35.

Mi allontano barcollando dalla scena dell’incidente e richiamo la mamma. Mi avverte che non ci sono buone prospettive e che devo tornare il più in fretta possibile. Non c’è tempo di trovare Lucy, di farmi perdonare.

Lascio Parigi più velocemente di quanto le lacrime mi scendano sul volto.

Il viaggio è tutto confuso. Afferro le mie cose, pago l’ostello e compro un biglietto per l’ultimo volo in partenza dall’aeroporto Charles de Gaulle. Dovrebbe essere l’aeroporto più trafficato di Francia ma alle dieci di sera è quasi deserto. Gli addetti alle pulizie gironzolano qua e là, i negozi stanno chiudendo. Sono seduto vicino a una famiglia di quattro persone, tutti con le orecchie da Topolino, i due bambini semiaddormentati. Non pensavo che avrei seguito Jake e Jessie a casa sul volo seguente. Quando mi hanno chiesto quanto ancora mi sarei fermato, mi auguravo che sarebbe stato per più di qualche ora.

«Mesdames et messieurs…» Dagli altoparlanti arriva un annuncio attutito in francese, che aspetto venga tradotto. I gemiti ne anticipano il senso.

«Signore e signori in partenza sul volo easyJet EZY6224 per Bristol, il volo è stato ritardato di circa quarantacinque minuti. Siete invitati a controllare i tabelloni per aggiornamenti.»

No. No. No. Non si rendono conto che devo tornare a casa adesso?

Mi alzo e cammino su e giù nel terminal. Una dipendente si allunga per abbassare la serranda di metallo dell’ultimo negozio aperto. Scorgo la pubblicità del Toblerone al duty-free, che mi scatena una marea di ricordi. Era il cioccolato preferito del nonno, ne aveva sempre una scorta nascosta a destra della sua poltrona, e lo condivideva in segreto con me, spezzandomi un triangolo quando nessuno vedeva.

La mia mente inizia a riavvolgere e riprodurre come un lettore di VHS altre immagini sgranate dell’infanzia. Scherziamo, giochiamo a minigolf a Clevedon, cerchiamo il pallone da calcio perso nel parco, i nostri pantaloni appiccicati ai sedili di plastica sudati al Country Cricket Ground, il nonno che salta nel torrente per impedire alla mia mini canna da pesca di essere trascinata via dalla corrente. Il video si ferma più volte sull’inquadratura del suo volto sorridente. Non riesco a concepire l’idea che potrei non rivedere più quel volto, non parlargli più. Quello che mi fa più male è sapere che non mi vedrà mai realizzato.

«Scusi, mi perdoni, parla inglese?» Mi precipito dalla donna che sta chiudendo il negozio.

«Un po’», risponde con la serranda ormai a metà.

«So che sta chiudendo, ma potrei comprare un Toblerone?»

«Mi dispiace, siamo chiusi», afferma brusca.

«La prego. Ho qui i soldi.» Pesco in fretta una banconota da cinque euro dalla tasca e gliela caccio tra le mani. «È per mio nonno, è in ospedale e vorrei darglielo quando andrò a trovarlo, è là che sto andando ora…»

«D’accordo, tenga.» Non penso che capisca ma vuole chiudere. Prende i soldi e mi passa una barretta.

Con il Toblerone in mano mi incammino verso un tabellone elettronico sperando di avere buone notizie.

Un ritardo di un’ora.

Com’è che sta aumentando? L’aereo va all’indietro?

Prendo il telefono dalla tasca e controllo se ci siano altre notizie dalla mamma. Niente.

Nessuna nuova vuol dire buona nuova?

O cattiva?

Valuto se chiamarla ma non voglio disturbarla, e non so se voglio sapere la risposta. Passo invece in rassegna l’elenco delle chiamate recenti e clicco sul nome di Lucy. Voglio scusarmi, spiegarle cos’è successo, dove sono finito. Ma soprattutto voglio solo sentire la sua voce. Parte subito la segreteria telefonica. O ha il telefono spento o ha bloccato il mio numero. Ad ogni modo, è chiaro che non vuole parlarmi.

Alla fine due ore più tardi del previsto ci imbarchiamo. Il volo sembra durare in eterno. C’è una forte turbolenza e l’aereo sussulta e sobbalza facendo perdere l’equilibrio agli steward. Aggrappato ai braccioli, mi sforzo di trattenere emozioni e lacrime. Gli altri passeggeri penseranno che detesti proprio volare. Per fortuna la maggior parte si addormenta quasi subito. Mi agito e penso in continuazione finché non atterriamo a Bristol. Tutti gli eventi della settimana passata mi sfrecciano in testa. L’eccitazione a Monaco, la disperazione ad Amsterdam, il viaggio in macchina con Jesus, la gioia di aver trovato Lucy e ora il nonno.

Sceso dall’aereo, attraverso di corsa il lungo terminal tortuoso e stavolta fortunatamente non ho problemi al controllo passaporti quando esco. A quest’ora della notte i funzionari sembrano più interessati a guardare l’orologio che il mio passaporto. La donna non osserva quasi la mia foto prima di restituirmelo e di farmi passare.

Proseguo superando a spintoni i vacanzieri sonnolenti che tornano da una miriade di destinazioni. Appena svolto l’angolo, vedo la consueta fila di facce e di tassisti in attesa. Noto un vecchio dai capelli grigi e, anche se non ha alcuna somiglianza con il nonno, quando un bambino gli corre incontro fatico a trattenere le lacrime. Giro lo sguardo a destra, verso l’altra parte della sala, in direzione dei tabelloni delle partenze, dove quasi una settimana fa mi trovavo con Jake e Jessie. Mi sembra di esser stato via molto di più. Tante cose sono cambiate. Perché ho pensato che sarebbe stata una buona idea? Perché ho ascoltato quello che diceva una moneta?

Esco dalle stesse porte girevoli che hanno dato inizio a tutto e mi avvio nel vento freddo della notte senza stelle. Rimetto indietro l’orologio di un’ora. Quanto vorrei rimetterlo indietro di una settimana.

Scorgo la macchina della mamma ferma nel parcheggio. C’è silenzio a quest’ora della notte, ci sono poche auto in giro.

Scaravento lo zaino sul sedile posteriore e apro la portiera del passeggero. La mamma mi afferra immediatamente la mano. Ha gli occhi rossi e irritati.

«Mi dispiace, Josh…»

Non ho bisogno di sentire il resto.

Ricordo di aver letto un articolo in cui sostenevano che a dodici anni i bambini hanno già assistito a più di dodicimila decessi in televisione.

Dovremmo essere preparati davanti alla morte.

Immuni, addirittura.

Ma vedere la mamma di Bambi morire sullo schermo non è uguale a sperimentare la morte nella vita vera. Neanche lontanamente.

Non so cosa dire. Restiamo seduti in silenzio per quella che sembra un’eternità mentre gli ultimi vacanzieri si allontanano lasciandoci soli. Il parcheggio ora è deserto.

Non piango, non so cosa provare. Sono semplicemente sotto shock.

«Non avrei voluto mandarti un messaggio ma non rispondevi al telefono», dice la mamma parlando quasi tra sé. «È tutto il giorno che provo a chiamarti.»

«Lo so, scusa. Avevo silenziato il telefono e dopo avevo intenzione di richiamarti», mento. Mi rendo conto che, se esiste un paradiso di qualche tipo e se ora il nonno può guardarci, la prima cosa che ha visto è stata il sottoscritto che trattava male Lucy e ora il sottoscritto che racconta bugie.

«È accaduto tutto così rapidamente. A quanto pare il nonno è malato… scusa, era malato da qualche tempo. Un cancro… ma lo ha tenuto per sé e non lo ha detto a nessuno», spiega stoica.

Ripenso alle ultime volte che l’ho visto. Quanto vorrei non essere stato tanto ossessionato dai miei problemi da accorgermene. Sto da cane al pensiero di non averlo mai richiamato quando voleva augurarmi buon compleanno. Ho perso l’ultima occasione di parlargli. Così è, e resterà per sempre.

«Stai bene, Josh? Sei molto silenzioso. Dimmi com’è andata. Come è stato il viaggio?» chiede la mamma cercando di cambiare discorso e di spostare l’attenzione su qualcosa di più allegro. Non sa che è un’altra ferita aperta.

«Sì, è andato bene, grazie», mento di nuovo.

Non voglio parlare di quant’è successo. Non voglio caricarla di altri fardelli e non voglio io stesso sviscerare la cosa. Di certo non adesso. Non ancora.

Mi sento in colpa perché, nonostante la morte del nonno, Lucy continua a tornarmi in mente. Detesto il fatto di non riuscire a togliermela dalla testa quando dovrei pensare a lui. È come se i ricordi di lei si siano registrati sulla videocassetta del nonno.

«Guarda chi c’è», grida eccitata la mamma interrompendo i miei pensieri.

Non so che cosa mi sfugga. Non vedo nessuno.

«Chi?» domando confuso.

«Il nonno.»

Oddio. Le ha dato di volta il cervello.

Se pensavo di avere difficoltà ad affrontare la situazione, non ho neppure riflettuto su cosa stia provando lei.

«Che vuoi dire, il nonno? Ti senti bene?»

«Il piccione, penso… penso che il nonno sia tornato sotto forma di piccione.» Indica un piccione grasso, stanco, che zoppica sull’asfalto vicino all’auto, disorientato dalle luci dell’aeroporto.

Non dico niente e la lascio continuare.

«Okay, so che sembra un po’ folle ma quando sono uscita dall’ospedale, è apparso d’un tratto un piccione ed è atterrato sulla mia macchina guardandomi. E adesso è di nuovo lì. Mi sta seguendo.»

«Eccome se sembra un po’ folle, mamma», dico cercando di mostrarmi compassionevole.

«Ho chiamato Graham mentre ti aspettavo e mi ha detto che potrebbe essere benissimo lui. A quanto sembra, puoi trasformarti in qualsiasi animale», risponde quasi difendendosi.

«Se è tornato sotto forma di piccione, significa che ha fatto qualcosa di male nella sua vita? È senza dubbio un peggioramento rispetto all’essere umano», la interrompo.

«Secondo Graham potrebbe essere solo un animale provvisorio e potrebbe trasferirsi ancora, anche più volte, prima di trovare un altro corpo in cui si senta a suo agio.» Sono certo che Graham sarà stato entusiasta di ricevere una telefonata a quest’ora della notte per parlare di piccioni.

«Cosa pensi sarebbe?»

«Magari un panda o un orso polare?»

Restiamo di nuovo in silenzio mentre la mamma fissa il piccione e io penso al nonno come orso polare.

«E tu? Tu cosa saresti?» chiedo infine.

«A dire il vero non lo so, ma io e tua nonna abbiamo concordato un segnale, così quando una di noi due morirà, potremo comunicare e sapere se c’è un aldilà o no.»

«Cosa intendi? Tipo accendere e spegnere le luci a una certa ora?»

«Naturalmente non posso dirtelo, sciocco, è un segreto.»

Se la mia conoscenza del cristianesimo si limita all’unica lezione di catechismo per la cresima, in tema di reincarnazione ne so ancor meno. Il nonno è morto soltanto da poche ore e quel piccione stanco sembra molto più vecchio di un giorno. Decido di lasciar perdere.

Mentre lo fissiamo entrambi, in attesa che ci dia qualche segno mistico o smetta di tubare e ci parli, viene raggiunto da un’amica. I due volano veloci sul recinto metallico e iniziano a fare quello che posso solo presumere sia l’equivalente dell’amore. Se è davvero il nonno, non ha evidentemente perso tempo a trovarsi una nuova compagna.

«Non dirlo alla nonna», affermo tenendole la mano. «Andiamo a casa ora?»

Alla fine la mamma distoglie lo sguardo dai piccioni.

«Sì. Puoi vedere se c’è una moneta da una sterlina là davanti?» Indica il vano del cruscotto di fronte a me.

«Da quanto sei qui?» replico frugando tra i CD e gli involucri dei dolci in cerca di un po’ di spiccioli mentre si avvicina alle barriere elettroniche.

«Non lo so. Probabilmente ti stavo aspettando da trenta minuti, e quanto siamo rimasti…»

«Mamma, hai visto le tariffe?»

Guarda il tabellone blu accanto alla barriera illuminato da un paio di faretti.

Fino a 10 minuti = £1

10-20 minuti = £3

20-40 minuti = £5

40-60 minuti = £20

1 ora-24 ore = £50

Lei abbassa il finestrino e fissa lo schermo dell’emettitrice automatica che conferma la tariffa.

«Dev’esserci sicuramente un errore», afferma.

«Quanto dice?»

«Cinquanta sterline! Non può essere giusto!»

Mi guarda completamente sconvolta.

La mamma, che è riuscita a mantenere il controllo mentre mi informava della morte del nonno, scoppia infine in un pianto dirotto. La abbraccio e inizio a piangere anch’io.