccole targhe con frasi motivazionali tipo «Tutto succede per una ragione», «Sta’ calmo e va’ avanti», «Quello che non ammazza ingrassa». Persino i sottobicchieri mi incitano a: «Vivere, amare, ridere».
Sulla mensola del caminetto c’è una serie di fotografie mie degli anni di scuola, sebbene tutte con il copyright stampato all’altezza della mia faccia. Papà pensava di fare un affare e, cosa più importante, di fregare il sistema incorniciando i provini invece di acquistare le stampe «maledettamente care» da venti per venticinque.
Tra le persone che riconosco c’è Madeline, il sindaco autoeletto del paese e di solito la principale organizzatrice di eventi simili, che senza dubbio giudicherà duramente quello in corso. È con suo marito, Geoff, affetto da un disturbo d’ansia, vale a dire che detesta le situazioni imbarazzanti e ha la fobia di mangiare in pubblico. Volendo evitare impicci, è troppo educato per rifiutare un canapé quando gli viene offerto, perciò a fine giornata si ritroverà con le tasche piene di vol-au-vent al formaggio spalmabile e al salmone affumicato.
Mi giro e individuo il nostro vicino, Desmond, impegnato a provarci con donne che hanno la metà dei suoi anni e a raccontare orrende barzellette che non arrivano mai alla battuta finale. Tra poco russerà da qualche parte rischiando di soffocare per via della dentiera. Sua moglie, Beryl, è seduta sulla sedia a rotelle e dichiara a chiunque sia disposto ad ascoltare che «non vuole parlare della sua salute» un attimo prima di cominciare a intrattenerlo con la sua intera storia clinica. È incredibile, qualsiasi problema di salute abbia una persona nella sua vita, Beryl ben presto lo sviluppa, come se la demenza fosse contagiosa e poi curabile in un mese.
Il campanello suona di nuovo e torno di corsa al mio compito di portiere.
«Oh, mi spiace davvero tanto, Joshy», esclama Karen, la mia ex baby-sitter, entrando. La mamma ha invitato proprio tutti. A quanto pare, Karen non si rende conto che sono passati due decenni da quando mi metteva a letto e che oggi basterebbe chiamarmi Josh. Mi porge una scatola di Celebrations che aggiungo al mucchio sempre più alto di confezioni, barattoli e contenitori di cioccolatini che mi hanno già regalato. Probabilmente abbiamo regalato a tutti loro quelle stesse scatole la settimana scorsa, e ce le stanno restituendo con dentro soltanto i Milky Ways e i Bounty.
«Non temere, sono sicura che presto conoscerai un’altra ragazza.»
«Grazie», rispondo a denti stretti. «Se vuoi andare da quella parte…» Indico in direzione della sala, dove ora Geoff sta sudando abbondantemente.
Non so cosa sia peggio, le battute o la solidarietà. Non sono ancora pronto per nulla di tutto ciò. Voglio raggomitolarmi da qualche parte, piangere disperatamente fino a farmi scoppiare gli occhi, ingozzarmi di tutto quel cioccolato. Sono passate solo ventiquattr’ore. Non mi sto preoccupando di conoscere prima o poi qualcun’altra. Non voglio quell’anima gemella splendida, attraente, al momento misteriosa, che tutti continuano a promettere che esista là fuori da qualche parte, nel vasto mondo, e che mi sta aspettando. Voglio Jade, voglio il futuro che avevamo progettato e rivoglio la mia vita normale. E come se non fosse già abbastanza brutto il fatto d’essere tornato a vivere dai miei, sembra che ora debba condividerlo con l’intero paese.
Prima che possa accogliere qualche altro sconosciuto del passato, sento uno strillo arrivare dalla sala. Mi precipito a vedere cosa sia successo e noto Geoff, che trema e respira a fatica, in preda a un attacco di panico. Di chi è stata l’idea di invitare l’uomo più ansioso del mondo alla festa più imbarazzante del mondo? Gli dicono di sedersi sul divano ma lui si scorda della quantità di formaggio spalmabile stivata nelle sue tasche posteriori, che schizza di colpo dappertutto. La mamma afferra un canovaccio umido e corre frenetica di qua e di là lamentandosi che la macchia non verrà via. Papà si immusonisce appena si rende conto che non potrà restituire il divano al negozio e che forse perderà anche la scommessa. Madeline, tutt’altro che preoccupata per le condizioni del marito, appare sospettosamente contenta che questa festa non appannerà la sua soirée estiva. La nonna prosegue pervicace la sua esibizione solitaria. Anche Beryl sta simulando un attacco di panico. E Desmond, malgrado tutto, riesce in qualche modo a dormire. Con tutti gli altri accalcati intorno a Geoff, non c’è niente che possa fare per dare una mano, perciò sfrutto l’occasione per dileguarmi e fuggire in camera mia. L’ultima cosa che vedo è Peter che stringe le mani ai paramedici appena arrivano.
Manco da casa da dieci anni e non avrei potuto avere un quadro più incisivo di quel che significa tornare al passato. La mia camera è incredibilmente intatta. I poster di David Beckham e Michael Owen risalenti all’adolescenza tappezzano ancora le pareti beige, c’è una lampada lava sulla mensola e in cima all’armadio spiccano i Beanie Babies che avevo collezionato da bambino. Mi aspettavo quasi di scoprire che papà la avesse inserita su Airbnb, invece l’unica persona lì è il nonno, seduto sul letto a guardare La vita è meravigliosa in TV, ignaro della catastrofe e del panico che dilaga di sotto.
«Scusa, Josh. Spero che non ti spiaccia. Là fuori c’è un po’ troppo baccano per me.»
La mamma non ha sicuramente ereditato il gene sociale dal ramo paterno della famiglia. A differenza della nonna che adora essere al centro dell’attenzione, lui non è mai stato tipo da eventi sociali. Anzi, lo si vede di rado in pubblico. In genere si avventura fuori solo per la lezione settimanale di danza per pensionati con la nonna, e anche in quel caso smania di andarsene appena finisce, mentre lei ama trattenersi, chiacchierare con tutti. A parte questo, passa tutto il tempo a suonare l’organo che hanno nel loro cottage o a guardare la televisione. Eppure, nonostante le differenze, sono sposati da quasi sessant’anni e sembrano sempre innamorati.
«Cosa pensi di tutto quanto?» Il nonno fa sempre questa domanda, e non so mai con precisione a cosa si riferisca.
«Della festa? Mettiamola in questo modo, stando qui non ti stai perdendo niente.»
«Allora fammi compagnia e guarda il film con me.» Mi indica di sedermi vicino a lui sul letto.
Ho visto questo film quasi ogni Natale della mia vita. È l’unico che mi commuova.
Restiamo seduti in silenzio a guardare la televisione. Diversamente da tutti gli altri, il nonno sa che non voglio parlare di Jade. Mentre George Bailey e Mary stanno per ricongiungersi sullo schermo, si accorge che forse non è la cosa più indicata per me.
«Sappiamo tutti come va a finire. Vuoi guardare qualcos’altro?» Fa per passarmi il telecomando.
«Non chiedermi di decidere, in questo periodo non ne combino una giusta», affermo.
Mi domando se mi abbia sentito, perché per buoni trenta secondi non risponde.
«Penso che tu sia molto duro con te stesso. C’è una ragazza in questo momento a Londra che ha preso la decisione sbagliata, non tu», risponde infine.
Continuiamo a guardare la TV conversando, e le nostre parole rimbalzano contro lo schermo.
«Grazie, nonno, ma sul serio, guarda tutte le scelte che ho fatto e dove mi hanno portato. Ho scelto il lavoro sbagliato. Ho scelto la ragazza sbagliata, sicuramente il momento sbagliato per chiederle di sposarmi. Metà delle volte non so cosa voglio e quando faccio una scelta, sembra essere quella errata.»
Lui mi mette la mano sulle ginocchia.
«Devi tenere presente che quand’ero giovane, non avevamo tante scelte come voi, andavamo avanti e basta. Ho lasciato la scuola a tredici anni e ho cominciato a lavorare. Volevo forse fare l’impresario edile? Non avevo mai conosciuto altro. Mi sarebbe piaciuto diventare pianista, ma così è andata. Prima che nascessi, gli uomini andavano in miniera e sposavano la ragazza della porta accanto.»
«Forse era meglio», borbotto finché ricordo che soffro di claustrofobia e che la ragazza della porta accanto è l’ipocondriaca ottantatreenne che sta di sotto.
«Forse sì, e non dico che sia meglio ora o che lo fosse allora, ma guardo la tua generazione e penso quanto fortunati siete ad avere così tante opportunità. Potete fare quello che volete nella vostra vita. Dovete solo capire cosa desiderate e mettervi sotto.»
«Ma come faccio a sapere cosa voglio?»
«Quando lo troverai, lo saprai, sei un ragazzo sveglio.» Si gira per la prima volta, mi strizza l’occhio e mi arruffa i capelli. «E inoltre hai molto più tempo di me per capirlo.»
«Io volevo Jade.»
«Lo so, e so che qualsiasi cosa dica non cambierà questo fatto. Però c’era una ragazza che mi piaceva prima che conoscessi tua nonna e sono rimasto distrutto quando si è messa con uno dei miei amici. È saltato fuori che è stata la cosa migliore che mi sia mai capitata. Poche settimane dopo ho visto per la prima volta tua nonna. Pensaci, tu non saresti qui oggi se le cose fossero andate in modo diverso.»
Ho visto alcune vecchie foto in bianco e nero del nonno da giovane e stento a credere che una ragazza lo abbia respinto. Ha ancora la stessa riga laterale, ma ora i suoi capelli sono bianchi anziché castani.
Torna lentamente alla pagina del menu della TV per vedere cos’altro c’è, e io resisto alla tentazione di togliergli il telecomando di mano per farlo più velocemente.
«Sembra che Il Grinch e Mamma, ho perso l’aereo stiano per cominciare», annuncia incuriosito mentre passa in rassegna l’elenco dei film.
«Non mi importa cosa guardiamo.»
«Perché non lanciamo una moneta? Ne hai una?» Si controlla le tasche scordandosi che la sua giacca e il portafoglio sono dabbasso.
Frugo nelle mie e ne estraggo il contenuto. Fisso la moneta da cinquanta pence che ho raccolto ieri sera e la scatola con l’anello. Noto che il nonno la vede ma fa finta di niente.
«Dai, sbrighiamoci, tiriamo la moneta che hai là.»
E così, in quel momento, mentre la lancio e la osservo roteare nell’aria, mi viene un’idea.
Ed è fantastica.