31.

È accaduto così in fretta.

Le farfalle mi svolazzano frenetiche nello stomaco mentre leggo il messaggio.

Jessie.

Perché Jessie vuole incontrarmi davanti ai Girasoli? Perché sta venendo a Parigi? Perché non me lo ha detto prima al telefono?

Rispondo chiedendole cosa intenda, ma che sia sull’aereo o che mi stia ignorando, non ottengo altre informazioni. Ammazzo il tempo seduto a un caffè fissando il cellulare in attesa di un suo riscontro e sperando di ricevere un messaggio dalla Ragazza dei girasoli. Mi chiedo se l’uomo del negozio le abbia già dato il biglietto. Sto male per l’agitazione. Sono tentato di tornare alla libreria ma guardando l’orologio mi rendo conto che dovrei incamminarmi verso il museo. Appena mi avvicino al Musée d’Orsay, mi accorgo che la sua proposta di vederci davanti ai Girasoli è una cattiva idea. Soprattutto alle tre di sabato pomeriggio.

Avrebbe tranquillamente potuto darmi appuntamento a Times Square l’ultimo dell’anno. Benché non sia alta stagione, la coda davanti all’ingresso si allunga, serpeggia e curva intorno all’edificio. I turisti smaniosi di stamattina sono stati saggi.

Quando infine riesco a entrare, resto subito sbalordito dall’imponenza dell’edificio. È una stazione ferroviaria riconvertita, con i pavimenti di marmo e il soffitto ornato, però si stenta a credere che i treni un tempo arrivassero e partissero da qui. I cartelli mi indicano la direzione della mostra – i Girasoli sono ovunque – e l’enorme orologio dorato sopra la mia testa ticchetta verso l’ora dell’appuntamento. Mancano venti minuti.

Entro alla mostra guardando le opere e leggendo i testi. Vengo ben presto circondato da un gruppo di visitatori con i cordini rossi al collo e le audioguide incollate alle orecchie come cellulari. Si fermano e si accalcano intorno allo stesso dipinto finché la voce all’orecchio li invita a proseguire. Come un branco, partono a caccia del quadro seguente.

Supero la splendida Notte stellata e mi siedo sulla panca di legno parallela ai Girasoli, sentendomi ormai un po’ un esperto delle opere di Van Gogh. Dopo aver osservato le tonalità di giallo per quasi quindici minuti, percepisco che il sorvegliante che controlla la sala inizia a sospettare di me. Mi chiedo se assomiglio più a qualcuno che sta progettando un complicato furto d’arte o a uno squilibrato intenzionato a distruggere un pezzo inestimabile di storia dell’arte. Probabilmente il secondo.

Sono le tre.

Lei dov’è? Perché non prende il telefono e risponde ai messaggi?

Batto il piede per terra e muovo nervoso le dita. Mi giro e al suo posto vedo una mischia di turisti che si fa strada a forza, sgomitando per scattare una foto. I tentativi esasperati della guardia di bloccarli non li scoraggiano. È come essere a un concerto allo stadio di Wembley tra tutte le luci lampeggianti. Gli epilettici andrebbero avvertiti.

Un americano che è riuscito ad aggirare la regola «niente borse» mi supera con uno spintone per fare un primo piano del quadro con la sua reflex digitale. Non si ferma a guardare, tantomeno ad apprezzare, il dipinto un solo istante prima di togliere di mezzo con un’altra spinta una persona per fotografare l’opera seguente. Non poteva scaricare le immagini da Google? Poi passa una donna scandinava con un berretto rosso, il rossetto rosso e una maglietta da marinaio, come se quello fosse il dress code ufficiale francese. Si ferma a leggere il testo accanto al quadro e annuisce, d’accordo con qualsiasi cosa ci sia scritto. Alle sue spalle c’è un gruppo numeroso di adolescenti francesi che, come me, devo ammetterlo, non sembrano interessati a nessuna opera di Van Gogh a parte i Girasoli. Due ragazze decidono di farsi un selfie con il dipinto facendo le linguacce. Mi guardo intorno sperando che Jessie spunti dal nulla e appaia sulla panca vicino a me.

Sbrigati.

Provo di nuovo a chiamarla ma non ho risposta.

Quanto devo aspettare?

Mentre fisso il quadro della camera da letto di Van Gogh accanto ai Girasoli, noto che l’artista ha dipinto due cuscini, l’uno accanto all’altro, sul suo letto singolo. Mi chiedo se sperasse ancora di trovare una donna con cui condividerlo. Inizio a provare pena per lui che non ha mai trovato l’amore e spero che non mi capiti lo stesso.

«Bonjour!»

Una mano mi tocca la schiena. Era ora.

Mi giro.

È lei.

È proprio lei.

Finalmente.

Non Jessie.

La Ragazza dei girasoli.

«Bonjour», dico non capendo perché parliamo francese, completamente sotto shock.

Noto che in mano ha la cartolina dei Girasoli della National Gallery.

«Alla fine l’ho trovato!»

E io ho trovato te.

Si china e mi abbraccia.

«Scusa il ritardo, la coda per entrare è spaventosa. Devo dire che sono molto delusa che oggi non abbia la tua fascia da unicorno.»

Scoppio a ridere. Indossa la stessa giacca gialla che portava a Londra, quella che ho cercato per tutta l’Europa.

“Come? Chi? Perché?” Mi auguro che possa leggermi la mente, visto che a quanto pare ho perso la facoltà di parola.

«La tua amica Jessie. Le ho mandato una mail circa una settimana dopo aver visto che mi stavi cercando su Instagram, e quando non ho avuto notizie ho pensato che fosse finita, sai. Ma oggi alla fine ha risposto e mi ha detto di venire a incontrarti qui. Il potere di internet, giusto?»

Certo.

«Allora hai visto la pagina Instagram?»

«Sì, be’, a dire il vero l’ha vista una delle mie amiche. Io non ho Instagram o Facebook. Di solito vai a caccia di donne per l’Europa?» Sorride.

«Solo di tanto in tanto», scherzo, piuttosto imbarazzato.

«Van Gogh ne sarebbe orgoglioso, ma sai che sarebbe stato molto più semplice se a Londra mi avessi chiesto il numero di telefono?»

«Volevo farlo ma sei svanita prima che potessi chiedertelo!»

«Svanita io? Tu sei scomparso quando stavamo attraversando la strada! Ho pensato che ne avessi avuto abbastanza di me e fossi scappato.»

«No, nient’affatto. Dopo che ci hanno separato ho passato un sacco di tempo a cercarti. Sono arrivato fino al traguardo, sono tornato a Embankment, sono entrato al museo, ma non ti ho trovato da nessuna parte.»

«Idem. Dobbiamo esserci persi a vicenda. Non credevo che fosse così difficile trovare qualcuno con un corno sulla testa, invece di te non c’era traccia. C’era solo una marea di gente.»

«Lo so, è stato assurdo. Scusa se ti ho perso di vista.»

«No, non scusarti. Sono rimasta davvero sorpresa quando ho saputo che stavi cercando di rintracciarmi. Piacevolmente sorpresa.»

«Quindi non lo hai trovato strano?»

«Be’, un po’ sì. No, scherzo, è stato molto carino.»

«Carino?»

«Okay, molto romantico. Va meglio?»

I nostri sguardi si incrociano. Ha davvero gli occhi castani più belli del mondo.

«Sì, va meglio.»

Guarda il dipinto davanti a noi.

«Almeno riusciamo infine a vedere i Girasoli insieme. Be’, più o meno. È un po’ diverso dal quadro della National.» Lo confronta con la cartolina.

«Questa versione ricorda in effetti più quella di Monaco, mentre il quadro di Amsterdam è simile a quello di Londra.»

«Guardati, adesso sei un vero esperto di Van Gogh. Non riesco a credere che sia andato ad Amsterdam e a Monaco a cercarmi.»

«No, in realtà avevo solo voglia di una vacanza», scherzo.

«Sicuro. Non so se riuscirai ancora a fare l’indifferente.» Sorride.

Restiamo tutti e due là ad ammirare il dipinto, a osservare ogni dettaglio finché veniamo disturbati dall’ennesimo gruppo che si riversa nella sala in penombra.

«Andiamo?» propone.

Sono passati meno di dieci minuti ma sono già contento di non aver rinunciato alla mia ricerca. È ancora più bella, spiritosa e affascinante di quanto ricordassi.

Usciamo dal museo passando lentamente accanto alla lunga fila che si allunga e gira intorno all’edificio. Sorrido vedendo un’anziana che mi ricorda la nonna, ha un cappello di lana e un paio di guanti e balla in strada vicino a un musicista che suona il corno francese.

In Francia presumibilmente lo chiamano solo corno.

«Ti va di assaggiare la cioccolata migliore del mondo?»

«È un’affermazione audace.»

«Credimi, ne andrai matto. La cioccolata è il mio solo e unico vizio.»

Vagabondiamo per le strade della Rive gauche dove la gente è seduta a bere caffè. Non ti siederesti mai a bere un drink vicino alla M25, ma a Parigi sembra una cosa alla moda.

«Il negozio principale è dall’altra parte del fiume, accanto al Louvre, però è sempre molto affollato, mentre in questo riesci a entrare. Quindi è molto più semplice farti la tua dose indispensabile di cioccolato.»

Entriamo da Angelina, una pasticceria piccola ma perfettamente studiata che vende una serie di delizie. Lei ordina chiacchierando con il barista in un francese fluente e prende due cioccolate calde da asporto.

«Pago io», esclamo prendendo il portafoglio.

«Va bene così. Penso che abbia speso abbastanza per venire a cercarmi.»

Sorseggio la cioccolata calda, densa, con la cannuccia nera. È squisita.

«Non è letteralmente la felicità in un bicchiere?»

«È così buona, capisco perché ne sia dipendente. Quando hai imparato il francese?»

«Be’, mia mamma è francese. Era mademoiselle Auclair prima che conoscesse papà a Londra e mi hanno cresciuta bilingue, per quanto non lo parlassi correntemente prima di trasferirmi qui.»

Le tengo la porta aperta quando usciamo in strada.

«Mi sono appena resa conto di aver detto il nome da nubile di mia madre a uno sconosciuto. Forse non è stata una mossa molto furba, vero? Dimmi per favore che adesso non mi ruberai le mie cinquanta sterline di risparmi di una vita.»

«Tranquilla, solo non dirmi in quale strada sei cresciuta o il nome del tuo primo animale da compagnia.»

«Farò del mio meglio. Comunque sia, ti stavo dicendo che il mio francese è migliorato molto da quando ho cominciato a lavorare alla libreria Shakespeare and Company, se sai qual è.»

«Sì, stamattina sono andato là a cercarti. È un negozio molto bello.»

«Vero? A me piace tantissimo. Avevo intenzione di fermarmi a Parigi più o meno per un mese dopo l’università, invece ho trovato la libreria e ho cominciato da Tumble­weed prima che arrivasse il posto fisso, perciò sono ancora qui.»

«Cos’è un Tumbleweed?»

«Ah, scusa, in poche parole puoi vivere gratis nel negozio a patto di leggere un libro al giorno, dare una mano e scrivere un’autobiografia di una sola pagina quando te ne vai. Li chiamano Tumbleweed, come i cespugli spinti di qua e di là dal vento, è una cosa che fanno da decenni.»

«Wow, forte! Vivi ancora lì?»

«No, mi sono trasferita. Vivere lì è formidabile ma non c’è privacy, quindi adesso che mi pagano ho affittato un appartamento vicino alla Sorbona.»

Le vie sembrano diventare sempre più strette, il che rende più difficile camminare e parlare contemporaneamente: veniamo infatti separati dai pedoni che arrivano in direzione contraria e siamo costretti a procedere in fila indiana.

«Devi sempre leggere un libro al giorno?»

«Ho una confessione da farti.» Aspetta che una donna piccola con un cane enorme ci superi. «Non devi dirlo a nessuno, ma non ho mai finito un libro, neanche quando ero una Tumbleweed.»

«Cosa vuol dire che non hai mai finito un libro? Come fai a lavorare in una libreria e non aver letto interamente un libro?» osservo.

«Leggo, e anche parecchio. Non fraintendermi. È solo che non li finisco. So che sembra stupido ed è per questo che non lo racconto a nessuno. Perché dovrei voler conoscere la fine, mi dico?»

«Perché no?»

«Non pensi che sia triste sapere cosa succede? Mi piace restare con il personaggio, nell’universo del libro, avere la possibilità di un finale aperto, immaginare dove potrebbe condurmi.»

«Quindi non sai cos’è successo a Romeo e Giulietta o a Harry Potter o a Jay Gatsby?»

«Be’, sono esempi piuttosto estremi ma in genere non conosco la fine di gran parte dei libri, quindi ti prego di non rovinarmeli.»

«Sono contento di non essere più io quello strano qui.»

«Lo sei comunque, Josh, non temere.»

Non ho mai conosciuto una persona come lei.

Una moto sfreccia dietro l’angolo e dobbiamo aspettare per poterci udire al di sopra del baccano della marmitta.

«Devo confessarti che chi era di turno stamattina non è stato molto cordiale.»

«Oh, davvero? Che aspetto aveva?»

«Capelli scuri scompigliati, piuttosto basso.» Indico l’altezza con la mano. «Non voleva proprio darti il mio numero.»

«Okay, sì, Tom. È un tipo iperprotettivo ma molto simpatico. Presto se ne andrà per continuare a viaggiare. Sta preparando il suo profilo per il libro dei Tumbleweed, quindi probabilmente si è seccato che tu l’abbia disturbato. Quel libro contiene biografie e storie incredibili di persone arrivate a Parigi in cerca di sé stesse, di storie d’amore avvenute nel negozio.»

«Tu cosa hai scritto nella tua pagina?»

«Un giorno te lo mostrerò, se ti va.»

«Sì, mi piacerebbe.»

Sta andando bene.

«Allora hai intenzione di continuare a lavorare qui per un po’?»

«Non lo so. In realtà non ho programmi concreti. Ho studiato inglese all’università, quindi questo a cosa porta? Un giorno mi piacerebbe entrare in una casa editrice, però prima vorrei viaggiare. Tu cosa ne dici?»

Apre un cancello di metallo che conduce in un’oasi di verde con i fiori ben curati. La cattedrale di Notre Dame si staglia davanti a noi sull’altra sponda del fiume e gli uccellini cinguettano forte facendo a gara con i clacson delle auto e con le sirene. Guardandomi intorno, mi accorgo che il parco è vicino alla libreria.

«Be’, qui finisce il nostro tour per il momento, mi dispiace. Anche se posso dirti che questo è l’albero più vecchio di Parigi.» Indica una gigantesca robinia cordonata e sostenuta da supporti di calcestruzzo.

«Come fai a saperlo?»

«C’è un cartello sull’altro lato che spiega che è l’albero più vecchio di Parigi», risponde ridendo. «Scusa se il nostro incontro è stato un po’ frettoloso ma ho circa dieci minuti prima di iniziare il lavoro. Non ti spiace sederti qui con me?»

«Naturalmente no.» Ci sediamo su una panchina con la sabbia e la ghiaia sotto i nostri piedi.

«Dimmi comunque qualcosa di più di te. Non so quasi niente, a parte che sei uno stalker.» Non lascerà cadere il discorso in fretta.

«Cosa vorresti sapere?»

«Conosci quel gioco in cui devi dire due verità e una bugia?»

«Okay, sì. Dammi un istante per pensare a qualcosa di interessante.»

«Sì, ti giudicherò», afferma sorseggiando la sua cioccolata calda. La mia è finita da tempo.

Tre affermazioni interessanti su di me?

Lancio la moneta…

Sento la voce di Jake che mi grida di non raccontarlo.

Cos’ho fatto di interessante?

Niente.

«D’accordo, so suonare il piano, sono arrivato decimo tra gli studenti migliori del paese all’esame di storia e ho un coniglio chiamato Jeremy.»

«Oh, questa è difficile. Non so se sei un tipo da coniglio. Ma non so neanche se saresti capace di arrivare tra i primi dieci all’esame», mi prende in giro.

«Che gioia!»

«Dico che il coniglio è una bugia e, se sai suonare il piano, ti porterò subito nel negozio perché lo farai per me. Ho sempre pensato che sarebbe stato così romantico. Qualcuno che suona una serenata al piano. Ho tentato di imparare usando quello della libreria ma sono arrivata solo a Chop­sticks

«Mi spiace deluderti ma la bugia era proprio quella. Mio nonno sa suonarlo molto bene, e mi piacerebbe imparare. Anche se si trattasse di una sola canzone memorabile, non so, forse Hey Jude, o qualcosa di Beethoven. Però poi eviterei di suonare due volte per la stessa persona o di fare un bis.»

«Perché non impari?»

«Forse lo farò, solo per renderti contenta. Adesso tocca a te fare tre affermazioni.»

Le campane di Notre Dame iniziano a suonare.

«A quanto pare le campane mi hanno salvato. Scusa, devo andare.» Guardo il mio orologio. Com’è possibile che dieci minuti siano passati così in fretta? «Ma penserò a qualcosa per la prossima volta, e voglio anche sapere di Jeremy il Coniglio.»

La prossima volta. Sì.

«Quando sarà la prossima volta?»

«Domani ho il giorno libero: ti va se ci vediamo? Non preoccuparti però se hai altri programmi, se vuoi visitare qualche posto o se vuoi fare qualcos’altro ora che mi hai rivisto.»

«No, mi piacerebbe vederti domani.»

«Okay, le domeniche sono le giornate migliori. Ti organizzerò un tour come si deve dei miei luoghi preferiti. Ho un paio di cose da sbrigare al mattino, ma potremmo incontrarci all’una. E questo è il mio numero, così non ci perderemo ancora.» Mentre parla, lo scarabocchia su un pezzo di carta strappato dall’agenda.

Prima di avviarsi verso il negozio, mi bacia sulla guancia.

«Aspetta», la chiamo quando apre il cancello di metallo. «Non so ancora il tuo nome.»

Si volta e sorride.

«Lucy.»