VI. Il cinema narrativo dalla classicità al World Cinema contemporaneo

Storicamente il ruolo e la presenza delle donne nella regia cinematografica hanno avuto uno statuto diverso a seconda delle forme filmiche implicate. Questa diversità non è dovuta a motivi creativi o professionali, ovvero a fantomatiche capacità o incapacità delle donne a muoversi in determinati contesti artistici: può essere spiegata solo in termini produttivi. Nella storia del cinema ogni forma filmica si è infatti sviluppata in rapporto a specifici contesti economico-produttivi. Un’analisi anche superficiale di queste dinamiche mostra che le donne sono riuscite a diventare registe senza grandi difficoltà solo quando si sono trovate di fronte a un modo di produzione che comportasse capitali ridotti. Come abbiamo visto nel quarto e nel quinto capitolo, il periodo del muto sino a fine anni ’10 è una sorta di Golden Age della regia femminile, che finisce quando il sistema artigianale o paraindustriale cinematografico viene sostituito da un sistema di produzione capitalistico. In modo analogo, proprio il fatto che l’avanguardia ha sempre richiesto capitali esigui spiega perché le donne non abbiano mai avuto difficoltà a fare film sperimentali. Per motivi in parte simili, il coinvolgimento delle donne con la forma documentaristica è stato altrettanto significativo.

In questo contesto appare comprensibile perché le donne abbiano invece avuto un accesso difficile alla regia nel contesto del cinema narrativo «dominante», ovvero la forma «industriale» per eccellenza, inclusa Hollywood. Evidentemente solo di rado si è corso il rischio di affidare grandi capitali alle donne. Basta ricordare che in tutto il periodo della Hollywood classica (1930-1960) lavorano solo due registe, Dorothy Arzner e Ida Lupino. Ma solo la prima, come vedremo, lavora per le grandi case di produzione. Lupino gira B films prodotti dallo studio da lei stessa fondato.

È con le Nouvelles Vagues, e in generale il nuovo cinema d’autore degli anni ’60, che la regia femminile si manifesta nel cinema narrativo in modo un po’ più deciso. Accanto ai più famosi autori maschi lavorano contemporaneamente autrici di grande valore e i cui film condividono molte delle opzioni estetiche dei colleghi. Si pensi in particolare alla francese Agnès Varda, alla cecoslovacca Věra Chytilová, ma anche all’ungherese Márta Mészáros, alla svedese Mai Zetterling e a Lina Wertmüller. Se il loro cinema è stato di solito considerato in relazione ai rispettivi movimenti nazionali, possiamo guardare a queste esperienze anche in un contesto transnazionale: vi è infatti una relazione stretta tra nuove forme della sessualità femminile e procedure stilistiche innovative.

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, uno degli effetti del movimento delle donne è stato lo sviluppo del cinema d’avanguardia femminista. Per tutti gli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, salvo alcune eccezioni, il miglior women’s cinema si è cimentato con la narrazione sperimentale. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 emerge, per poi svilupparsi in modo esponenziale, una nuova forma di women’s cinema che ha i tratti di ciò che da tempo chiamiamo cinema indipendente. È la linea femminile di quel cinema che si è sviluppato negli Stati Uniti attorno al Sundance Film Festival, ma che poi si è diffuso un po’ dappertutto. Si tratta di un cinema narrativo e al tempo stesso autoriale, che spesso predilige storie di marginalità o di sofferenza, a volte minimali, con protagoniste giovani, e in cui stile e immaginario si nutrono spesso di forme edulcorate della modernità europea degli anni ’60 (tempi morti, pianisequenza, montaggio discontinuo, personaggi inattivi). Da circa vent’anni il women’s cinema ha assunto questi tratti praticamente ovunque, anche se la produzione americana è ovviamente più ampia e più visibile. Il tratto transnazionale già rilevabile in parte nelle registe della Nouvelle Vague è divenuto più marcato soprattutto nel caso della produzione cinematografica dei paesi non occidentali, ovvero nel World Cinema.

1. La regia femminile nel cinema classico americano: Dorothy Arzner e Ida Lupino

La difficoltà, o l’impossibilità quasi, per le donne di accedere alla regia quando il cinema consolida la sua struttura industriale si può cogliere a partire dalla situazione americana. Nell’industria cinematografica più importante del pianeta, capace di produrre negli anni ’30 circa 600 film l’anno, riescono a lavorare solo due registe, Arzner e Lupino. Nella maggior parte dei paesi si registra invece una totale assenza. Tra i pochi esempi va ricordato il film tedesco di Leontine Sagan Mädchen in Uniform (Ragazze in uniforme, 1931), che racconta l’infatuazione di una giovane ragazza per la sua insegnante in un collegio per sole donne. Uscito poco prima dell’avvento di Hitler, il film ebbe inizialmente un grande successo e ottenne l’apprezzamento di importanti studiosi come Siegfried Kracauer e Lotte Eisner per le sue qualità sonore e fotografiche, e più in generale per il suo stile espressivo sofisticato. Per molto tempo la sua reputazione è dipesa dal suo messaggio antiautoritario e antifascista, mentre la questione del desiderio tra donne è rimasta ai margini. Com’è accaduto per le pioniere del cinema, dopo decenni di oblio il film è stato riscoperto a inizio anni ’70 dalle studiose femministe ed è tornato a circolare. In questo nuovo scenario critico, Ragazze in uniforme è stato reinterpretato come primo film lesbico. Se all’inizio gli «storici del cinema tendevano a tralasciare, minimizzare o trivializzare l’interesse centrale del film per l’amore tra donne», ora appare evidente che esso «non è solo un film antifascista, ma anche antipatriarcale» (Ruby Rich 1998: 180-181). Attraverso lo scontro tra la preside autoritaria e l’insegnante affettiva e materna, che si oppone ai metodi prussiani della scuola, il film sostiene la libertà emotiva delle donne e, in definitiva, anche il desiderio omoerotico. Il film si nutre inoltre dello spirito dell’epoca quando a Berlino l’omosessualità era vissuta in modo libero e aperto.

Desiderio, sessualità e dinamiche dell’identità non tradizionali sono sempre il fulcro del women’s cinema, non solo nelle sue espressioni avanguardistiche, come abbiamo visto nell’ultimo capitolo, ma anche nelle sue forme narrative più «tradizionali».

Quando Leontine Sagan realizza Ragazze in uniforme, a Hollywood­ Dorothy Arzner ha già diretto numerosi film, avendo iniziato la sua carriera di regista, alla Paramount, nel 1927. Dal 1927 al 1943 Arzner dirige 17 film, prima di lasciare Hollywood. Ma la regista non abbandona il cinema e continua a essere attiva anche in altri ambiti dello spettacolo. Gira cortometraggi, scrive un programma radiofonico, insegna cinema alla UCLA, lavora per il teatro e gira una cinquantina di spot pubblicitari per la Pepsi-Cola su richiesta di Joan Crawford (Mayne 1994: 80-86). Come regista cinematografica Arzner cade presto nel dimenticatoio, ma verrà anch’essa riscoperta a inizio anni ’70 da alcune studiose femministe, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna (Mayne 1994: 86-90; Johnston 1988).

Così come per le registe dimenticate del muto, il cinema di Arzner va interpretato in relazione alla più ampia produzione hollywoo­diana. L’opera di Arzner, infatti, si concentra sistematicamente su figure femminili, anche in periodi in cui la donna perde la centralità che ha tra fine anni ’20 e inizio anni ’30. Il modo di rappresentazione di Arzner non sembra seguire i cambiamenti storici che il cinema hollywoodiano mostra. Nella seconda metà degli anni ’30 domina la forma classica, ovvero una forma dove convergono uno stile trasparente e un immaginario dominato da rapporti di gender tradizionali, in cui la donna non può più ambire alla libertà sessuale ed economica degli anni precedenti. In sintonia con l’ideologia rooseveltiana, in questo periodo le dinamiche dominanti del desiderio tendono a valorizzare famiglia e matrimonio, decretando dunque per la donna un palese arretramento rispetto alle conquiste degli anni precedenti (Pravadelli 2007).

Arzner però appare riluttante verso questo cambiamento. Il suo cinema, infatti, non segue la nuova onda e continua a narrare figure di donna poco inclini al compromesso con i valori patriarcali. E anche la messa in scena non si appoggia a strategie invisibili, ma attira l’attenzione della spettatrice attraverso scelte espressive. Claire Johnston, tra le prime a riscoprire e studiare Arzner negli anni ’70, ha sostenuto che una pratica filmica femminista comporta la rottura delle regole del cinema dominante. Ponendosi sulla scia delle tesi espresse sin da fine anni ’60 nei «Cahiers du Cinéma» sul rapporto tra cinema e ideologia, Johnston avvalora il concetto di progressive text per spiegare la possibilità di una posizione testuale critica nei confronti dell’ideologia dominante. Posto che il cinema e il film sono «un prodotto ideologico, il prodotto di una ideologia borghese» (Johnston 1978: 63), non è vero, come affermano Jean-Louis Comolli e Jean Narboni nell’intervento che ha dato avvio al dibattito, che ogni film è «imbevuto dall’inizio alla fine dall’ideologia dominante [...] in forma pura e non adulterata». Soltanto il classic realist text «accetta il sistema stabilito di rappresentare la realtà»; al contrario, il progressive text «sembra a prima vista appartenere fermamente all’ideologia ed esserne dominato», ma invece risulta legato ad essa in modo ambiguo. Guardando la struttura del film si possono cogliere due momenti: uno in cui il testo sembra restare entro certi limiti, un altro in cui li trasgredisce. Se si legge «il film obliquamente, cercando sintomi, e se si guarda oltre l’apparente coerenza formale, si vedrà che il film è cosparso di crepe: è diviso da una tensione interna che non si riscontra in un film ideologicamente innocuo» (Comolli e Narboni 1969: 13-14).

Il gesto critico-teorico di Johnston consiste nell’appropriarsi di questa suggestione e di riformularla in chiave femminista: esistono, cioè, all’interno del cinema hollywoodiano, progressive films in relazione alla differenza sessuale, all’articolazione del rapporto maschile/femminile? Come si rintracciano sul testo queste operazioni? È dunque possibile un controcinema all’interno del sistema? Nei film di Arzner vi è una frattura tra ideologia e testo: attraverso espedienti formali, nel film si produce una dicotomia tra ideologia sessista e costruzione testuale. In Dance, Girl, Dance (1940), per esempio, nel finale Judy restituisce lo sguardo alla platea gridando il suo disprezzo per quel pubblico. Lo sguardo di Judy rompe la costruzione testuale dominante secondo cui la performer è solo oggetto di sguardo, e così facendo produce una critica all’immagine della donna come spettacolo. Judy sovverte espressamente la dinamica di sguardo teorizzata da Laura Mulvey. Il personaggio femminile si appropria di una prerogativa maschile e il suo sguardo si configura come un’aggressione diretta al pubblico diegetico ed extradiegetico (del film).

Nel cinema di Arzner è iscritto uno specifico discorso femminile e la donna afferma la propria identità attraverso il desiderio e la trasgressione. Il discorso femminile non solo dà coerenza al testo, ma si pone in conflitto con quello maschile, rendendo quest’ultimo incoerente e frammentato: «Le protagoniste femminili reagiscono e trasgrediscono il discorso maschile che le accerchia. La forma della trasgressione dipende dalla natura del discorso in cui sono prese. Queste donne non spazzano via l’ordine esistente fondando un nuovo regime simbolico femminile. Piuttosto, affermano il loro discorso in faccia a quello maschile rompendolo, sovvertendolo e, in un certo senso, riscrivendolo» (Johnston 1988: 39). Il film viene così percorso da una serie di contraddizioni tra la specifica gerarchia di discorsi interrelati presenti in esso e il discorso dell’ideologia dominante (in questo caso quella del patriarcato). Per esempio, in Craig’s Wife (La moglie di Craig, 1936), il discorso maschile, e la sua idea di casa come focolare domestico, rifugio dal mondo esterno, viene dislocato dal discorso femminile, dall’ossessione di Harriet Craig per l’ordine e la pulizia. Così la casa viene sottoposta a un processo di straniamento nel senso sklovskiano del termine: «i segni di un baule trascinato per il pavimento o di qualcuno che si è seduto sul letto acquistano un significato sinistro all’interno del film» (Johnston 1988: 41). E i finali spesso tragici rappresentano un ulteriore esempio del rifiuto della regista della convenzionale risoluzione hollywoodiana e un bisogno di spingere il discorso femminile sino al limite estremo.

Nel cinema di Arzner il problema del desiderio femminile è dunque centrale. La donna è presa nel sistema di rappresentazione patriarcale e cerca in qualche modo di contrastare le richieste del simbolico. I modi particolari della messa in scena rendono evidente queste dinamiche alla spettatrice, in quanto tramite strategie retoriche il film «rompe l’identificazione con i personaggi e sposta la nostra attenzione sulla posizione problematica che essi occupano nel mondo [...]. Il posto dell’audience nel film e di quella del film è disturbata, creando una rottura tra audience e ideologia della donna come spettacolo». All’identificazione si sostituisce la comprensione: così nel finale di Dance, Girl, Dance l’identificazione con la protagonista viene sostituita da «una comprensione del processo irto di contraddizioni che regola il nostro rapporto con l’ideologia». In particolare, lo spettatore non può che riconoscere «le difficoltà che il desiderio femminile incontra nel sistema patriarcale» per trovare espressione (Cook 1988: 48). Dislocare il processo di identificazione appare dunque fondamentale per attivare un processo di analisi conscia. In Merrily We Go to Hell (1932), per esempio, questa strategia viene messa in pratica attraverso i seguenti dispositivi: la struttura episodica, l’interruzione narrativa tramite gag o «momenti pregnanti», i rovesciamenti narrativi che disturbano la linearità, il lavoro sugli stereotipi. Questi procedimenti mostrano il testo come un «processo dialettico tra immagine e racconto e, implicandoci come spettatori, mette in questione le forme della rappresentazione cinematografica attraverso cui l’ideologia tenta di darci un posto fisso» (Cook 1988: 56). In definitiva, le strategie di rovesciamento servono a costruire una spettatrice attiva capace di intervenire nell’attività critica o in quella registica per mutare il corso degli eventi.

Se Arzner lavora nel periodo classico dello studio system, quando a fine anni ’40 Ida Lupino comincia a cimentarsi nella regia il contesto produttivo hollywoodiano sta cambiando. Lupino, nata e cresciuta in Gran Bretagna, inizia una carriera di attrice nel paese di origine, prima di trasferirsi a Hollywood ingaggiata da Paramount. Per questa casa di produzione lavora dal 1933 al 1937, poi nel 1940 firma un contratto con Warner Brothers che la legherà allo studio sino al 1947. Pare che Lupino stessa amasse definirsi «la Bette Davis dei poveri», evocando la somiglianza dei ruoli interpretati, ma il suo minore glamour, rispetto alla diva dello studio (Kuhn 1995: 2). Nel 1948 fonda la casa di produzione indipendente Emerald Productions, rinominata un paio d’anni dopo The Filmakers.

Nel 1948 la famosa sentenza della Corte Suprema sul caso Paramount decreta l’incostituzionalità del monopolio dei grandi studios (Big Five), ordinando agli stessi di vendere le sale cinematografiche di proprietà. Il successo economico dei Big Five era infatti dovuto al sistema produttivo di «integrazione verticale», ovvero il possesso dei mezzi di produzione, di distribuzione e delle sale cinematografiche. Grazie al controllo di tutta la catena industriale – dalla produzione alla proiezione dei film – esisteva un oligopolio-monopolio che rendeva praticamente impossibile l’accesso al mercato di nuovi soggetti. La sentenza Paramount non provoca ovviamente la fine immediata dello studio system, che si consumerà lentamente durante tutto il decennio successivo.

In questo scenario si comprende perché dalla fine degli anni ’40 abbiano potuto proliferare le case di produzione indipendenti, che si dedicano, come quella di Ida Lupino, alla produzione di B movies. Tra il 1949 e il 1954 Emerald Productions e The Filmakers producono almeno 12 film, dei quali 6 diretti da Lupino. Dopo la seconda metà degli anni ’50 la carriera della regista proseguirà in televisione dove dirigerà episodi di serie famose come Alfred Hitchcock Presents (Alfred Hitchcock presenta, 1955-62), The Fugitive (Il fuggiasco, 1963-67) e altre (Kearney e Moran 1995). Lupino dirigerà un ultimo film nel 1966: The Trouble with Angels (Guai con gli angeli).

Nel fondare Emerald Productions Lupino ha l’obiettivo di fare film «di alta qualità, ma a basso costo su soggetti eterodossi e provocatori» (Kuhn 1995: 2). I film da lei diretti fondono l’immaginario e il linguaggio visivo del noir, del melodramma, del woman’s film e del social problem film. Potremmo anche definirli social problem melodramas, in quanto trattano i soggetti scelti non in modo sensazionalistico, ma «come problemi sociali e non disordini della personalità» (Waldman 1995: 14). I soggetti di Lupino sono spesso più audaci ed estremi di quelli degli A films dell’epoca: affrontano lo stupro, la maternità al di fuori del matrimonio, la bigamia, ma anche l’handicap. Si tratta di tematiche che hanno ovviamente attirato l’attenzione delle femministe anche se, a differenza di Arzner, la ricezione nei confronti di Lupino è stata più tiepida o ambigua. Quando negli anni ’70 il suo cinema viene riscoperto, qualcuno afferma che i suoi film affrontano questioni femministe da un punto di vista non femminista. A nostro avviso la questione non va posta in questi termini, perché riduce la supposta prospettiva femminista a qualcosa di semplificato e univoco. Il cinema di Lupino, come quello di Arzner, ha come tema centrale l’ambiguità e le contraddizioni del desiderio femminile e può dunque essere interpretato alla luce del progressive text. Ciò che contraddistingue Lupino rispetto a Arzner, e ne marca anche il diverso momento storico, è l’interesse al tempo stesso per le dinamiche e il desiderio maschili. Come in molti noir e melodrammi del periodo – si pensi in particolare al famoso film di William Wyler The Best Years of Our Lives (I migliori anni della nostra vita, 1946) – la figura del veterano, del soldato della seconda guerra mondiale, tornato vivo, ma menomato fisicamente e/o turbato psichicamente, incarna una mascolinità debole, oppure eccessiva, e che può sfociare, come in Outrage (La preda della belva, 1950), nella violenza sessuale. Ma una mascolinità debole, impotente equivale a una femminilizzazione dell’uomo: l’interesse di Lupino per questa immagine di uomo non può non considerarsi in sintonia con il discorso femminista. Evidentemente la regista coglie la prossimità tra le dinamiche tradizionali della femminilità e questa nuova figura di uomo, agli antipodi rispetto al maschio patriarcale.

In La preda della belva, secondo film della regista, Ann è una giovane impiegata che sta per sposarsi col classico «bravo ragazzo», ma una sera, mentre dall’ufficio torna a casa, viene inseguita e violentata. Incapace di sopportare gli sguardi morbosi di vicini e conoscenti, la donna scappa e se ne va in California. Qui comincia una nuova vita aiutata da un giovane ministro del culto, Bruce Ferguson, e da alcuni suoi amici che la ospitano e le danno un lavoro. Pur vivendo in incognito e avendo anche mantenuto il segreto sul suo passato, Ann trova una certa serenità, grazie in particolare a Bruce, per il quale nutre un forte affetto. Quando però a una festa uno degli ospiti tenta di baciarla, la protagonista rivive il momento dello stupro e colpisce con violenza l’uomo sin quasi a ucciderlo. Con l’aiuto di Bruce verrà scagionata: il ministro convincerà il giudice che la giovane ha agito sotto l’effetto del trauma passato. A quel punto, proprio quando sembra che tra i due possa nascere un rapporto sentimentale, Bruce insiste perché la ragazza torni dai genitori e dal fidanzato. Ann invece quasi lo supplica di farla rimanere. Il finale vede la giovane riprendere l’autobus da cui era scesa in direzione contraria e Bruce che, visibilmente triste e dispiaciuto, la guarda partire.

La preda della belva costruisce un discorso complesso sulla sessualità e sul rapporto tra femminilità e mascolinità. La complessità riguarda in primo luogo la mascolinità. Attraverso le tre figure principali con cui interagisce la protagonista, il fidanzato, lo stupratore e il ministro di culto, Lupino presenta tre modelli di mascolinità storicamente connotati e, di conseguenza, tre modalità possibili del rapporto uomo-donna. Il fidanzato Jim è un giovane serio che attende l’aumento di stipendio per chiedere alla fidanzata di sposarlo. Jim incarna la tipica figura maschile del breadwinner della suburban ideology americana, un uomo responsabile e che ha come obiettivo quello di farsi presto una famiglia, colmandola di benessere e affetto. Lo stupratore è un veterano di guerra che lavora in un servizio di ristoro ambulante davanti alla fabbrica in cui Ann è impiegata. La giovane non lo nota, ma lui flirta quando lei acquista qualcosa. Nella scena dell’inseguimento, che culminerà con lo stupro, l’uomo è rappresentato come un violento senza remore: l’atto è premeditato e il lungo inseguimento tra le stradine buie – in quella che è senza dubbio la scena visivamente più bella del film – testimonia la sua volontà radicale di brutalizzare la donna.

Il film dà una rappresentazione negativa dello stupratore e se ne distanzia in modo inequivocabile. Questa distanza risalta in particolare se paragonata alla forte identificazione attivata con la protagonista. Vi è, tuttavia, un episodio in cui il comportamento dell’uomo viene, se non giustificato, attribuito almeno in parte ai traumi subiti combattendo in guerra. Il discorso di Bruce al giudice per scagionare Ann è, infatti, anche una parziale difesa dello stupratore che nel frattempo è stato arrestato. Bruce evoca appunto la guerra da poco conclusa come causa implicita della violenza dell’uomo. Si tratta di una giustificazione parziale e non di un’assoluzione, ma indubbiamente il ministro riconosce una agency al di fuori della soggettività maschile. Questo punto di vista non mette comunque mai in discussione la centralità dell’esperienza di Ann. Il film costruisce un’identificazione pressoché totale con la donna, che ha il suo apice nel momento in cui alla festa Frank Marini tenta di baciarla. La scena, infatti, pone la spettatrice in intimità con la protagonista attraverso alcune soggettive estreme, sino al momento in cui al volto di Marini si sovrappone quello dello stupratore. Ann «rivede» la cicatrice sul collo del violentatore, quindi afferra un attrezzo e colpisce Marini. Non vi sono spettatori diegetici dell’accaduto e pertanto la messa in scena è estremamente importante perché la regia di Lupino «interpreta» l’evento in chiave femminista. L’insistenza con cui Marini prima tocca i capelli di Ann poi tenta di baciarla, nonostante i rifiuti della donna, appare come una violenza del tutto simile a quella già subita. Quando l’uomo si avventa un’ultima volta sulla giovane, il gesto è ancora più esplicito. Dunque, la visione allucinata della donna, che scambia Marini per lo stupratore, è in realtà la logica conclusione della messa in scena che aveva già paragonato i due uomini.

L’episodio della festa ha però altri elementi significativi e nel complesso costituisce una delle scene più ricche per il discorso del film sulla sessualità. Prima dell’incontro di Ann e Marini la giovane è seguita con un piano sequenza quando guarda le numerose coppie ballare. Mentre le coppie a una a una entrano ed escono dal campo visivo, l’unico elemento costante dell’inquadratura rimane Ann che le guarda. L’inquadratura è seguita da alcuni piani in cui Ann e Bruce si guardano in lontananza con desiderio. L’attrazione è condivisa, ma l’uomo, come in seguito e sino alla fine, rinuncia a un coinvolgimento sentimentale.

Bruce rappresenta un terzo modello di mascolinità. Colma Ann di attenzioni e affetto, ma sembra essere asessuato. Pam Cook ha giustamente affermato che «la sessualità non fallica di Bruce, incarnazione di un ideale femminile, è vista come un’opzione desiderabile rispetto alle relazioni di potere eterosessuali insite sia nel matrimonio che nello stupro. Alla fine, La preda della belva si sottrae a questa promessa di mascolinità non fallica [...] ma almeno questa è presente come una domanda [...]. Bruce ha un tipo diverso di ‘mancanza’, è anch’egli danneggiato dalla guerra, ma è ancora capace di compassione, e il suo lasciar andare Ann dalla famiglia e dal fidanzato può essere visto come un atto supremo di sacrificio» (Cook 1995: 67). In definitiva, La preda della belva non individua nessun modello di mascolinità funzionale al desiderio di Ann. E forse l’immagine che meglio traduce la solitudine della giovane è Ann che scappa: un’immagine che già accompagna i titoli di testa. La protagonista, dunque, non è solo vittima della violenza maschile. Desidera come partner un uomo incapace, suo malgrado, di unirsi a lei e al tempo stesso capisce di non voler più sposare Jim. Il film, in definitiva, mostra che le incapacità e le debolezze del soggetto maschile impediscono anche la felicità della donna.

2. Le registe delle Nouvelles Vagues europee: Agnès Varda e Věra Chytilová

Il nuovo cinema degli anni ’60 rappresenta uno degli episodi più innovativi della storia del cinema, probabilmente secondo solo alle grandi sperimentazioni degli anni ’20. Tra fine anni ’50 e inizio anni ’60 in tutti i paesi con una solida tradizione cinematografica si verifica un cambio generazionale alla regia, che si accompagna al tempo stesso a un cambiamento nella forma e nello stile e spesso anche nei modi produttivi (Micciché 1972).

Anche se in numeri assai risicati – complessivamente poche unità rispetto a centinaia di esordi –, all’affermazione del nuovo cinema partecipano anche alcune registe. Si tratta di figure che non operano ai margini, ma che lavorano nel rispettivo contesto nazionale di questo nuovo scenario. I loro film, infatti, condividono spesso i modi e le tecniche della ripresa e del montaggio dei loro colleghi maschi. L’immaginario e le storie raccontate, invece, si concentrano sistematicamente su personaggi femminili e sulle dinamiche del desiderio e della sessualità della donna in rapporto al maschile. Proprio perché legate all’ambito nazionale in cui operano, il cinema di queste cineaste presenta differenze stilistiche sostanziali, mentre rimane costante l’interesse per le traiettorie della femminilità. Le due registe più interessanti sono a mio avviso Agnès Varda e Věra Chytilová.

Agnès Varda è senza dubbio più conosciuta. La sua fama è probabilmente legata allo statuto della Nouvelle Vague francese, da sempre considerata il movimento trainante del più ampio rinnovamento cinematografico degli anni ’60, ma è anche dovuta alla sua lunga attività. La regista francese è tutt’ora attiva e la sua produzione non si è mai arrestata. Sin dall’inizio Varda si è cimentata con forme diverse, film di finzione e documentari, cortometraggi e lungometraggi, film a episodi, ecc., e questa poliedricità è senza dubbio un tratto autoriale importante.

Anche se nelle storie del cinema istituzionali non le è mai stato attribuito un ruolo pari a Godard e Truffaut, e nemmeno agli altri autori della Nouvelle Vague, un po’ come per la pioniera Alice Guy, a Varda può essere attribuito proprio lo statuto di «origine» della Nouvelle Vague. Effettivamente, negli anni ’60 non le manca qualche riconoscimento importante, anche se ciò non sembra aver lasciato troppe tracce nello sviluppo successivo del discorso critico. Nel 1962, per esempio, Georges Sadoul faceva mea culpa affermando che nel 1956 i critici francesi ebbero il torto di non capire che il primo lungometraggio di Varda, La Pointe-Courte (girato nel 1954 ma uscito appunto nel 1956), «era l’inizio di un’epoca, quella della Nouvelle Vague (molto più che non Et Dieu créa la femme [E Dio creò la donna] di Vadim, o Les mauvaises rencontres di Astruc). Rea­lizzato con un budget molto limitato, in completa indipendenza, senza vedettes [il film] ha anticipato, nei mezzi come nello stile, la nuova corrente del cinema francese degli anni ’60» (Sadoul 1993: 245). Il riconoscimento è tanto più importante se si considera che è fatto dallo storico del cinema più istituzionale del panorama francese del tempo. A dare ulteriore credito a Varda è poi un dato inequivocabile. Tra i circa 150 esordienti alla regia, tra il 1957 e il 1962, non vi è nessuna donna (Sellier 2010: 177)1. Parafrasando il titolo di uno studio di Geneviève Sellier, la Nouvelle Vague francese appare a tutti gli effetti «un cinema al maschile singolare» (Sellier 2005). Pertanto, che l’unica donna della Nouvelle Vague sia l’autrice del primo film del movimento appare piuttosto incredibile.

In questo ambito non ci interessa presentare l’opera di Varda, quanto piuttosto concentrarci su Cléo de 5 à 7 (Cleo dalle 5 alle 7, 1961), il film che meglio incarna non solo il rapporto dell’autrice con il cinema della Nouvelle Vague, ma anche, e soprattutto, la sua «differenza». Se dal punto di vista tecnico e formale il film mostra un profondo legame con lo stile del nuovo cinema, in particolare con Godard, l’immaginario e soprattutto la costruzione del personaggio femminile sono agli antipodi e rispecchiano invece la posizione femminista che l’autrice ha sempre rivendicato.

Cleo dalle 5 alle 7 narra due ore nella vita di una giovane cantante, il tempo che la separa dal responso medico che decreta se è malata di cancro oppure no. In questo tempo, diviso in episodi di pochi minuti ciascuno, indicati da una didascalia, la giovane si dedica alle sue attività abituali: va al bar con l’assistente-amica Angela, prende un taxi, passeggia per le vie di Parigi, acquista un cappellino sfizioso, incontra nel suo appartamento il suo amante e poi i musicisti con cui lavora, ecc. La vita della giovane si sviluppa assieme alla vita di Parigi. Varda ha dedicato interi film a Parigi, mostrando un particolare interesse per le riprese di quartieri e vie della Parigi popolare, come in L’Opéra Mouffe (1958) e Daguerréotype (1975). Questi documentari riprendono la vita quotidiana di strade, gente e negozi concentrandosi su dettagli, volti e oggetti. Ma la regista accompagna il registro sociale a un punto di vista soggettivo femminile forte. Entrambi i film furono fatti quando Varda era incinta. In L’Opéra Mouffe, girato in Rue Mouffetard, il punto di vista è proprio di una donna incinta, la cui visione è segnata dal suo particolare stato fisico ed emotivo. In Daguerréotype invece è la cineasta stessa a inserirsi nel milieu che filma – la zona in cui lei vive. Documentare il quotidiano e l’ordinario è per Varda parte del suo femminismo (Flitterman-Lewis 1990: 238). Così la regista partecipa alla riflessione sulle forme e le pratiche del quotidiano, che costituisce un discorso centrale nella cultura francese dagli anni ’60 agli anni ’80. Basti pensare all’opera di Henri Lefebvre, Roland Barthes, Michel de Certeau e Georges Perec (Sheringham 2006).

In Cleo dalle 5 alle 7 la componente documentaristica è forte, ma la sua funzione sembra essere diversa. Da un lato Varda, come Godard, fonde le due supposte anime del cinema, il documentarismo dei Lumière e la finzione di Méliès. Una tradizione critica oramai obsoleta ha in passato dato grande risalto a questa origine duale del cinema, peraltro considerando solo la tradizione francese. In questa prospettiva il cinema della Nouvelle Vague parteciperebbe in modo fondamentale alla rottura di questa polarità, proponendo una forma cinematografica che mescola tecniche finzionali con modi di ripresa «realistici». Si tratta dell’opzione scelta in particolare da Godard. Il progetto estetico di Varda è in sintonia con quello di Godard, ma si sviluppa in una direzione diversa. In Cleo dalle 5 alle 7 ogni scelta formale si inserisce nel contesto più ampio del lavoro sulla soggettività, sul personaggio femminile. Il film, infatti, racconta la trasformazione di Cleo e in questo processo il rapporto tra personaggio e ambiente occupa un ruolo fondamentale. È importante sottolineare l’affinità tra Varda e Godard perché, pur non avendo un punto di vista femminista, Godard è il solo autore della Nouvelle Vague a indagare costantemente la rappresentazione dell’immagine e della sessualità femminile (Mulvey e MacCabe 1980).

Sandy Flitterman-Lewis ha affermato che la problematica centrale di Cleo dalle 5 alle 7 è la questione della donna come immagine. Il film costruisce un percorso attraverso cui la protagonista si trasforma da «donna-spettacolo» in soggetto attivo. Cessando di essere un oggetto costruito dallo sguardo maschile e appropriandosi dello sguardo, Cleo assume un’identità nuova, un’immagine che lei stessa è in grado di controllare (Flitterman-Lewis 1990: 268-269). Si tratta di un processo di autoriflessione e presa di coscienza che investe il rapporto di Cleo con l’altro in tutte le sue forme, gli uomini che la circondano, ma anche la città in cui vive. Che questa trasformazione passi attraverso un progetto di visione, di sguardo, dimostra che per Varda un racconto o un’idea non pre-esistono, ma vengono creati dal medium cinematografico.

Lo statuto di donna-spettacolo di Cleo è messo in scena nella prima parte del film attraverso reiterate dinamiche narcisistiche. Cleo si specchia e ammira di continuo la propria immagine, consapevole della propria bellezza. Se nella scena iniziale la bellezza è un antidoto contro la malattia e la morte – una donna così bella non può essere ammalata, afferma Cleo specchiandosi dopo l’incontro con la cartomante –, in seguito il narcisismo estremo della donna si configura come un desiderio consapevole di offrirsi allo sguardo altrui. Basta pensare all’episodio nel negozio di cappelli: mentre si prova una serie di cappellini bizzarri – che ricordano quelli delle protagoniste della screwball comedy americana – Cleo si ammira e si compiace della sua bellezza. La scena è un caleidoscopio di luci e giochi riflettenti. Attraverso sovrimpressioni spettacolari, Varda fonde l’immagine della donna con le superfici trasparenti delle vetrine del negozio, le merci ben esposte e le luci, in una configurazione visiva tipica del cinema degli anni ’20. Le riprese urbane di Parigi e le lunghe passeggiate di Cleo sui marciapiedi fanno rivivere le atmosfere della modernità che il cinema degli anni ’20 aveva così efficacemente proiettato. E Cleo è a tutti gli effetti un’immagine di donna moderna, implicata con la cultura di massa, una versione aggiornata della New Woman degli anni ’20.

Le pulsioni narcisistiche di Cleo si esprimono anche attraverso determinate posture del corpo, come per esempio quando si mette in posa, quasi a congelarsi in un ritratto, nel letto del suo appartamento dove accoglie la visita quotidiana dell’amante. Ma anche le sue passeggiate per i marciapiedi di Parigi, seguite con lunghi carrelli, mostrano una donna che si muove sperando di attirare lo sguardo dei passanti. Poi nella scena del Dôme, dopo aver messo un suo motivo al juke-box, esce dal locale, si mette gli occhiali scuri e passeggia tra i tavoli, per vedere se i clienti la riconoscono. Ma nessuno si accorge di lei e qualcuno si lamenta del rumore del juke-box. In effetti qui i numerosi ospiti del locale parlano dell’«arte vera»: c’è chi nomina il surrealismo, chi Miró e Picasso, mentre ai muri sono appese svariate riproduzioni di quadri astratti. Ci muoviamo su un altro piano rispetto alle canzonette di Cleo. Ma il «giudizio» di Varda non è certo sfavorevole alla sua protagonista. Nel legare il soggetto femminile alla cultura di massa, Varda ripropone un discorso fondativo della modernità, che aveva stabilito una connessione tra femminilità e cultura di massa da un lato, mascolinità e arte dall’altro. Com’è noto, i giudizi di valore erano a favore dell’arte. Varda esprime un punto di vista diametralmente opposto, così come fa Godard, per il quale la cultura di massa – assieme all’immagine femminile – costituisce un vero e proprio discorso, nel senso foucaultiano, iscritto nella dimensione visiva e sonora dei suoi film (MacCabe 1980).

Al Dôme nessuno più guarda Cleo, nessuno la riconosce. Effettivamente questa scena è l’inizio della traiettoria di trasformazione della protagonista. Lo spartiacque tra le due fasi è costituito dalla scena delle prove di canto nell’appartamento di Cleo. La donna rimprovera i due musicisti di non considerare il suo talento e di ritenerla solo una ragazza capricciosa. Quindi si veste di nero, mette il bizzarro cappello da poco comprato e se ne va lasciandoli soli. Dopo il Dôme Cleo si reca in un atelier di scultura a trovare un’amica che fa da modella. L’iniziativa di Cleo di andare a trovare l’amica appare un atto di generosità e di altruismo, un’improvvisa attenzione all’altro, l’opposto del comportamento narcisista e autoreferenziale fin qui mostrato. Cleo le racconta della sua malattia, poi insieme vanno dal fidanzato dell’amica che, in una piccola sala, sta proiettando un film. Si tratta di una pellicola che imita lo stile del cinema muto e che vede tra gli interpreti Jean-Luc Godard e Anna Karina, impegnati in quell’anno a girare il loro terzo film insieme (Questa è la mia vita). Quando le due stanno per andarsene, a Cleo cade la borsetta e lo specchio all’interno si rompe. L’episodio non può che essere visto in modo speculare e opposto a tutti i momenti della prima parte in cui la donna si specchiava: non potendo più guardare la propria immagine, ora Cleo guarderà al di fuori di sé. Se questa interpretazione è chiara alla spettatrice, è curiosa la reazione della protagonista: per Cleo lo specchio rotto è un segno di mala sorte. Come all’inizio del film, quando era andata dalla cartomante per conoscere il suo destino, Cleo mostra di essere superstiziosa. Così, accanto al discorso della modernità, che lega la donna alla cultura di massa, il film sembra conservare un retaggio passato, legato non solo alla superstizione, ma anche a pratiche culturali e spettacolari popolari, come l’uomo che si esibisce mentre ingoia rane vive, e che Cleo si ferma a guardare. Questa compresenza di modernità e tradizione, cultura di massa e cultura folk, stile di vita borghese e popolare, appare un tratto peculiare dell’opera di Varda.

Prima di lasciarla, in un ulteriore gesto di generosità, Cleo regala all’amica il cappellino, quindi si fa accompagnare in taxi a un parco. Qui incontra un soldato che sta aspettando di ripartire, quella sera stessa, per l’Algeria. Accomunati dalla vicinanza con la morte, dopo pochi istanti i due trovano una intesa affettiva insperata. La configurazione di questo incontro esalta, per differenza, la vacuità del rapporto con l’amante. Il soldato accompagna Cleo alla Salpêtrière per la risposta delle analisi. Effettivamente la donna è ammalata, ma il medico le prospetta due mesi di radioterapia e la guarigione. L’ottimismo del medico appare esagerato, ma non va inteso in senso drammaturgico. Piuttosto, le sue parole, consegnate non nell’ambiente asettico e triste di un ambulatorio d’ospedale, ma nel viale del giardino della Salpêtrière, vanno viste in relazione al nuovo atteggiamento di Cleo. Il film termina con un primo piano di Cleo e del soldato che camminano, mentre la macchina da presa si muove con un carrello a precedere, mantenendo così l’inquadratura in primo piano. Pur avendo avuto una notizia negativa, Cleo afferma di non avere più paura e di sentirsi felice. Rispetto all’inizio, quando aveva negato la possibilità della morte in nome della bellezza, ora che la morte è tangibile, la forza del sentimento, evidentemente conosciuto per la prima volta, è più forte della morte stessa. Così come lo è per il soldato che tra poche ore sarà nuovamente in pericolo di vita sul fronte di guerra. La traiettoria di Cleo passa dunque attraverso uno dei topoi della modernità filosofica e artistica: il passaggio dall’inautenticità dell’immagine, della superficie e del corpo, alla «verità» della profondità e dell’interiorità del soggetto (Jameson 1989).

Con il cinema di Věra Chytilová ci troviamo in una dimensione completamente diversa. In quello che, dopo quasi trent’anni, rimane uno dei migliori studi sulla Nouvelle Vague cecoslovacca, Peter Hames inizia la sua analisi della regista affermando che «anche se il nome di Věra Chytilová appare occasionalmente in articoli sul cinema femminista, o come una nota all’analisi di Jacques Rivette, la maggior parte dei suoi film rimane inaccessibile al di fuori della Repubblica Ceca. Quando la situazione cambierà, Chytilová sarà vista come uno dei registi più radicalmente innovativi degli anni ’60» (Hames 2005: 183). Dal 1985, quando il libro di Hames esce, la disponibilità dei film di Chytilová è ovviamente cambiata e almeno la sua opera più importante, Sedmikrásky (Le margheritine, 1966), e il successivo, Ovoce stromu rajských jíme (Il frutto del paradiso, 1969), sono visibili anche in dvd. Per quanto riguarda lo statuto della regista, gli studi critici più recenti confermano naturalmente il suo posto nell’ambito del cinema femminista, ma la inseriscono a pieno titolo anche nella tradizione avanguardistica del nuovo cinema cecoslovacco (Owen 2011).

La biografia artistica (e non) di Chytilová è segnata in modo violento dall’invasione sovietica del 1968. Mentre molti registi cecoslovacchi, come il capofila del movimento Milos Forman, preferirono l’esilio, Chytilová rimase sempre nel paese d’origine. Tra il 1969 e il 1970 il regime non solo bandì almeno un terzo della produzione nazionale, ma censurò anche molti film prodotti negli anni precedenti, ritirandoli perfino dai distributori occidentali. In questo scenario Chytilová pagò un prezzo molto alto: alla regista fu impedito di lavorare dal 1969 al 1975 (Hames 2005: 2-3). Come tutti i resoconti biografici ricordano, nel 1975 Chytilová si decise a scrivere una lettera al presidente Husák per rispondere alla commissione che la accusava di non avere un atteggiamento positivo verso il socialismo. Chytilová difese il diritto di un artista a sperimentare e obiettò che l’opposizione al suo lavoro era frutto di misoginia: il vero problema stava nel fatto che era donna (Cua Lim 2001: 40-41). Anche per effetto di questa lettera la regista tornò al lavoro e l’anno successivo completò Hra o jablko (Il gioco della mela, 1976).

Come Forman e Jires, Chytilová gira il suo primo lungometraggio nel 1963. Ma la regista aveva esordito nel 1961 con Strop (Il soffitto), il suo film di laurea, che già indica la vena innovativa e sperimentale che caratterizzerà il suo cinema. Marta, una studentessa di medicina, abbandona gli studi per la carriera di modella. Il film racconta il mondo della moda da un’ottica femminista mostrandone solo i lati negativi: i momenti di noia, l’applicazione rituale del trucco e la routine delle performance. Lo stile di vita delle modelle è superficiale e materialistico. Quando Marta se ne rende conto va in visita alla famiglia di origine in campagna. Questo esito moralizzante e propagandistico non è però il finale del film. Il soffitto si conclude con una sequenza astratta che ricorda la camminata di Jeanne Moreau in La notte e il finale di L’eclisse. Come in L’eclisse il corpo della protagonista diventa un elemento formale della composizione dell’inquadratura: oggetto tra gli oggetti, perde così i tratti dell’umano (Hames 2005: 183-184).

L’interesse per le traiettorie del femminile è confermato nel primo lungometraggio, O něčem jiném (Qualcosa d’altro, 1963), in cui, attraverso l’espediente del montaggio alternato, si confrontano le vite di due donne, la campionessa mondiale di ginnastica Eva Bosáková e Vera, una casalinga «qualunque».

Questo tipo di indagine continua in Le margheritine, il film successivo. Non è però sensato fare confronti, né stabilire una continuità tra i primi film di Chytilová e quello del 1966, vero e proprio capolavoro della regista ceca. In Le margheritine una sperimentazione formale intensa e originale si fonde con una sperimentazione altrettanto radicale della soggettività femminile. Due teenager, nominate Maria I e Maria II in sceneggiatura, ma senza nome nel film, decidono di compiere atti estremi in risposta a una condizione deteriorata del mondo. Il «progetto» viene enunciato nella prima scena del film mentre si trovano in piscina, sedute come marionette, appoggiate a un muro di legno e con le gambe rigide e divaricate. Nel breve dialogo le due si lamentano che nessuno capisce nulla e neppure capisce loro; tutto in questo mondo è oramai rovinato e se così è, anche loro seguiranno lo stesso tragitto. Nonostante la chiarezza degli intenti questa presa di posizione non è una decisione cosciente. Le due Marie, infatti, non sono soggetti dotati né di coscienza, né di interiorità. Le protagoniste di Chytilová non solo hanno le sembianze e i movimenti meccanici della marionetta o della bambola, ma anche i tratti essenziali antiumani di questi oggetti perturbanti. Esseri un po’ umani, un po’ meccanici, le due Marie si esprimono in atti distruttivi tipicamente dada, condividendo con l’esperienza dadaista l’atteggiamento di totale negatività verso il mondo. Ma la configurazione degli elementi corporei e dell’azione ricorda anche la tradizione teatrale e cinematografica della farsa e della slapstick comedy, mentre un punto di riferimento contemporaneo sono senza dubbio gli happening, in cui il corpo dell’attore è una pura superficie priva di espressività.

Il film di Chytilová è dunque comprensibile alla luce di varie tradizioni avanguardistiche, anche se mantiene in ogni modo una linea narrativa. Il rapporto con l’avanguardia è particolarmente evidente in relazione alla configurazione della soggettività che mostra una combinazione di «passività meccanica» e «violenza rivoluzionaria» (Owen 2011: 107). Più in generale, si tratta di una soggettività «assemblata», composta come le opere avanguardistiche da un montaggio di frammenti diversi, e non secondo il principio dell’unità dell’io (che richiede un legame profondo tra interiorità ed esteriorità). In questo scenario, gli atti delle protagoniste non possono essere definiti «azioni», quanto piuttosto performance in una tradizione legata sia all’avanguardia dei decenni precedenti e agli happening che a una linea di ricerca femminista che anticipa il cinema di Chantal Akerman (Pravadelli 2000). La nozione di performance e di soggetto performativo è infatti particolarmente utile per un’estetica femminista, perché consente di operare una decostruzione delle immagini e dei codici in cui il femminile è stato ingabbiato. La centralità di questa operazione definisce anche una differenza importante tra Chytilová e Varda. La traiettoria di Cleo consiste proprio nella scoperta, nella rivelazione finale di una qualche interiorità (verità), fino ad allora oscurata da immagini e comportamenti falsi. In questo Varda dimostra la sua piena adesione ai paradigmi della modernità. Al contrario, le performance di Maria I e II mostrano come il soggetto non possa essere definito da una essenza o un’autenticità che gli è propria, ma sia il prodotto delle performance che mette in atto. Alla profondità del soggetto moderno, che con l’azione o la parola esprime la sua interiorità, si sostituisce il soggetto postmoderno, la cui identità è perennemente under construction e si forma attraverso atti riconosciuti e resi significativi dal simbolico, non dal soggetto stesso. Poiché la donna è stata storicamente posizionata in una dimensione subordinata, e ogni forma patriarcale ha rivendicato la naturalità dell’asimmetria tra i sessi, la nozione di identità come performance (Butler 2004) ha consentito di rovesciare questo paradigma.

Sono queste le premesse teoriche che ci consentono di capire la soggettività femminile nel film di Chytilová. «Corpi senza organi» – come direbbero Deleuze e Guattari (1975) –, con i loro gesti meccanici e defamiliarizzanti, Maria I e Maria II rendono esplicito il codice di riferimento cui un’azione «naturale» obbedisce ma che al tempo stesso nasconde. I sistemi di codificazione costantemente messi in discussione dal film riguardano la sessualità e le dinamiche di genere da un lato, l’etichetta negli spazi pubblici dall’altro. A tale scopo Chytilová si serve di un motivo ricorrente che struttura l’intero film, ovvero il cibo e le regole a tavola. Il punto di vista femminista dell’autrice emerge in primo luogo negli episodi al ristorante. Le due amiche hanno brevettato un modo molto efficace per farsi offrire un pasto: si fanno invitare a cena da uomini sposati e molto più maturi di loro con la promessa di prestazioni sessuali. Salvo poi accompagnarli alla stazione senza aver ricambiato il favore. Nel corso del film l’espediente viene ripetuto tre volte.

Questi episodi mostrano come funziona la strategia decostruttiva e defamiliarizzante di Chytilová. Le scene del ristorante non sono inserite in una linea narrativa. Come ogni altro episodio del film manca qualsiasi rapporto di causa-effetto, nel senso che gli eventi non sono motivati dal desiderio di un personaggio, e ogni scena è autonoma. Pertanto, quando vediamo la prima cena al ristorante cogliamo esclusivamente il suo aspetto codificato: nel vedere un uomo maturo e sposato cenare con una teenager la spettatrice riconosce un’immagine particolare del rapporto tra uomo e donna e che risale, nella cultura visuale specificamente cinematografica, almeno alla golddigger degli anni ’20.

La strategia formale di Chytilová non tende solo alla messa in evidenza del codice, ma anche a una esplicita critica del comportamento maschile. Innanzitutto, domina un registro comico e l’erotismo è completamente assente. Il primo episodio è particolarmente efficace. Mentre Maria I è al tavolo con la preda, Maria II arriva e si unisce senza essere invitata. Quindi ordina una quantità incredibile di piatti iniziando dal dolce. Maria II rompe chiaramente tutte le regole dell’etichetta, sia in relazione alla coppia che alle buone maniere a tavola. E le ragazze fanno domande impertinenti sulla famiglia dell’uomo: così diventa chiaro che egli non si trova dove dovrebbe essere e che il tradimento della moglie va biasimato. Il momento più comico e più critico verso il comportamento maschile è l’esito dell’incontro, cioè l’assenza del rapporto sessuale su cui l’uomo contava.

Gli episodi del ristorante sembrano essere direttamente collegati all’epilogo, vero e proprio climax del film: il finale è un’orgia di cibo e violenza in cui le due amiche distruggono un banchetto estremamente lussuoso dopo aver avidamente assaggiato le decine di piatti e leccornie che lo compongono. Sempre alla spasmodica ricerca di cibo, le due Marie giungono al piano alto di quello che appare un hotel di lusso, dove è pronto un banchetto. Passano in rassegna tutti i piatti avventandosi in modo bulimico sulle pietanze. Poi cominciano a distruggere tutto camminando sopra le pietanze allineate. Il divertimento è completato dondolandosi al pesante lampadario posto sopra la tavola imbandita. Dopo aver distrutto tutto, le due protagoniste decidono di riformarsi. Troviamo qui la parodia di un tropo di molti racconti del realismo socialista, quello «di un personaggio negativo o parassita che decide di diventare socialmente utile» (Owen 2011: 121). Maria I e Maria II cominciano a riordinare per quanto possibile la sala, quindi si stendono sul tavolo. Soddisfatte, ripetono più volte di essere finalmente felici. Proprio nel momento in cui «decidono» di avere un atteggiamento costruttivo, il pesantissimo lampadario si stacca dal soffitto. Chytilová decide di non mostrare il momento dell’impatto (mortale) e monta invece l’immagine del lampadario con inquadrature di archivio di esplosioni e distruzioni di guerra, come all’inizio del film. L’epilogo suggerisce numerosi spunti di riflessione. Da un lato il banchetto appare con tutta evidenza destinato a un festeggiamento ufficiale del Partito; dall’altro l’abbondanza e la ricchezza delle pietanze appare eccessiva, un vero e proprio spreco. L’atto vandalico delle protagoniste non fa che dare risalto allo spreco. Appare poi del tutto ironico che le protagoniste perdano la vita proprio nel momento in cui decidono di adeguarsi a comportamenti socialmente accettati: un’ulteriore prova di come Chytilová – contrariamente a quanto ha dichiarato per difendere il film dalla censura – condivida il punto di vista delle protagoniste.

3. Il cinema indipendente americano e le pratiche dell’identità

L’accesso ai grossi budget di Hollywood è ancora molto limitato per le donne e il caso di Kathryn Bigelow è una grossa anomalia. La regia femminile è invece una presenza fondamentale, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo, nel panorama del cinema indipendente americano. Anche grazie al ruolo del Sundance Film Festival, tra fine anni ’80 e inizio anni ’90 assistiamo all’emergenza di una nuova generazione di registe il cui cinema, nonostante immaginari e stili diversi, non può non essere visto come uno degli effetti del secondo femminismo. Lo sviluppo del women’s cinema indipendente è poi continuato, tanto che nel 2000 il 40% dei candidati al premio per miglior film drammatico al festival di Robert Redford erano donne (Lane 2005: 193). Il circuito dei festival continua a essere fondamentale per la visibilità del women’s cinema in quanto sono proprio i festival – oltre al Sundance pensiamo anche a quello di Toronto e al più recente Tribeca Film Festival (nato nel 2002) – a costituire l’occasione principale per trovare un distributore. E questo è vero anche per il cinema delle donne del World Cinema (White 2014).

Le questioni dell’identità costituiscono l’interesse centrale del cinema indie americano: se negli anni ’70 e ’80 erano state sviscerate dal cinema femminista d’avanguardia, ora si trasferiscono in modi rinnovati in questa nuova forma filmica. Il cinema, infatti, registra lo stesso cambiamento che nel decennio precedente aveva contraddistinto la teoria femminista americana. Il racconto della soggettività femminile ora perde i tratti dell’universalità: le protagoniste di questi film sono definite non solo dal loro essere donne, ma anche dall’appartenenza a un determinato gruppo etnico o razziale, a una classe sociale, o ancora dalla loro preferenza sessuale. Questi elementi fanno parte della caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti ed entrano ovviamente nelle dinamiche del dispositivo narrativo, ma non vengono usati in modo meccanico o didattico, né sottoposti a un trattamento saggistico, com’era il caso dei film teorici e decostruttivi della feminist avant-garde.

Le categorie identitarie, che definiscono l’appartenenza dell’individuo a una o più collettività, caratterizzano al tempo stesso non solo il personaggio, ma, quasi sempre, anche l’identità della regista stessa. La società multiculturale americana traspare in modo chiaro nella produzione cinematografica indipendente con la presenza di cineaste afroamericane, italoamericane, latine, ecc. I film sono sia alimentati dal sistema simbolico di valori che caratterizza una determinata comunità che diretti a quella stessa comunità, prima audience di riferimento. Il cinema indipendente femminile contribuisce così in modo fondamentale alla costruzione e disseminazione delle identità, che sono in ogni modo sempre contraddittorie. Come vedremo attraverso l’analisi di alcuni film, l’identità viene prodotta e consumata attraverso la cultura definendo così «l’ambito entro il quale noi diamo un senso alle nostre esperienze, marcando simbolicamente identità e differenza» (Lutter e Reisenleitner 2004: 89).

Il film che apre questa prima ondata di cinema indie al femminile è True Love, esordio dell’italoamericana Nancy Savoca, che con quest’opera vince nel 1989 il Grand Jury Prize al Sundance. Savoca girerà poi Dogfight (Dogfight – Una storia d’amore, 1991) e House­hold Saints (1993), per poi aspettare diversi anni prima di riuscire a girare The 24-Hour Woman (24 ore donna, 1999). Allison Anders debutta nel 1992 con Gas, Food, Lodging (Deserto di Laramie), seguito da Mi Vida Loca (1993). Sempre nel 1993 con Just Another Girl on the I.R.T. debutta Leslie Harris, regista afroamericana che con questo film ottiene lo Special Jury Prize al Sundance. Darnell Martin, altra regista afroamericana, esce col suo primo film, I Like It Like That (Così mi piace), nel 1994. Il quadro degli esordi eccellenti è completato da Go Fish (1994), primo film di Rose Troche, che detiene numerosi primati. Girato in bianco e nero, il film costò appena 66.000 dollari e fu la prima opera a essere acquistata «da un distributore durante il Sundance Film Festival». Ma Go Fish va ricordato anche per il suo esito al botteghino: nonostante non avesse i tratti estetici per sfondare, la nuova nicchia di pubblico lesbico contribuì in modo fondamentale al suo successo (Lane 2005: 202). Il film, infatti, è uno dei lavori più importanti del New Queer Cinema. B. Ruby Rich, cui si deve la definizione, coglie la nascita di questa nuova tendenza del cinema gay e lesbico nel biennio 1991-1992 quando, sempre grazie alle politiche di selezione di alcuni festival, il fenomeno diventa visibile (B. Ruby Rich 2004). Go Fish fu promosso espressamente per i suoi contenuti sessuali, mentre l’identità latina di Troche rimase in ombra.

Naturalmente l’incrocio e le combinazioni delle categorie identitarie varia a seconda dei film e non è certamente una ricetta che può assicurare la riuscita estetica o il successo di critica o pubblico di un film. Mi pare tuttavia che la questione dell’identità sia una delle chiavi principali per interpretare il women’s cinema indie da inizio anni ’90 sino a oggi. Questo esito è peraltro in sintonia con il dibattito e il contesto socio-culturale, oltre che accademico, americano del periodo. L’interesse e la riuscita di questi film non dipendono ovviamente solo da queste tematiche, quanto piuttosto dalla convergenza tra le problematiche identitarie – variamente diffuse anche nell’immaginario del tempo – e le opzioni estetico-formali scelte dalle registe. La gran parte dei film, infatti, può avere avuto un impatto particolarmente forte con l’audience di riferimento, ma l’apprezzamento è più spesso stato indistinto, sia per quanto riguarda la critica che per il pubblico. Mi soffermerò qui solo sul periodo iniziale del cinema indie: la produzione sino a oggi è talmente vasta che possono essere date, in questo contesto, solo delle indicazioni generali.

True Love narra la vita di una comunità italoamericana a New York attraverso la traiettoria di Donna (Annabella Sciorra) e Michael, prossimi al matrimonio, dei loro amici e delle loro famiglie. Il mondo narrato è chiuso e autosufficiente, completamente separato, parallelo rispetto a quello «ufficiale». Non vi è né contaminazione né integrazione tra i due luoghi e nella visione di Savoca il mondo degli italoamericani di New York è statico, quasi completamente chiuso al cambiamento. Un mondo statico che diventa, grazie a scelte di sceneggiatura e di messa in scena, un mondo claustrofobico. Si può leggere proprio sotto il segno della claustrofobia la traiettoria dei personaggi e delle donne in particolare, incapaci di liberarsi da convenzioni fuori tempo, e visivamente intrappolate in luoghi e spazi angusti: il quartiere periferico, da cui non si vedono i segni e le luci della metropoli, e la cucina.

Il migliore esempio di claustrofobia visiva in True Love è la scena nel bagno, alla fine del film, dove Donna si rifugia a piangere dopo che Mike le ha detto che la prima sera di nozze vuole uscire con gli amici. La macchina da presa riprende in campo medio la protagonista, seduta nella toelette attorniata dalle amiche: il gruppetto occupa il terzo centrale verticale dell’inquadratura, mentre gli altri due terzi del piano sono occupati dalle porte rosa del bagno. L’effetto è di posizionare la protagonista in uno spazio angusto da cui sembra non poter uscire. Una simile inquadratura sarà ripetuta quando Mike entra per parlare con Donna, mentre in un altro piano la distanza tra i due è resa sfuocando l’inquadratura del giovane e posizionando in lontananza la donna, inquadrata dal basso sull’uscio della porta.

Se la commedia è originariamente il «genere dell’integrazione», ovvero il genere in cui l’individuo, tramite il rapporto di coppia e il matrimonio, si integra in un ordine sociale di cui accetta le regole, in True Love questo processo appare in crisi. Vi è una palese asimmetria tra maschile e femminile: Mike vede nel matrimonio una situazione insoddisfacente, mentre Donna non ha alcuna identità al di fuori di questo rapporto. È dunque assente quel processo di modernizzazione del rapporto di coppia che negli Stati Uniti inizia nei primi anni del Novecento e che gli storici hanno definito «matrimonio cameratesco», ovvero quel rapporto in cui l’uomo e la donna dovevano essere amici e anche amanti prima di imbarcarsi in un affare serio come il matrimonio. Evidentemente la crisi del matrimonio non inizia ora e con l’esordio di Savoca: il film rientra in una più generale dinamica di difficoltà o impossibilità del romance che tocca anche la commedia hollywoodiana sin da fine anni ’70.

La difficoltà del romance sembra in parte causata dalla presenza oppressiva e ossessiva della famiglia e della comunità. Il film dà grande risalto al collettivo e l’azione di Donna appare circoscritta o accerchiata dalla presenza della comunità. La prima sequenza, con la lunga fila di clienti nel negozio, dà l’idea di una comunità dove tutti si conoscono e condividono lo stesso stile di vita. La continui­tà tra individuo, famiglia e comunità è resa dalla struttura formale del film, in cui si susseguono episodi ambientati nella strada e negli interni dei piccoli appartamenti di Donna e Michael. La continuità dei due spazi è suggerita dal montaggio veloce e spesso nervoso che unisce un episodio all’altro, un personaggio all’altro. Ma nel film si riscontra anche una seconda struttura: l’alternanza tra episodi in cui sono protagoniste le donne ed episodi con personaggi maschili. Questa strategia è fondamentale nel delineare la separazione forte tra femminile e maschile e suggerisce che i due mondi hanno veramente pochi punti di contatto: Mike preferisce la compagnia degli amici, mentre Donna vorrebbe che il fidanzato passasse tutte le sue serate con lei.

La gran parte del film è girata in montaggio alternato: gli episodi femminili tendono a essere ambientati negli interni domestici, quelli maschili nel bar o nel luogo di lavoro. In True Love il rapporto maschile/femminile è disomogeneo: da un lato Mike è infantile e non è pronto a prendersi delle responsabilità, dall’altro Donna si identifica solo con il ruolo di moglie e ha come unico desiderio il matrimonio. Ma, forse, si potrebbe dire che la donna cerca nell’uomo non un marito tradizionale, ma un compagno di vita con cui condividere tutto e che Mike non è all’altezza. Così, la vita che si prospetta per i due è un rapporto tradizionale in cui il divertimento è relegato al rapporto d’amicizia con lo stesso sesso, mentre il matrimonio è un obbligo rassicurante ma al tempo stesso noioso. A Donna non rimane che accettare lo status quo. Pur essendo insoddisfatta, la protagonista è incapace di una vera ribellione: forse il montaggio rapido e i cambiamenti repentini di sequenza, lo stile nervoso del film, sono il correlato formale all’insoddisfazione della protagonista, un’insoddisfazione che per il momento non si trasforma in azione.

In questo mondo, che si regge sull’evidente dominio delle leggi della famiglia e della comunità rispetto a quelle «dell’individuo», non vi è spazio per posizioni contraddittorie. Non è possibile un’esistenza borderline, in between, negoziata. Pur infelice, Donna rimane all’interno della comunità di origine, la sola in grado di conferirle un’identità.

Le questioni identitarie affrontate da Allison Anders nei suoi primi film rivelano anch’esse un legame forte con la biografia della regista. Deserto di Laramie è ambientato in un piccolo paesino nel deserto del New Mexico, tra sottoproletari bianchi e chicani. Le protagoniste, una madre single che lavora come cameriera in un diner e le due figlie adolescenti, vivono poveramente, ma dignitosamente, in una roulotte parcheggiata in un trailer park. Le protagoniste sono bianche e fanno parte di quella classe sociale che un’espressione fortemente razzista definisce «white trash». A Laramie non c’è assolutamente nulla da fare se non sperare un giorno di andarsene. Così Trudi, la maggiore delle due sorelle, passa da un ragazzo all’altro, mentre la sorella minore, Shade, frequenta il cinema locale in lingua spagnola dove ogni giorno proiettano un melodramma classico messicano con la diva Elvia Rivero. Nel corso del film veniamo informati che Trudi ha in passato subito una violenza sessuale di gruppo e che questo evento ha in qualche modo causato la sua promiscuità. La vita delle tre donne è segnata dalla solitudine e dalla violenza maschile e le prospettive delle figlie sembrano replicare il destino della madre. Molti degli episodi che segnano la vita delle tre protagoniste si ritrovano nella biografia della regista, come l’abbandono del padre da piccola, la violenza sessuale di gruppo, una gravidanza in solitudine da teenager, e la vita da studentessa-madre single con due figlie negli anni trascorsi alla Film School della UCLA (Levy 1999: 379-380). Ma anche l’interesse per la comunità e la cultura dei messicani-americani è legato alla biografia di Anders. Originaria del Kentucky, negli anni ’70 e ’80 la regista vive nel quartiere di Echo Park a Los Angeles, una zona di bassa estrazione sociale abitata in maggior parte da chicani. A Echo Park, quartiere di Central LA non lontano da Hollywood, Anders ambienterà il suo secondo film. Mi Vida Loca, che racconta la vita di quattro ragazze appartenenti a una gang, è considerato il primo film su personaggi di latinas. Non è possibile analizzare qui nel dettaglio il cinema delle registe chicane, ma vorremmo almeno ricordare Real Women Have Curves (Le donne vere hanno le curve, 2002) di Patricia Cardoso e il recentissimo Mosquita y Mari (2012) di Aurora Guerrero, ambientati rispettivamente a East LA e a Huntington Park (a Southeast LA), quartieri abitati per oltre il 90% da latinos (Mendible 2008).

La predilezione di Anders per donne forti e di bassa estrazione sociale e che, in assenza di uomini affidabili, costruiscono da sole la propria vita e quella dei figli, costituisce un elemento biografico che avvicina Anders a molte registe di altre etnie. La gran parte dei film ambientati nelle comunità italoamericane, chicane e afroamericane prediligono contesti e personaggi working class e non borghesi. Questo immaginario è però raramente accompagnato da un’estetica realista o neorealista: semplicemente la scelta di location vere àncora i film a una realtà geografica specifica. Anders, in particolare, costruisce una tessitura narrativa, fotografica e coloristica di indubbia efficacia.

In Deserto di Laramie gli uomini sfruttano sessualmente le donne ma poi le abbandonano. Il comportamento sessuale «è condizionato da una storia della frontiera in cui gli uomini se ne vanno lasciando indietro le donne a mettere le radici nel deserto. Evocando la differenza sessuale come topos centrale del mito della frontiera il film dà un’immagine revisionista del moderno West, focalizzando l’attenzione sulle sfide psicosociali delle due sorelle in un mondo solitamente dominato dalle prerogative individualistiche della libertà maschile e del dominio dell’uomo sulla donna e la natura». In questo modo il film stabilisce una connessione tra le donne bianche poste ai margini e la comunità dei chicani, anch’essa marginalizzata (Rueschmann 2000: 70).

Il discorso di gender viene articolato soprattutto attraverso il diverso rapporto che le due sorelle istituiscono con le figure parentali, in particolare la madre. Ma il film non assegna un ruolo ugualmente importante alle due sorelle: il racconto viene narrato dal punto di vista di Shade che sin dall’inizio interviene in voice over a informare la spettatrice sui suoi desideri e pensieri più intimi. Shade sconfigge la noia quotidiana andando al cinema. Il potere di fascinazione e produzione immaginaria del cinema è mostrato in tutta la sua forza: guardando i film di Elvia Rivero (diva immaginaria), Shade viene ispirata a compiere alcune azioni importanti. Da un lato vuole cercare un fidanzato per la madre, così da poter ricostituire la famiglia perduta, dall’altro comincia a cercare il proprio padre. La fantasia sulla famiglia perduta viene anche alimentata dalla pellicola di un film di famiglia che Shade conserva gelosamente e in cui il giovane padre viene ritratto mentre gioca con le due figlie ancora piccole. Quando la ragazza riuscirà a rintracciarlo troverà una persona quasi irriconoscibile: un uomo di mezza età, che fa lavori saltuari e vive con un’altra donna in un’abitazione modestissima. Diversamente dalla madre e dalla sorella, nell’ultima parte del film Shade inizia una relazione sentimentale sincera con un giovane chicano, esito favorito dal suo amore per il cinema messicano. Nel film, la cultura messicano-americana appare più profonda e radicata di quella yankee in cui Shade è cresciuta. La cultura bianca working class del luogo è dominata dalla fugacità, dall’essere sempre di passaggio, come gli uomini della madre e della sorella. Come ben recita il titolo del film, è la cultura del gas, food, lodging – l’indicazione che nelle strade di lunga percorrenza segnala la presenza di un luogo di ristoro – di una breve sosta a interrompere un movimento continuo (Rueschmann 2000: 72). Lo scenario fantasmatico di cui si nutre Shade è quindi l’opposto di quello della madre e della sorella e alla fine la ragazza sembra capace di cambiare veramente la sua vita affettiva.

Oltre a essere uno dei film più importanti del New Queer Cinema, Go Fish dà inizio ufficialmente alla nuova ondata di New Lesbian film di metà anni ’90. Secondo Ruby Rich i New Queer films presentano vocabolari estetici diversi, ma sono accomunati da un tratto postmoderno: usano il pastiche e l’ironia e si sbarazzano di un approccio umanista al soggetto. Queste opere «sono irriverenti ed energiche, minimaliste oppure eccessive. E, soprattutto, sono piene di piacere» (Ruby Rich 2004: 16). Il cinema queer e il termine «queer» non sono sinonimo di omosessuale. Queer «rappresenta la resistenza, in particolare, ai codici normativi di genere e dell’espressione sessuale [...] ma anche al potenziale restrittivo della sessualità gay e lesbica [...]. Come concetto critico, queer comprende la non fissità dell’espressione di genere e la non fissità sia della sessualità gay che di quella etero» (Aaron 2004: 5).

Se il New Queer Cinema ha consentito una trasformazione nei modi di «rappresentazione dell’intimità femminile e facilitato il passaggio del lesbismo a un’arena culturale più popolare», esso ha comunque raccontato in massima parte traiettorie maschili. Per questo la critica è contraria a confinare il nuovo cinema lesbico esclusivamente all’interno del New Queer Cinema e ne sottolinea anche il rapporto con il cinema lesbico precedente, d’avanguardia e commerciale (Pick 2004: 104). Del resto, come il New Queer Cinema in generale, il cinema lesbico di metà anni ’90 è formalmente ibrido: mescola narrazione e strategie sperimentali assicurando così un certo grado di «intrattenimento». La definizione di New Queer Cinema è utile in questo senso perché indica una forma filmica che mette in discussione la rigida separazione tra cinema narrativo, sperimentale e documentario. È utile a questo proposito ricordare come la regista Rose Troche abbia lavorato a 26 episodi di The L Word (2004-2009), la popolare serie televisiva che segue la vita di un gruppo di lesbiche a Beverly Hills, Los Angeles, spesso come regista (a partire dal pilot) ma anche come scrittrice e direttrice esecutiva.

L’ironia è un tratto fondamentale di Go Fish. Che si tratti di una nuova stagione per il cinema lesbico è evidenziato proprio dai modi leggeri e scherzosi che caratterizzano il film. Per alcuni è una commedia romantica in cui l’immagine della lesbica è nuova e lontana dalle figurazioni precedenti. Il film si differenzia in particolare dal racconto di un «coming out», ovvero il processo di scoperta della propria sessualità «anomala». Le due sceneggiatrici hanno affermato che volevano evitare «l’ennesimo pamphlet su un coming out» o un film in cui le donne «fanno sesso in circostanze strazianti» (Hollinger 1998: 170). Qui, infatti, siamo in un universo in cui l’identità lesbica è vissuta come normalità e la scoperta-accettazione della propria sessualità è avvenuta da tempo.

Go Fish racconta gli amori e le amicizie di una piccola collettività di giovani lesbiche a Chicago ritraendole nella loro quotidianità tra confidenze, telefonate, cene di gruppo e serate nei locali. Girato in bianco e nero, il film alterna strategie naturalistiche, come quando la macchina a mano segue le protagoniste nell’appartamento o le riprende mentre conversano, e opzioni esplicitamente finzionali, come i numerosi jump cuts, la voice over, o ancora, le inquadrature evocativo-metaforiche di dettagli e le immagini di fantasia con le protagoniste in abito da sposa bianco. Questo doppio registro stilistico sembra funzionale alla messa in scena della soggettività. Il film non si fonda sull’idea che il soggetto abbia una vera natura o inclinazione e che la debba esprimere, ma mostra l’omosessualità nelle sue pratiche e performance materiali, dando in particolare ampio spazio all’erotismo e alla sessualità. In questo contesto l’abbigliamento, il taglio dei capelli e gli accessori che adornano il corpo diventano parte integrante dello stile di vita, dell’identità delle protagoniste. Basta pensare alla reazione di tutte le amiche quando una di loro, Ely, taglia i lunghi capelli – segno di una femminilità in stile hippy, o semplicemente retro e fuori moda come afferma una delle protagoniste –, adeguandosi finalmente allo stile mascolino da dyke di tutta la piccola collettività.

Come altri film lesbici, Go Fish è meno interessato a traiettorie personali che a mettere in scena le dinamiche di una comunità. Le scelte individuali, come i problemi e le gioie, sono discusse, condivise, o disapprovate dal gruppo. E certo la forza del collettivo è radicalizzata dalla diversità etnica e culturale di questo gruppo in cui è presente un’afroamericana, una latina (probabilmente portoricana, come la regista) e alcune europee-americane (Henderson 2008: 146-147). Il ruolo del collettivo viene evidenziato da alcuni modi della ripresa: per esempio, l’inquadratura dall’alto dei volti di quattro amiche che per discutere si stendono a formare una croce, oppure sequenze di facce in primo piano unite da jump cuts. Il ruolo del collettivo nel convalidare l’azione individuale si evidenzia in particolare in due episodi. Da un lato, il processo che una delle protagoniste subisce per avere avuto un rapporto sessuale con un uomo. Dall’altro, la messa in scena della relazione tra due delle protagoniste, Max e Ely. Questo evento è senza dubbio uno dei nuclei narrativi più importanti e la relazione nasce verso la fine del film, dopo numerosi ostacoli e tentennamenti. La notte d’amore tra le due diventerà immediatamente motivo di confidenza: in montaggio alternato vediamo Max e Ely raccontare alle rispettive amiche i dettagli dell’esperienza erotica.

In definitiva, gli scenari identitari del cinema indipendente americano mostrano un’attenzione del tutto particolare al rapporto tra dinamiche individuali e collettive, in piena sintonia con le rivendicazioni di gruppi «subalterni» che caratterizzano la postmodernità.

4. Women’s cinema/World Cinema: il caso delle registe del Mediterraneo

Il concetto di World Cinema, uno degli ultimi a essere emersi in campo cinematografico, è oramai piuttosto popolare almeno nell’ambito critico angloamericano. È un concetto ambiguo perché può riferirsi al cinema di tutto il mondo oppure al cinema prodotto al di fuori di Hollywood e del primo mondo o, ancora, a pratiche cinematografiche alternative che mettono in discussione l’egemonia culturale americana ed europea. Ma l’espressione «World Cinema» può anche riferirsi a un modo, a un metodo di considerare il cinema contemporaneo. Nel nuovo scenario geopolitico della globalizzazione, caratterizzato da flussi di denaro, idee, persone e oggetti (materiali e immateriali), pensare al cinema come World Cinema vuol dire vedere connessioni tra diversi ambiti produttivi, andare oltre il concetto di cinema nazionale in favore di dinamiche transnazionali. Per Lúcia Nagib il World Cinema è innanzitutto «circolazione», «è un modo di tagliare trasversalmente la storia del cinema in relazione a ondate di film e movimenti rilevanti, creando così delle geografie flessibili». È un concetto «positivo, inclusivo, democratico», che insiste sul carattere di interconnessione della produzione cinematografica in tutto il globo (Nagib 2006: 35).

Considerare il women’s cinema contemporaneo alla luce del World Cinema vuol dire quindi creare una geografia immaginaria della produzione globale delle donne alla ricerca di legami e connessioni tra contesti e registe diverse. Il women’s cinema infatti difficilmente può essere collocato all’interno del cinema nazionale in cui opera, ma si pone a cavallo tra interessi nazionali e transnazionali (White 2014).

Adattando il concetto di «minore» di Deleuze e Guattari al contesto culturale e politico di questo inizio di secolo, Alison Butler ha affermato che la pluralità delle forme e degli interessi che caratterizza il women’s cinema di oggi eccede qualsiasi definizione di controcinema, com’era il caso dell’avanguardia femminista degli anni ’70 e ’80. Si tratta di un cinema «minore» in quanto «il cinema delle donne non è mai ‘a casa’ in nessuno dei contesti cinematografici nazionali in cui opera, ma [...] è sempre una modalità accentata, che incorpora, rielabora e critica le convenzioni di tradizioni consolidate [...]. Pertanto il tratto distintivo del cinema delle donne non è basato su una comprensione essenzialista del soggetto di genere, ma sulla posizione – o posizioni – delle donne nella cultura contemporanea [...]: né incluse né escluse dalle tradizioni culturali, senza una identità collettiva coesa, ma neppure completamente differenziate le une dalle altre» (Butler 2002: 22). Per Butler esiste una relazione forte tra i concetti di «minore» e di transnazionale nella definizione del women’s cinema contemporaneo.

Nell’impossibilità di delineare una geografia complessiva del rapporto tra World Cinema e women’s cinema abbiamo scelto un esempio limitato, ovvero film girati da registe del Nord Africa e del Medio Oriente negli ultimi dieci anni. Questi film presentano dinamiche condivise da una produzione più ampia, e dunque costituiscono un nucleo di partenza estendibile a una geografia veramente globale2.

Nei paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente il women’s cinema è oramai una realtà importante. Indipendentemente dal contesto nazionale, questi film raccontano storie personali di donne intrecciate con problematiche e dinamiche storiche, politiche o culturali del paese in cui sono ambientati. Spesso non ci si concentra sulla traiettoria di un personaggio: piuttosto il fulcro del racconto è costituto da una coppia o da un piccolo gruppo di donne legate da un rapporto d’amicizia. In questo cinema l’amicizia femminile è un tema così sfruttato da costituire un segno tangibile di una certa «differenza di genere». Il rapporto amicale si sviluppa nonostante le differenze tra donne, e anzi il racconto procede attraverso l’intreccio di differenze molteplici, di razza o etnia, di classe, di generazione, di religione, ecc. È significativo che registe cresciute in contesti assai diversi – anche se quasi tutte, con l’ovvia eccezione delle cineaste iraniane, formatesi nelle scuole di cinema di Parigi – abbiano scelto, indipendentemente l’una dall’altra, questa chiave per raccontare il problematico rapporto tra Occidente e Oriente, tradizione e modernità, sottomissione e emancipazione. In questi film le differenze non sono mai un ostacolo all’amicizia e alla complicità femminile e, anzi, proprio il rapporto tra identità e differenza sembra costituire la chiave della convivenza pacifica.

Le dinamiche dell’amicizia femminile rappresentate in questi film possono essere interpretate alla luce della riflessione di Jacques Derrida in Le politiche dell’amicizia (1995). Muovendosi tra istanze filosofiche, politiche ed etiche, Derrida decostruisce la nozione di fraternità mostrandone il fondamento antidemocratico. Basare un progetto politico sulla fratellanza vuol dire stabilire i diritti del soggetto sulla base di un’appartenenza comune. Solo i membri di una comunità, con una stessa origine, possono dunque avere diritti politici. Derrida ricorda come l’origine comune dipenda dallo statuto della famiglia e all’interno di essa dal ruolo egemonico del padre. In ultima analisi, per il filosofo francese la nozione di appartenenza si fonda sull’accettazione dello stesso e il rifiuto dell’altro e deve pertanto essere decostruita. Derrida si chiede inoltre se è possibile pensare alla democrazia al di là della nozione di fratellanza e di tutti i termini che la accompagnano: famiglia, affinità, prossimità, ecc. Per il filosofo alla base della democrazia c’è l’alterità pura, non può esistere un rapporto gerarchico tra io e altro. Quando saremo in grado di coniugare libertà e uguaglianza con l’idea di amicizia, non di fratellanza, allora, secondo Derrida, saremo in grado di affrontare i problemi del nostro tempo (Derrida 1995).

La proposta di Derrida è assai utile all’analisi del women’s cinema contemporaneo. La «svolta etica» del filosofo francese a inizio anni ’90 è dovuta alla crescita globale sia di disuguaglianze economiche che di conflitti religiosi, razziali e culturali. Significativamente, questi film mettono in scena la dicotomia derridiana fratellanza-amicizia in termini di gender, maschile vs. femminile: mentre le donne costrui­scono rapporti d’amicizia nonostante le loro differenze, l’arena politica e pubblica che le circonda è dominata da strategie di dominio ed esclusione (gestite da uomini). Questa nuova relazione tra donne appare definibile nei termini di una «transnational sisterhood», dato che la specificità culturale (o razziale, religiosa, ecc.) non influenza in modo significativo i rapporti tra donne.

In relazione al cinema americano contemporaneo, Karen Hollinger ha proposto una tipologia di film sull’amicizia femminile composta di cinque categorie: sentimentale, manipolatoria, politica, erotica e sociale. In particolare, l’amicizia sentimentale e quella politica sono state rappresentate come antitetiche. La prima alimenta una «crescita personale», ma «raramente promuove un cambiamento sociale significativo». La seconda «riguarda un’alleanza che porta ad agire contro il sistema sociale, le sue istituzioni, o convenzioni», ma è priva di intimità emotiva (Hollinger 1998: 7-8).

I film qui analizzati sembrano far parte di un diverso regime narrativo perché mostrano una convergenza tra questioni personali, sociali e politiche. Anche l’amicizia più intima, come quella tra Myriam e Nour in Le chant des mariées (Il canto della sposa, 2008), è connotata politicamente. Il film, girato dalla regista francotunisina Karin Albou, è un dramma storico ambientato a Tunisi nel 1942 che narra l’amicizia tra Myriam e Nour, l’una ebrea, l’altra musulmana. Il contesto storico è la chiave del racconto: entriamo in una Tunisi multietnica proprio nel momento in cui l’esercito tedesco impone nel paese le leggi razziali. Sino a quel momento musulmani ed ebrei avevano convissuto pacificamente. In effetti, l’amicizia delle due ragazze nasce in un contesto familiare e sociale più ampio. Le due famiglie vivono a stretto contatto, poiché i loro spazi abitativi si incrociano nel cortile comune, un luogo chiave di transizione tra ambienti diversi e in cui i personaggi si incontrano più volte ogni giorno. Gli spazi architettonici giocano un ruolo fondamentale dal punto di vista drammaturgico e la regia li sfrutta in modo efficace, attraverso l’opposizione tra spazi interni alla casa, il cortile e la soffitta, oppure tra l’interno della casa e lo spazio esterno, in particolare le strade sorvegliate dai soldati tedeschi, o ancora lo spazio dell’hammam femminile e il mercato. La storia narra di come l’amicizia delle due giovani non si incrini neanche nel momento in cui la propaganda nazista contro gli ebrei cerca di aizzare l’odio razziale dei musulmani verso di loro. Tra i protagonisti del film solo il giovane Khaled, il promesso sposo di Nour, collabora esplicitamente con i nazisti, cercando di consegnare Myriam e la madre ai tedeschi. Il film ha un finale aperto, ma riafferma la forza dell’amicizia femminile. La prima notte di nozze di Nour le due giovani si ritrovano sotto i bombardamenti e rimangono insieme abbracciate. Qualche istante prima, durante il rapporto sessuale, Khaled aveva insistito perché Nour non vedesse più Miryam. Ma la ragazza aveva ribadito che Myriam era la sua migliore amica e che non poteva ubbidirgli.

L’amicizia tra le due ragazze non è rappresentata solo in relazione a un determinato episodio storico, ma è vista anche in relazione alle strutture simboliche delle rispettive culture di appartenenza. Per motivi diversi le due giovani vivono un’esperienza di subordinazione, dovuta al loro essere donne. La condizione di Nour non è sorprendente: a differenza di Myriam, che frequenta il liceo, la giovane musulmana non va a scuola e in famiglia si cerca di impedirne l’istruzione – la vediamo leggere di nascosto il Corano che sta nella camera del padre3. E Nour può uscire solo accompagnata e mettendo il velo. Al contrario, l’amica va regolarmente a scuola ed è libera di uscire quando vuole in autonomia. Ma la situazione non è così netta: Myriam, infatti, viene promessa in sposa dalla madre a un ricco medico molto più anziano che lei detesta e non vuole sposare. Ma questa pare l’unica soluzione per uscire dalla povertà in cui le due sono piombate dopo che la madre ha perso il lavoro. Nour invece ha scelto il proprio fidanzato autonomamente. Così la libertà di cui gode Myriam all’inizio viene in parte oscurata dal matrimonio forzato, mentre il matrimonio d’amore dà a Nour un po’ di gioia e attenua la sua frustrazione. L’amicizia aiuta le due giovani a capire le reciproche posizioni all’interno della propria cultura, e l’affetto che le lega è il viatico per una coscienza della donna sulla propria condizione socio-culturale.

Caramel (2007), della regista libanese Nadine Labaki, è per molti versi un «film sull’amicizia femminile sociale». Questa categoria «riguarda un legame di crescita che non pone le donne contro la società, ma garantisce il loro passaggio dentro di essa. Grazie alla saggezza femminile o a un orecchio empatico, in questi film le donne si aiutano e si sostengono l’una con l’altra, facilitando il romance con un uomo di una di loro o alleviando il dolore quando un amore finisce» (Hollinger 1998: 8).

Caramel narra la vita quotidiana di cinque donne, legate da amicizia e complicità profonde, in un quartiere popolare della Beirut odierna. Il film rappresenta un microcontesto di integrazione multietnica, in cui l’amicizia femminile si forma a dispetto di differenze culturali, religiose, etniche e generazionali. L’amicizia che lega le cinque donne si sviluppa nello spazio privato/pubblico del salone estetico in cui lavorano tre delle cinque protagoniste, tutte alle prese con un problema di natura «sessuale»: la cristiana Layale è l’amante di un uomo sposato, la musulmana Nisrine è prossima alla nozze ma non è più vergine, infine Rima è attratta dalle donne. Alle tre si aggiunge Jamale, cliente abituale, separata con due figli, che cerca ostinatamente di combattere il passare degli anni. Infine, Rose è una sarta non più giovane che ha sacrificato la sua vita sentimentale per accudire la sorella mentalmente instabile. Nello spazio del salone di bellezza, lavoro e amicizia si fondono in modo perfetto, oltre a costituire il luogo della libertà dalle costrizioni familiari e soprattutto dai soprusi dell’autorità. Da un lato la piccola comunità femminile è il luogo dove i problemi sentimentali vengono risolti, dall’altro l’amicizia e l’aiuto reciproco consentono alle protagoniste di prendersi gioco di regole e abitudini socio-culturali cui gli uomini sembrano credere ancora. Per bypassare l’autorità, infatti, non bisogna cercare uno scontro frontale, come fa per esempio il fidanzato di Nisrine: con questo approccio non si può che uscire sconfitti. Come mostrano le protagoniste, con astuzia e intelligenza è possibile aggirare sia gli uomini che la legge. Così si può risolvere il problema sessuale di Nisrine. Ormai prossima alle nozze, la ragazza confessa alle amiche di non essere più vergine e di avere dunque un problema serio, poiché l’uomo con cui ha avuto rapporti sessuali non è il promesso sposo, che la crede ancora illibata. Il problema è grave poiché le due famiglie non potrebbero mai accettare la verità. Ma la soluzione è a portata di mano: le amiche portano Nisrine in una clinica dove un semplice intervento chirurgico le ricostruisce l’imene. Così il matrimonio si svolge regolarmente e il segreto rimane prerogativa di Layale, Rima e Jamale. Ed è sempre grazie alle amiche che Layale, il personaggio principale, interpretato dalla regista stessa, risolve la sua situazione sentimentale. La giovane vive nell’attesa di una telefonata dell’amante per passare qualche momento con lui. Dopo l’ennesima delusione, per sbloccare la situazione le amiche, a sua insaputa, invitano la moglie dell’uomo al salone per una ceretta – il caramello del titolo. Layale sfoga la sua rabbia sulla donna – il trattamento è insolitamente doloroso! – ma quell’incontro la porterà inevitabilmente alla consapevolezza che l’uomo non lascerà mai la famiglia. Alla fine troverà il coraggio di non vederlo più.

Alla forza dei personaggi femminili si contrappone la debolezza di quelli maschili. Significativamente, l’amante non ci viene mai mostrato: egli è quasi sempre fuoricampo, uno squillo o una voce telefonica, al massimo una sagoma ripresa da dietro. L’ultima sua apparizione viene evocata dal suono di un clacson in strada, suono che Layale decide di ignorare. Al fidanzato di Nisrine il film riserva un trattamento meno negativo, ma evita di costruirlo dal punto di vista drammaturgico, e non gli dà alcun spessore. L’unico episodio di qualche rilevanza è quello in cui si rifiuta di dare i documenti al poliziotto che sorprende la coppia in macchina. Come apprendiamo in una scena successiva, solo le coppie sposate hanno una certa libertà di movimento. Il giovane non accetta il sopruso e si rifiuta di dare i documenti. L’esito è il fermo per entrambi: i due passeranno la notte al commissariato e saranno rilasciati solo grazie all’intercessione del poliziotto di quartiere che li conosce. Per Nisrine il comportamento del fidanzato è stato stupido e ha portato solo guai. L’autorità, la legge, vanno affrontate freddamente: come certe tradizioni culturali, sono oramai vuote ed è sufficiente fare finta di rispettarle per essere lasciati in pace. Mentre le donne del film l’hanno capito da tempo – forse perché hanno costruito nei secoli gli anticorpi per sopportare soprusi –, gli uomini si dividono tra coloro che la legge la impongono e coloro che la subiscono.

L’unico personaggio maschile a vivere una trasformazione positiva è il poliziotto di quartiere, innamorato di Layale e che ogni giorno le dà una contravvenzione per guardarla più da vicino. Quando la donna rinuncia all’amante si convince che forse il poliziotto merita una chance. Non prima però di sottoporlo a un trattamento di «de-virilizzazione». L’uomo si presenta al salone per il taglio che gli è stato promesso in segno di ringraziamento da Nisrine: Layale ha finalmente l’uomo in suo pugno e, come con la moglie dell’amante, si sfoga un po’ sadicamente con il caramello. Il trattamento è lento: alla fine il taglio totale dei baffi, oltre che lo sfoltimento generale di basette, ciglia e quant’altro, rappresentano il rovesciamento del rapporto tra i due. Il poliziotto, oramai addolcito, può diventare un possibile compagno per Layale. Ma questo non cambia di segno il film, che anzi si conclude con un ulteriore esempio di «emancipazione femminile»: la bellissima cliente, dai lunghi capelli neri, di cui si è invaghita Rima decide alla fine di farsi tagliare le chiome. Il suo nuovo caschetto, a imitare il taglio di Rima, rappresenta un chiaro esempio di mascolinizzazione, e probabilmente anticipa l’inizio di una relazione omosessuale tra le due. Così Caramel non rientra sino in fondo nel genere che narra «l’amicizia femminile sociale». Per Hollinger questo modello, «essendo la variante conservatrice del film sull’amicizia politica», «non attacca in nessun modo la società patriarcale» (Hollinger 1998: 8). Diversamente, il film di Labaki smaschera in modo palese sia modelli di comportamento patriarcali occidentali che forme specifiche del patriarcato «orientale».

Questa analisi può essere estesa ad altri film, come l’israeliano Close to Home (Close to Home – Giustizia ad ogni costo, 2005), il francoalgerino Barakat! (2005) e l’iraniano Women Without Men (Donne senza uomini, 2010). Ma le traiettorie dell’amicizia femminile sono centrali nel women’s cinema contemporaneo di ogni contesto geografico. Una mappatura più ampia potrà valutare attraverso un metodo comparativo le forme molteplici di questo scenario, prerogativa di molto cinema delle donne e quasi mai di quello «normale», degli uomini.

1 Michel Marie fa riferimento a dati diversi. Parla di più di 160 nuovi registi da gennaio 1959 a fine 1962 (Marie 1998: 25).

2 L’ampiezza del Global Women’s Cinema renderebbe in ogni modo impossibile una sua trattazione in singolo volume. Nel convegno Contemporary Women’s Cinema, Global Scenarios and Transnational Contexts svoltosi all’Università Roma Tre il 28-29 maggio 2013, e organizzato da chi scrive, studiose/i provenienti da diversi angoli del pianeta hanno evidenziato la ricchezza e la complessità, da un punto di vista estetico, politico-ideologico, ecc., di questa vastissima produzione (https://www.facebook.com/events/132756213581653/). Il convegno avrà alcuni follow ups, a partire dal 2014 alla Stony Brook University. Sull’argomento si veda anche White 2014.

3 Karin Albou aveva affrontato la questione dell’istruzione femminile nel film precedente, La petite Jérusalem (2005).