IV. Le registe-pioniere del cinema muto
1. La teoria dell’autore/autrice, in breve
La questione dell’autrice nel cinema primitivo è spinosa dal punto di vista teorico. Vi è in primo luogo una problematica di fondo indipendente dal gender, legata alla natura stessa dell’autore e dell’autorialità. Chi sia l’autore di un film primitivo non è una tautologia: nel cinema delle origini autore e regista non sono sinonimi. Il modello del regista-autore si è infatti imposto gradualmente nell’ambito cinematografico. La tesi più accreditata è che l’emergenza dell’autore sia legata al passaggio da un sistema di produzione in cui l’operatore è separato dal regista a uno in cui quest’ultimo ha il ruolo di coordinare la messa in scena di un sistema narrativo. Tom Gunning, per esempio, attribuisce questa funzione a D.W. Griffith nel periodo in cui il regista lavora alla Biograph (Gunning 1991). Griffith si batté affinché la compagnia gli consentisse di firmare i suoi film, ovvero di uscire dall’anonimato sino ad allora imposto dalla produzione. Ma Gunning, tuttavia, non considera Griffith un autore nel senso romantico del termine. L’autore-Griffith non è una personalità che «si esprime» attraverso le sue opere. Piuttosto, va visto in relazione all’idea foucaultiana di «autore-funzione», cioè come una forza che permette la produzione di testi (Gunning 1991: 50). In altre parole, il fatto saliente è che «il nome di Griffith sia stato associato a pratiche culturali e a tecniche artistiche legate a tradizioni o discorsi autoriali» e che dunque l’autore cinematografico dei primi anni sia emerso nella sua dimensione discorsiva e ideologica (Maule 2005: 44). È proprio questo approccio che può spiegare lo statuto dell’autorialità femminile nel cinema dei primi anni.
Un’altra dinamica che mette in luce l’ambiguità del concetto di autore e la sua difficoltà di attribuzione è legata al rapporto tra sceneggiatore e regista. Anche il lavoro dello sceneggiatore e la struttura della sceneggiatura si sono sviluppati gradualmente. Nel cinema americano dei primi 15 anni circa chi scriveva per il cinema – scenarist – doveva fornire una storia originale o adattarla da romanzi o novelle sotto forma di breve riassunto. E molte storie arrivavano agli studios per posta, da donne e uomini qualunque. Lo «scenario» era composto anche di una sola pagina, senza nessuna indicazione tecnica, e giungeva nelle mani del regista che inventava sul set le soluzioni, al tempo assai semplificate, di regia (Casella 2006: 217-221). Sino alla prima guerra mondiale a chi scriveva, e molte erano donne, non veniva dato alcun riconoscimento autoriale. Ma se consideriamo che le tecniche e le opzioni di regia erano spesso minimali, soprattutto per quanto riguarda il lavoro della macchina da presa, è discutibile considerare il regista come l’autore del film, soprattutto quando la storia era originale.
Lo statuto dello sceneggiatore cambia quando nello scenario cominciano a essere indicate le tecniche di ripresa e di messa in scena. Secondo ricerche storiche recenti, la sceneggiatura come la conosciamo può essere ascritta al lavoro di una donna, Gene Gauntier, che già nel 1907 aveva fatto un piano delle riprese che precorreva i tempi. Ma la prima sceneggiatura moderna americana risale al 1912, quando Gauntier ne presenta una provvista di tutte le indicazioni tecniche utili all’operatore e agli attori (Casella 2006: 219-220).
Come per altre pioniere, il ruolo di Gauntier nella storia del cinema è oggi ri-conosciuto da pochi/e specialisti/e ma non è ancora entrato nelle storie generali del cinema. Questo episodio, come molti altri dello stesso tono, riflette la reticenza a riconoscere il contributo storico dei soggetti femminili. Come è accaduto in tutti gli ambiti della produzione artistica e della conoscenza, le donne si sono accollate questo compito e da circa tre decenni portano avanti ricerche che considerano tutti gli aspetti produttivi, creativi e tecnici del lavoro femminile nella storia del cinema. Paradossalmente, però, e anche per questo ho citato l’esempio di Gauntier, il caso delle sceneggiatrici americane del periodo muto è forse l’unico episodio, o comunque uno dei pochi, in cui il contributo delle donne è da tempo riconosciuto. Effettivamente il ruolo delle donne nella scrittura cinematografica da metà anni ’10 a fine anni ’20 è talmente fondamentale che è stato impossibile oscurarlo. In quel periodo, decine e decine di sceneggiatrici, con capacità e ruoli diversi, contribuiscono al consolidamento dell’industria cinematografica (Francke 1994; Casella 2006). Delle 25.000 sceneggiature registrate al Copyright e depositate alla Library of Congress tra il 1911 e il 1925 metà sono scritte da donne (Francke 1994: 6). Il lavoro delle figure più importanti è stato recentemente analizzato in profondità: si pensi all’imponente studio su Frances Marion condotto da Cari Beauchamp (Beauchamp 1997), che ha sviscerato l’incredibile carriera dell’artista. Ma pensiamo anche a figure come Anita Loos, prolifica sceneggiatrice e autrice, tra l’altro, del romanzo Gentlemen Prefer Blondes (1926), da cui Hawks trarrà il famoso film con Marilyn Monroe, già adattato comunque nel 1928 in un film ora perduto. Ricordiamo inoltre Elinor Glyn, nota in primo luogo per la novella It (1927) da cui, quello stesso anno, sarà tratto l’omonimo film con Clara Bow (Morey 2006), June Mathis, morta prematuramente, ma divenuta a soli 27 anni capo del dipartimento sceneggiatura di Metro (Casella 2006: 232) e Jeanie MacPherson, sceneggiatrice di Cecil B. De Mille per trent’anni (1915-1945) e autrice di molti dei suoi migliori film (Francke 1994: 12-18).
Il lavoro delle storiche non ha comportato però solo la ricerca di ciò che era stato perduto, ma ha consentito anche di scoprire metodi e tecniche di lavoro oramai scomparse. L’idea che lo sceneggiatore sia una figura debole e sfruttata appartiene al periodo dello studio system, quando tra l’altro la professione si era, come tutte le altre, sostanzialmente «rimascolinizzata». Ma lo statuto delle sceneggiatrici migliori degli anni ’20 è completamente diverso. Anzi, sembra che il loro lavoro non si limitasse alla scrittura ma comprendesse spesso un ruolo importante in altri settori della produzione, come per esempio il controllo del casting (Morey 2006). In non pochi casi la sceneggiatrice arrivava dunque a essere più importante, più «autrice» del regista stesso, che limitava la sua presenza al momento delle riprese.
Non è questo il luogo per la disamina di una questione, quella dell’autore e dell’autrice, che come è evidente da queste brevi riflessioni, è molto più complessa di quanto possa a prima vista apparire. Per molto tempo il compito primario degli studiosi, tuttora in progress ovviamente, è stato di ri-scoprire l’autrice, ovvero, attribuire a dei soggetti femminili la paternità (!) di opere precedentemente assegnate ad altri soggetti oppure, com’è più frequente, di fare emergere dagli archivi l’opera di autrici dimenticate. I motivi della dimenticanza e dell’oblio hanno spesso caratterizzato il lavoro delle donne, che è stato sottoposto a processi di rimozione e oscuramento continui. Fare uscire dalla polvere delle cineteche e delle biblioteche le notizie sul lavoro delle donne è un lavoro arduo e gravoso che in tre decenni ha portato a risultati veramente strabilianti. Naturalmente, nel caso del cinema primitivo e muto, si è dovuto fare i conti con la scomparsa definitiva delle pellicole, che ha riguardato tutto e tutti. Fortunatamente disponiamo di molti paratesti, scritti e visivi, presenti in riviste e volumi dell’epoca, e materiali delle case di produzione che hanno consentito di riscrivere la storia del cinema. Prima che queste ricerche fossero intraprese, i libri non nominavano nessuna regista donna al di fuori dell’avanguardia. Nonostante le pioniere di cui ci occupiamo qui abbiano non solo girato molti film, ma abbiano anche avuto all’epoca un grande successo. Secondo gli Indici del Women’s Film History Project, in Europa ci furono decine e decine di registe e in Italia, per fare un esempio, negli anni ’10 si contano più di dieci donne dietro alla macchina da presa. E tuttavia, oltre alla recentissima scoperta di Umanità (1919), un bel film pacifista e satirico girato da Elvira Giallanella, di cui per molto tempo si è ignorata l’esistenza, gli unici film disponibili sono tre lungometraggi di un’Elvira più famosa, la regista napoletana Elvira Notari, A mosca cieca (1921) di Giulia Cassini Rizzotto e Leonardo (1919), codiretto da quest’ultima con Mario Corsi. A tutt’oggi sono molto poche le registe di cui è rimasta una produzione numericamente consistente da consentire un’analisi approfondita. Ho scelto le tre figure più significative: la francese Alice Guy, l’americana Lois Weber e l’italiana Elvira Notari.
2. Alice Guy, prima pioniera del cinema
Alice Guy è stata la prima cineasta donna. Se il suo statuto è oramai certo, per svariati decenni la sua figura è rimasta nell’oblio e il suo nome fuori dalle storie del cinema, nonostante la regista abbia diretto – e quasi sempre prodotto e sceneggiato – dal 1896 al 1920 circa mille film. Questo lavoro di riscrittura storica è stato compiuto in primo luogo dalla regista stessa attraverso le sue memorie, La fée aux choux. Autobiographie d’une pionnière du cinéma, pubblicato postumo nel 1976 (Guy è morta nel 1968 negli Stati Uniti). Alice Guy, come la pioniera canadese Nell Shipman, «ha dovuto scrivere la sua storia perché nessun altro sembrava intenzionato a farlo»: si tratta di un esempio di controstoria, perfettamente in linea con i metodi e gli scopi della storia delle donne, con la differenza che, in questo caso, la storica, colei che riscrive la storia, è anche l’oggetto della ricerca, il soggetto dimenticato (Hastie 2007: 72-75).
Ma Alice Guy non è solo la prima regista donna, è una figura fondamentale del cinema primitivo francese, e dunque del cinema tout court, con uno statuto paragonabile a quello dei Lumière e di Méliès, di cui è contemporanea. La sua carriera infatti inizia con la nascita stessa del cinema e incrocia da subito quella dei più famosi pionieri appena citati. Come apprendiamo dalle sue memorie, nel 1895 (o forse nel 1894, come sostiene la curatrice francese delle memorie) Guy inizia a lavorare per una casa fotografica parigina, il Comptoir général de Photographie, dove lavora anche Léon Gaumont. Guy ha inizialmente funzioni di segretaria, ma impara presto le mansioni tecniche, oltre a conoscere tutti i clienti che si rivolgono al Comptoir. Tra questi spiccano, oltre a svariati scienziati, e a scrittori come Zola, i fratelli Lumière, perché «la fotografia allora regnava sovrana» (Guy 2008: 69-75). Guy partecipa alla nascita del cinema ed è tra gli invitati alla dimostrazione del cinématographe dei Lumière organizzata il 22 marzo 1895 alla Société d’Encouragement pour l’Industrie Nationale à Paris (Guy 2008: 78; McMahan 2002: 11). La giovane Alice è molto colpita dalla dimostrazione: mentre Gaumont era interessato alla macchina, «la novità rappresentata dalle riprese come strumento d’educazione o di svago non aveva colpito la sua attenzione». Guy pensa invece al nuovo dispositivo in questi termini e chiede a Gaumont, che nel frattempo era diventato il nuovo proprietario della ditta per cui lavora, se poteva «scrivere un paio di scenette e farle interpretare a degli amici». Da quel momento le giornate della giovane Alice diventeranno piuttosto pesanti, divise tra il lavoro di segretaria e quello di cineasta.
Naturalmente, è assai difficile capire quanto le memorie registrino effettivamente il pensiero del tempo e quanto invece esse non siano fortemente definite da ciò che l’autrice pensa retrospettivamente, nel momento in cui le scrive. Le dinamiche psicologiche hanno un ruolo formativo, se pensiamo che, secondo la testimonianza della figlia Simone, Alice Guy cominciò a scrivere le sue memorie durante la seconda guerra mondiale, mentre viveva in Svizzera, allo scopo di far conoscere il suo ruolo oramai dimenticato nella storia del cinema (Guy 2008: 162). La lunga ricerca di Alison McMahan (McMahan 2002) ha tuttavia risolto molto dubbi e ha dimostrato la sostanziale attendibilità delle memorie.
L’idea di Guy sul cinema è estremamente significativa. Guy dichiara infatti che si poteva fare meglio che riprendere «sfilate di truppe o marciapiedi di stazione […] che servivano come dimostrazione e venivano proiettati di continuo» (Guy 2008: 79). Avendo letto molto e fatto un po’ di teatro amatoriale, pensa di poter scrivere dei racconti, delle finzioni, sfruttando così meglio le potenzialità del cinema. Si può qui leggere una critica esplicita all’uso del dispositivo per registrare/documentare e proiettare il movimento, del cinematografico come tecnica, e un sostegno dichiarato alle potenzialità narrative, affabulatorie del cinema, in continuità con il romanzo e il dramma teatrale. Come non leggere nell’espressione «marciapiedi di stazione» un riferimento esplicito a L’arrivée d’un train à La Ciotat dei fratelli Lumière?
Il commento di Guy sullo statuto narrativo del cinema ci serve a introdurre un episodio storico di grande interesse che la riguarda e che rischia/ha rischiato di mettere in discussione uno degli assiomi della storia del cinema. Il fatto ha dell’incredibile: Alice Guy, che ha dovuto aspettare decenni per essere riconosciuta e nominata, e ciò grazie in primo luogo alla sua tenacia e al suo desiderio di giustizia, rischia/ha rischiato di essere l’autrice del primo film di finzione mai fatto. La fée aux choux, secondo l’autrice il primo film da lei fatto, è ancora di datazione incerta, ma molto probabilmente venne girato nell’aprile-giugno 1896 (McMahan 2002: 13-15; Gaines 2004b). Questa prima versione – il film venne rigirato dalla stessa regista nel 1901 – consiste di una inquadratura in cui una donna vestita da fata scopre dei bambini nascosti dietro dei cavoli di legno. Dal centro dell’inquadratura la fata gesticola in modo aggraziato e si dirige in punta di piedi verso la prima fila di cavoli, dove trova prima un bambino poi un secondo. Mette i bambini in un piano lontano di fronte alle file di cavoli. Poi vede un terzo bambino, nella parte sinistra dell’inquadratura. Ma questo, che si vede essere una bambola, viene messo più lontano, dietro i cavoli, a indicare che non è ancora maturo per essere colto.
Si è soliti attribuire il ruolo di pionieri della forma filmica ai fratelli Lumière e a Méliès, con i primi inventori del documentario, il secondo del film di finzione. È noto che dopo alcune proiezioni riservate – altre seguirono quella del 22 marzo 1895 cui abbiamo accennato – la prima proiezione pubblica dei Lumière – convenzionalmente la data di inizio del cinema – fu il 28 dicembre di quell’anno al Gran Café del Boulevard des Capucines. Méliès era presente a quella proiezione e girerà i suoi primi film verso la metà del 1896. Secondo le recenti ipotesi di datazione Alice Guy fece dunque il suo primo film, La fée aux choux, prima di Méliès. Ma questo non basta ad attribuirle la primogenitura del film di finzione perché, a ben vedere, L’arroseur arrosé, uno dei film proiettati il 28 dicembre dai Lumière, è un film di finzione. Jane Gaines non si è scoraggiata e ha proposto una lettura del film di Guy che forse gli assicura un primato. Gaines distingue tra il concetto di finzione e quello di racconto, lamentando il fatto che gli studiosi li hanno spesso considerati intercambiabili. Se confrontiamo L’arroseur arrosé e La fée aux choux in relazione al grado di finzionalità, sulla base dell’artificio della messa in scena, è indubbio che il film di Guy, con il suo fondale dipinto, gli oggetti costruiti (i cavoli di legno), i costumi e l’azione ricostruita è ben più finzionale del film dei Lumière, girato nello spazio naturale di un giardino e limitando al massimo la messa in scena del profilmico. Si potrebbe aggiungere che il film dei Lumière non attiva alcun atto interpretativo, mentre il discorso di gender di Alice Guy costituisce un’anticipazione forte della produzione successiva dell’autrice.
In relazione alla poetica autoriale La fée aux choux ha infatti una rilevanza ulteriore, poiché fonde tematiche legate alla femminilità, e per estensione al rapporto di gender, con il registro della commedia. Questa convergenza rimarrà uno dei cardini della futura produzione di Guy. Indubbiamente molti film della regista condividono tematiche e forme di molto cinema dell’epoca: ma li contraddistingue uno sguardo e un punto di vista femminile che rovescia o mette in discussione modelli di comportamento, cliché e stili di vita. Dopo aver sviluppato la sua vena comica alla Gaumont (1902-1907), Guy continuerà a fare questo tipo di film anche negli Stati Uniti, alla Solax. Come molti autori dell’epoca la regista si cimentò in generi assai diversi, compresi il melodramma, il western, il film religioso. Mentre il punto di vista femminista di Guy è espresso in modo più chiaro nelle commedie, la presenza di personaggi femminili forti e in ruoli maschili è frequente in film di altri generi, per esempio una serie di western fatti agli inizi degli anni ’10. Particolarmente efficaci, in relazione alla costruzione del personaggio femminile, sembrano essere i lungometraggi prodotti e diretti da Guy tra il 1914 e il 1916 con Olga Petrova, attrice teatrale di origine gallese, che Guy trasformò in una star cinematografica. Tutti i film sono perduti, ma i materiali ci parlano di storie d’azione, spionaggio e intrighi internazionali in cui «le eroine femminili sono gli agenti dell’azione» e, «come le protagoniste delle commedie sul travestimento», esse assumono nel corso del film identità diverse (McMahan 2002: 184-185). Del resto, nel 1917 Petrova, prima tra le star di Hollywood, dichiarò esplicitamente di essere femminista (Gaines 2004b: 117).
Il terreno più fertile per definire il punto di vista e la messa in scena delle dinamiche di gender del cinema di Alice Guy sono dunque le commedie. La questione del rapporto uomo-donna e delle dinamiche di potere che lo regolano è centrale per la regista. Evidentemente, trovarsi a inizio Novecento a occupare un posto di primaria importanza prima alla Gaumont poi alla Solax – per un certo periodo Guy riunisce in sé tutte le più importanti cariche della compagnia americana – implica dover essere costantemente al centro di dinamiche di potere, situazione piuttosto nuova per una donna. Anche l’esperienza personale di Alice Guy alimenta questa consapevolezza. Guy sposa Herbert Blaché, di nove anni più giovane di lei, quando è già una regista affermata. I due si sposano nel 1907 e quello stesso anno partono per gli Stati Uniti. All’inizio Alice va semplicemente a seguito del marito, ma dopo una iniziale pausa lavorativa, fonda una nuova casa di produzione. I due lavoreranno per molti anni insieme, dividendo e condividendo compiti e mansioni. Alice Guy credeva profondamente nella parità dei sessi, come dimostrano molti suoi film e anche la sua vita personale. La fine del suo matrimonio – il marito deciderà di lasciare la famiglia nella East Coast per scappare in California con una attrice «qualsiasi» – sarà fonte di sofferenza e la indebolirà enormemente. La sua carriera cinematografica finirà di lì a poco e con essa la sua esperienza americana. Guy tornerà in Francia con i due figli nel 1922.
Molte delle commedie più riuscite, tra quelle sopravvissute, affrontano direttamente la tematica del ruolo maschile e femminile all’interno della coppia, e dei comportamenti di genere, codificati o meno: le dinamiche narrative lavorano alla decostruzione sistematica di usi, codici e regole. In Madame a des envies (1906), un piccolo capolavoro particolarmente caro alle donne, la protagonista è una donna in avanzato stato di gravidanza ripresa mentre cammina in vari luoghi, seguita a distanza dal marito che spinge una carrozzina. La donna viene presa da voglie incontrollate alla vista di sconosciuti che succhiano oggetti, e per soddisfare il suo desiderio si impossessa di tali oggetti. Il suo gesto provoca la reazione infastidita degli sconosciuti e il marito deve con grande difficoltà cercare di calmare la loro reazione giustificando la moglie. L’elemento più interessante e trasgressivo del film è proprio la messa in scena del desiderio della donna attuata attraverso alcune efficaci scelte di tecnica narrativa. Il film è composto da tre diversi episodi girati con le stesse modalità. All’inizio vediamo la donna aggirarsi in un parco vicino a una panchina dove sono seduti un uomo anziano e una bambina che succhia il lecca-lecca. La donna si avvicina alla bambina, le prende il dolcetto e inizia a succhiarlo. Il gesto sensuale della donna viene ripreso con una mezza figura larga, il cui effetto è del tutto paragonabile a quello di un primo piano classico. La donna, dal petto prosperoso, succhia ripetutamente il lecca-lecca, dall’evidente forma fallica, mostrando un piacere del tutto erotico. È interessante a questo proposito la scelta di Alice Guy di avere sullo sfondo solo un muro bianco, così da far risaltare la figura e il gesto della donna. Nelle inquadrature precedenti la rappresentazione dello spazio è naturalistica: vediamo alberi, strade, panchine, tavoli, ecc. Quando la ripresa si sposta sul piano ravvicinato della protagonista che succhia, lo sfondo diventa neutro, astratto, con l’evidente effetto di attrarre lo spettatore verso il gesto erotico, il desiderio femminile. L’inquadratura non ha nessun altro elemento di interesse che possa distogliere lo sguardo della spettatrice dall’immagine della donna che succhia. Questa modalità sarà ripetuta in altre due scenette, quando la donna si approprierà prima di un sigaro poi di una pipa. Se il lecca-lecca era un oggetto neutrale, sigaro e pipa sono i più classici indici della mascolinità. Così il piacere della donna sembra essere connotato in forma maschile, ovvero Guy sembra stabilire una relazione tra la soddisfazione sessuale della donna e la mascolinità. Questo discorso appare quanto mai produttivo se analizziamo lo statuto della figura maschile. Per tutto il film il marito della donna appare subordinato alla moglie: egli sembra più un servitore che un compagno di vita. Non solo la segue timidamente a distanza, ma è anche fisicamente minuto: l’uomo è sovrastato in tutti i modi dalla moglie. La figura femminile appare dunque il prodotto di qualità antitetiche: se la maternità è la condizione femminile per eccellenza, il comportamento della protagonista appare invece marcato da una agency attiva di stampo maschile. Al tempo stesso, l’uomo appare nel ruolo passivo e subordinato classicamente destinato alla donna.
In alcuni film del 1913, un apice nella carriera di Alice Guy e del successo artistico e finanziario della Solax (McMahan 2002: 154-155), la regista sfrutta la dialettica dei sessi in modo altrettanto efficace ma anche chiaramente diverso. Si può notare che la visione di Guy mostra delle inflessioni culturali importanti in questo senso: il rapporto maschile-femminile è diverso nei film americani rispetto a quelli francesi. Se l’elemento sensuale ed erotico assume in certi film francesi una fisicità marcata, i film americani sono incentrati sulla questione «della parità dei sessi». Guy sembra per molti versi essersi ispirata alle lotte suffragiste che in quegli anni vivono un momento di grande intensità. In almeno due film, purtroppo entrambi perduti, affronta in modo diretto la questione. In Les Résultats du féminisme (1906) assistiamo a una inversione totale dei sessi: gli uomini accudiscono la casa e i bambini, mentre le donne lavorano, corteggiano l’altro sesso, bevono al pub. Alla fine, in un veloce rovesciamento, vengono ristabiliti i vecchi parametri. In seguito a una lite tra un marito abbandonato con la prole e i lavori di casa e la moglie che invece passa il tempo fuori casa, il gruppo di mariti si coalizza a si vendica. Dopo una lotta violenta le donne vengono cacciate dal pub, e gli uomini ritornano al loro intrattenimento preferito. Nel 1912, nel periodo Solax, Guy rifarà il film con il titolo In the Year 2000. McMahan ha giustamente osservato che il finale potrebbe apparire reazionario, ovvero il risultato dell’ottenimento di «troppi» diritti da parte delle donne. E, tuttavia, le donne dell’epoca possono anche averlo interpretato in modo opposto, ovvero come un invito alla rivoluzione. La tematica del rovesciamento dei ruoli non è rara nel cinema dell’epoca – si veda per esempio Why Mr. Nation Wants a Divorce (1901) di Edison – ed è particolarmente produttiva quando è legata ai film sulle suffragette. Spesso il rovesciamento è legato al travestitismo.
A House Divided e Matrimony Speed Limit, entrambi del 1913, non affrontano direttamente le lotte suffragiste, ma sembrano nutrirsi di quello spirito, in quanto narrano in modo esplicito la questione della parità dei sessi. In A House Divided marito e moglie si sospettano a vicenda di tradimento: l’uomo torna a casa dall’ufficio tutto profumato, insospettendo così la moglie, mentre quest’ultima viene creduta un’adultera a causa di un paio di guanti maschili misteriosamente trovati in cucina. Lo spettatore sa che nessuno dei due ha tradito l’altro, ma l’orgoglio di entrambi impedisce la fine dell’incomprensione. I due si recano dall’avvocato dove firmano un contratto in base al quale continueranno a vivere nella stessa casa, senza però parlarsi, comunicando solo attraverso dei bigliettini scritti. Una sera un evento involontario li condurrà all’inevitabile riappacificazione. Per certi versi si potrebbe dire che proprio la parità tra i due, ovvero la rinuncia al dialogo in nome di un orgoglio irrinunciabile, l’eguale diritto a non piegarsi all’altro provocano la temporanea rottura tra i due. Pur passando il suo tempo tra le pareti domestiche, la moglie non mostra alcun senso di subordinazione verso il marito e la relazione è sin dall’inizio sostanzialmente alla pari. In Matrimony Speed Limit il problema narrativo risiede proprio nella rottura della parità e dell’equilibrio, ma a favore della donna. Il protagonista, un uomo d’affari, è fidanzato con una ricca ereditiera. Quando perde tutti i suoi soldi rompe il fidanzamento. La fidanzata gli offre il proprio denaro per risollevarsi, ma l’uomo rifiuta. A quel punto la donna escogita uno stratagemma: gli manda un telegramma informandolo che potrà incassare l’eredità di un lontano parente se si sposerà entro le 12 di quello stesso giorno. I due cominciano a cercarsi, ma poi l’uomo inizia a chiedere la mano a delle sconosciute incontrate casualmente per strada. Del resto la scadenza incalza e l’uomo rischia di perdere l’eredità. Quando l’uomo alla fine incontra l’ex fidanzata, accetta subito di sposarla. Per essere sicura di portare a termine il piano la donna aveva portato con sé un sacerdote. Dopo il fatidico sì la protagonista rivela al marito la verità: i due si stringono in un abbraccio finale. È sin troppo evidente che il rovesciamento della tradizionale subordinazione economica della donna all’uomo è rifiutata dal maschio, che preferisce diventare povero piuttosto che ricorrere ai soldi della fidanzata. Il finale dà però ragione alla moglie alla quale, evidentemente, interessa il lato affettivo del matrimonio, non quello finanziario.
È in molte delle brevi commedie girate prima in Francia e poi negli Stati Uniti che emerge in modo più netto il punto di vista femminista di Alice Guy. Verso la fine del 1913 la regista compirà la transizione al lungometraggio e per i successivi cinque anni girerà un nutrito numero di film da 4 o 5 rulli. Dopo il successo internazionale dei due film epici italiani Quo Vadis? (1912) e Gli ultimi giorni di Pompei (1913), anche l’industria americana si converte alla forma che renderà il cinema come, tutto sommato, lo conosciamo ancora oggi. Dei film girati da Guy in quel periodo ne rimangono tre, gli altri sono purtroppo perduti. I tre film hanno tutti come protagonista principale una figura maschile di artista di cui si narrano sia le gesta creative che quelle romantiche. Il personaggio maschile è sempre diviso tra due donne, ma mentre in The Ocean Waif (1916) è uno scrittore romantico che si innamora della giovane e inesperta Millie, in The Empress (1917) e The Great Adventure (1918) il protagonista è un libertino che vuole semplicemente sedurre la donna. Questi tentativi hanno un esito negativo e la seduzione viene in ultima analisi evitata. In questi tre film le dinamiche di genere si assomigliano e prendono la forma del triangolo amoroso. Charles Musser ha visto in questo modello drammaturgico una chiara iscrizione della situazione biografica della coppia Guy-Blaché. In quel periodo il matrimonio era profondamente in crisi a causa dei tradimenti di Herbert Blaché che, dopo le riprese di The Great Adventure, se ne andrà a Hollywood con l’amante del momento. Secondo Musser il personaggio della seconda donna, che nei tre film guarda sempre l’amato rincorrere un’altra, è un surrogato della regista stessa: Guy farebbe così rivivere a un suo personaggio la sua esperienza quotidiana di donna ripetutamente tradita (Musser 2009: 95). Più in generale però l’immaginario dei rapporti di genere di questi film mostra una filiazione romantica e melodrammatica ottocentesca e appare quindi assai lontano dalla modernità dei personaggi femminili delle commedie precedenti.
In The Ocean Waif Millie, la giovane orfana di cui si innamora lo scrittore di successo, è quanto di più lontano si possa immaginare dalla New Woman del tempo: l’ingenuità della ragazza è piuttosto in sintonia con l’ambientazione rurale della storia. Ronald Roberts, scrittore di successo, si installa in una villa abbandonata per sfuggire al trambusto cittadino e per ritrovare un’oasi di pace e tranquillità che gli consenta di scrivere il nuovo romanzo. Nella villa si è rifugiata Millie per scappare dalle violenze del padre. Nel momento in cui la ragazza diventa la musa ispiratrice dell’artista il rapporto tra i due diventa asimmetrico: la donna assume una posizione passiva e diviene il motore del desiderio maschile, mentre nella sua funzione di creatore l’artista assume un ruolo attivo. Quando la giovane si agghinda con abiti d’epoca trovati in soffitta e si mostra all’uomo in tutta la sua bellezza, troviamo già la classica struttura dello sguardo in cui l’uomo guarda la donna-oggetto. Ma il romance tra lo scrittore e Millie viene improvvisamente interrotto dall’arrivo della fidanzata di Ronald. A quel punto Millie decide di tornare dal patrigno. L’interruzione della storia d’amore è temporanea e i due protagonisti alla fine si riuniranno. Tuttavia, l’arrivo di Ruth e la funzione ideologica di questo personaggio sono estremamente importanti perché contraddicono l’immaginario di base del film. Mentre il rapporto principale e le dinamiche di gender tra Ronald e Millie sono antitetiche ai canoni progressisti che Guy aveva rappresentato in altri film, Ruth è esplicitamente una figura di donna moderna. Quando appare sulla scena, l’iconografia dà indicazioni molto chiare: arriva su un’auto sportiva vestita in modo casual e «maschile». Il contrasto con l’immagine di Millie non potrebbe essere più forte: Ruth è una donna emancipata, sicura di sé ed estremamente libera. Alla vista del fidanzato che bacia un’altra non si scompone troppo e non cercherà di rivalersi sulla giovane. Quando in seguito capirà che Ronald è seriamente interessato a Millie, non esiterà a lasciarlo, fidanzandosi contemporaneamente con il conte amico della madre. Ruth è una society woman autonoma dal punto di vista economico e sentimentale. In quest’ottica, l’idea un po’ maschilista di Musser che dietro i personaggi traditi dei film ci sia l’autrice, tradita dal proprio marito, può acquistare una nota più positiva: di Ruth colpisce la sicurezza, l’autonomia e la freddezza con cui supera il tradimento. In ultima analisi, è lei che, pur non essendo la protagonista principale, incarna lo spirito del tempo della donna moderna.
3. Lois Weber, moralista-riformista americana
Se il periodo muto è in molti paesi occidentali il momento di maggiore forza e presenza femminile nell’industria cinematografica, questa situazione ha proporzioni del tutto particolari negli Stati Uniti. Negli anni ’10 le donne sono presenti numerose in tutti i ruoli, compresa la regia, ambito che in seguito le vedrà quasi del tutto assenti. Nel suo recentissimo lavoro sulla casa di produzione Universal, Mark Garrett Cooper ha mostrato che dal 1912 al 1919 questo studio dette alle donne il credito maggiore: 11 registe firmano in questi anni più di 170 film. Si tratta di una percentuale del 7%, per quanto riguarda il numero delle registe, e del 6% se si considera il numero di film, percentuali basse in termini assoluti, ma alte se viste storicamente. Infatti questa percentuale eccede la media storica ed eccede in modo sostanziale la media dei lungometraggi girati da donne nella storia del cinema americano (Cooper 2010: xiv).
Le ragioni della forte presenza femminile sono da ascrivere sia al nuovo ruolo sociale che le donne assumono in quegli anni che alla struttura produttiva ed economica dell’industria cinematografica del tempo. Sino ai tardi anni ’10 domina la cultura collaborativa ereditata dal teatro in cui ognuno ha mansioni diverse. Al tempo stesso, la richiesta di film è enorme per cui anche la posizione del regista-produttore rimane aperta alle donne. Infine, l’industria cinematografica non si è ancora sviluppata secondo le regole del Big Business: quando negli anni ’20 si arriverà alla formazione dei grandi studios integrati verticalmente e le regole della grande industria entreranno a Hollywood, molte carriere verranno precluse alle donne, in particolare la regia e la produzione. Si assisterà a quello che le storiche hanno definito la «rimascolinizzazione del cinema» (Mahar 2006). Negli anni ’20 solo la recitazione e la sceneggiatura, tra le professioni più prestigiose, rimangono aperte alle donne. Significativamente, per continuare con il nostro esempio, nel 1920 nessun film Universal è diretto da una donna e nel corso degli anni ’20 il numero sarà risibile rispetto al decennio precedente.
Le ricerche storiche più recenti hanno riportato alla luce opere e personalità rimaste fuori dalla storia e hanno affrontato in modo sistematico carriere di cui magari si intuiva la portata ma che non erano mai state veramente studiate. Tali ricerche hanno anche permesso di recuperare molti film. Il numero di opere visibili è, come per il muto in generale, molto limitato rispetto alla produzione complessiva. Il loro valore è però indubbio e queste scoperte hanno in parte colmato un vuoto storico di ampie proporzioni. Questi film non vanno considerati delle curiosità, non sono opere il cui unico interesse è di essere girati da una donna – come purtroppo spesso si pensa per le attività femminili –, ma hanno un valore cinematografico, estetico e sociale del tutto paragonabile ai film girati in quegli anni dagli uomini. Anche se nessuna può competere con Lois Weber, la più importante e più prolifica regista del cinema muto americano, vanno almeno ricordate alcune altre registe della Universal, come Ida May Park, Cleo Madison, Ruth Ann Baldwin, Ruth Stonehouse e Elsie Jane Wilson. Si tratta di carriere significative in cui normalmente le donne giungono alla regia dopo un’esperienza di successo o come scrittrici e sceneggiatrici o come attrici (Mahar 2006; Cooper 2010).
A metà anni ’10 Lois Weber non temeva né Griffith né il nuovo arrivato De Mille. A quell’epoca i suoi film avevano sia un grande successo al box office che di critica. Questo non ha impedito che Weber fosse per molti decenni dimenticata. Oltre ad essere stata una grande regista e una figura pubblica di spicco, Weber aveva fama di essere una scopritrice di talenti femminili e ha sempre valorizzato il lavoro delle donne. Recenti studi hanno infatti messo in luce i molti esempi di amicizia e sostegno reciproco tra donne, una pratica di camaraderie che mette in discussione l’idea che le donne siano spesso le peggiori nemiche del loro sesso. L’esempio di Frances Marion è senz’altro uno dei più significativi. Marion, la sceneggiatrice più prestigiosa e pagata del periodo (nel 1925, dopo la sceneggiatura di Stella Dallas, guadagnava 3.000 dollari la settimana), autrice di 325 sceneggiature, nell’ambito di tutti i generi e per tutte le dive più importanti, afferma senza mezzi termini che è sempre stata una donna che l’ha aiutata nei momenti difficili. Le sue amicizie più strette comprendevano, tra le altre, le attrici Mary Pickford e Marie Dressler, e la scrittrice e sceneggiatrice Adela Rogers St. Johns: proprio attraverso la mediazione di Rogers, Marion incontra Lois Weber e ottiene il suo primo lavoro a Hollywood (Beauchamp 1997). La più grande sceneggiatrice del periodo inizia dunque a lavorare con la più importante regista dell’epoca. E sarà Francis Marion a pagare le spese del funerale di Lois Weber, oramai in miseria.
Quando nel 1914 Marion diventa sua assistente la carriera della regista è già ben rodata. Dopo un avvio teatrale, nel 1908 Weber era stata assunta dalla Gaumont dove aveva lavorato con Herbert Blaché, marito di Alice Guy. Nelle sue memorie Guy ricorda: «Herbert Blaché aveva diretto, nel piccolo studio Gaumont, una cantante, Lois Weber, che registrò alcune canzoni per il cronofono. Mi aveva visto dirigere i primi cortometraggi e pensò senza dubbio che non era difficile. Riuscì a ottenere una regia, e certi americani hanno sostenuto che sia stata lei la prima donna regista» (Guy 2008: 130). Forse l’assunzione di Weber non è merito di Alice Guy (McMahan 2002: 71), ma è comunque un fatto che le due pioniere abbiano lavorato insieme nella stessa casa di produzione. In seguito Lois Weber, assieme al marito Phillips Smalley, lavorerà per altri studios, e nel 1912 si sposterà a Los Angeles per andare alla Rex di Edwin Porter. Come qualche anno prima Alice Guy e in quegli stessi anni Elvira Notari, Weber lavora in coppia col marito condividendo la scrittura, la direzione e l’interpretazione di ruoli principali (Heck-Rabi 1984: 54-57). E come le altre due pioniere, Lois è senza dubbio la più capace della coppia. La critica e il pubblico non tardano ad apprezzarla grazie soprattutto alla scelta di affrontare tematiche sociali serie. Lois Weber diventa una pedina fondamentale nel movimento «riformatore» che coinvolge l’industria cinematografica dei primi anni ’10. Il bisogno di conquistare il pubblico borghese spinge l’industria a favorire un processo di moralizzazione e un raffinamento del gusto indispensabili per una legittimazione culturale del cinema. Questo processo favorì enormemente l’ingresso delle donne a Hollywood. Le donne erano ritenute più adatte degli uomini a promuovere la reputazione del cinema, grazie alla loro supposta superiorità morale. Tale immaginario culturale – che inizia nel periodo jacksoniano – si basava su una rigida separazione di genere in base alla quale gli uomini erano considerati più adatti agli affari e alla politica, ad una sfera pubblica brutale dominata dall’interesse personale, mentre le donne erano considerate pie e pure per natura. Le donne potevano mantenere la moralità della nazione attraverso una conduzione spirituale della sfera privata, della casa e della famiglia. Questa superiorità morale ha favorito l’impegno delle donne al di fuori dello spazio domestico per combattere problemi sociali quali la povertà, la prostituzione, la schiavitù, l’alcolismo, ecc. È in questa tradizione che le donne vengono percepite come fondamentali nel miglioramento morale del cinema (e della nazione). Tale dinamica influenza sia le tematiche che la forma dei film, con la sostituzione del cinema delle attrazioni con quello narrativo. Com’è noto, l’acquisizione di un pubblico borghese, che dopo gli inizi si aggiunge a quello popolare dei primi anni, è uno dei motivi che spiega il successo del lungometraggio.
La funzione morale e civilizzatrice del cinema viene assicurata in particolare da un genere, il social problem film, che si incarica di rappresentare in forma drammatica le problematiche sociali del tempo. Come abbiamo visto nel primo capitolo, nel 1913 scoppia la febbre per il white slavery film: si tratta di opere che raccontavano di giovani donne indotte alla prostituzione. Traffic in Souls (1913) apre il genere che conoscerà un successo e uno sviluppo molto rapidi (Stamp 2000). Ma il social problem film affronterà in quegli anni molte altre problematiche, legate a comportamenti di natura sessuale e morale. Se da un lato questi film erano considerati educativi, poiché dovevano istruire ampi settori della popolazione (e dell’audience cinematografica) a tenere alcuni comportamenti piuttosto che altri, dall’altro il materiale e le storie narrate erano sensazionalistiche e morbose e per questo attraevano un pubblico molto vasto. Se commentatori e riformatori credevano che la sessualità esplicita dei white slavery films ripugnasse le donne, dovettero invece constatare che esse erano profondamente attratte da queste tematiche (Stamp 2000: 94). Questa dualità spiega in ogni modo sia il successo di questi film che lo statuto sociale del cinema di quel tempo: il cinema non era solo uno spettacolo, una forma di intrattenimento, ma partecipava alla formazione dell’opinione pubblica su quali fossero i valori, i comportamenti, gli stili di vita «consoni» all’identità e allo sviluppo del paese.
Il lavoro di Lois Weber si inserisce in questo contesto. A metà decennio la regista affronta una serie di tematiche sociali, concentrandosi in particolare su questioni femminili. Da Hypocrites (1915) a Where Are My Children? (1916) e Shoes (1916) sino a The Blot (1921), per limitarci ai film ancora visibili, Weber si inserisce nei dibattiti dell’epoca, convinta che il cinema dovesse e potesse «ispirare e portare a compimento miglioramenti sociali» e che «i film costituissero una sorta di avanguardia nello sviluppo di riforme sociali necessarie» (Heck-Rabi 1984: 55). A questo fine Weber crede in primo luogo alla storia: «Metto la mia fede nella storia, poiché tutte le ambientazioni suntuose e un cast di due decine di star non riescono a trasformare una cattiva storia in un successo pieno e legittimo. E credo fermamente in quella storia che è un quadro di vita vera» (Heck-Rabi 1984: 60).
Ma Weber non è semplicemente una moralista, è anche una donna di spettacolo consapevole di quale sia la ricetta del successo: il film deve fondere tematiche forti e importanti con elementi di richiamo per il pubblico. Le questioni legate alle sessualità, come per esempio l’aborto e il controllo delle nascite, sono affrontate da Weber in modo tale da evocare e attivare commenti morali e moralistici, interessi morbosi o semplice curiosità. I suoi film non sono solo dei sermoni, ma sembrano caratterizzati da istanze diverse che, in ultima analisi, li rendono contraddittori e per questo molto interessanti. In essi si possono leggere valori e posizioni culturali diversi e antitetici. In secondo luogo, nonostante l’autrice sembri a parole interessata più alle tematiche che alla forma, il suo cinema è caratterizzato da un lavoro visivo di indubbio valore, in particolare attraverso strategie di spettacolarizzazione dell’immagine come sovrimpressioni e dissolvenze.
Il doppio registro appena discusso è alla base di Hypocrites, un sermone sull’ipocrisia di molti fedeli e un invito a cercare la Nuda Verità. Qualche anno dopo Weber stessa definì alcuni suoi film «heavy dinners» (cene pesanti) (Cooper 2010: 131) e la definizione appare forse più appropriata per questo film che non per i successivi. Hypocrites comunque ebbe un successo clamoroso, prima a New York poi in altre città americane. La ricezione entusiastica è in parte dovuta alla scelta di Weber di rappresentare la Verità, da contrapporre all’ipocrisia, con il corpo nudo di una giovane attrice: Margaret Edwards viene ripresa più volte in sovrimpressione mentre mostra uno specchio allegorico alla società del tempo. Ma il mondo non vuole vedere la Verità, preferendo trincerarsi dietro l’ipocrisia. Il successo del film spinse Universal a riportare Weber e il marito allo studio. Nei due anni successivi la coppia sfornerà più di dieci film, molti dei quali incentrati su temi sociali. Particolare rilievo per la nostra discussione rivestono Where Are My Children? e Shoes, in cui questioni relative alla sessualità femminile vengono fuse con dinamiche legate alla classe sociale. In altre parole, Weber racconta il soggetto femminile attraverso il doppio filtro del gender e della classe.
In Where Are My Children? la regista affronta due problemi scottanti quali l’aborto e il controllo delle nascite, o meglio l’aborto clandestino come rimedio a una gravidanza indesiderata. In quegli anni il dibattito era stato alimentato da esponenti del movimento femminista come Margaret Sanger, che a partire dai primi anni ’10 diventa la figura di riferimento del movimento sul controllo delle nascite, una delle esperienze più apertamente politiche del femminismo (Cott 1987: 48). Nel suo lavoro di infermiera presso i ceti poveri del Lower East Side di New York, Sanger aveva conosciuto direttamente la tragedia femminile di gravidanze continue. Nei suoi scritti racconta di come venisse spesso chiamata per assistere una giovane madre che aveva tentato di abortire, da sola o tramite un medico compiacente, perché la donna e il marito non avevano i mezzi per mantenere in modo adeguato i troppi figli. Sanger rimane particolarmente colpita dal caso di una donna che, dopo aver rischiato seriamente di morire, riesce a guarire. Sanger la assiste per alcune settimane e le promette di tornare a trovarla per insegnarle alcuni espedienti per evitare una nuova gravidanza. Ma presa dai suoi impegni non tiene fede alla promessa. Qualche mese dopo viene chiamata nuovamente dal marito: la donna morirà pochi minuti dopo l’arrivo di Sanger per un nuovo aborto. Questa esperienza la spinge ad abbandonare il «lavoro palliativo» e «superficiale con cui medici, infermiere e assistenti sociali» affrontano questo dramma e a dedicarsi invece a diffondere informazioni su come prevenire la gravidanza attraverso materiali, pubblicazioni, conferenze, colloqui, ecc. (Sanger 1995: 337-340). Ben presto viene arrestata per aver pubblicato una rivista che diffonde notizie sulla contraccezione e così scappa in Inghilterra. Al ritorno, continua la sua attività col marito e nel 1916 apre una clinica a Brooklyn, dove sperimenta l’uso del diaframma che aveva importato dall’Inghilterra.
In The Hand that Rocks the Cradle (1917) Weber si ispira direttamente alla vita di Margaret Sanger con il personaggio di Mrs. Broome, da lei stessa interpretato, che all’insaputa del marito medico diffonde materiale sui contraccettivi, viene sorvegliata dalla polizia e poi arrestata. Il film è perduto, ma la sceneggiatura, recentemente pubblicata (Weber 1987), è un documento prezioso che testimonia quanto l’argomento fosse importante per la regista. The Hand that Rocks the Cradle esce infatti a un anno di distanza dal più famoso Where Are My Children?, che aveva affrontato questioni simili. In questo primo film, il contesto di povertà raccontato da Sanger è riconoscibile sino quasi ai dettagli nell’esperienza del dottor Homer, un medico arrestato e portato a giudizio per la diffusione di materiale sulla contraccezione. L’episodio del tribunale apre il film e introduce immediatamente gli snodi centrali del racconto. Walton, il pubblico ministero responsabile del caso, è infatti un uomo sposato che desidera diventare padre più di ogni altra cosa. Ma la moglie è contraria alla maternità e ha di nascosto dal marito già avuto un aborto clandestino. I coniugi Walton sono una coppia benestante, innamorati l’uno dell’altro, ma divisi nel loro atteggiamento sull’avere figli. Il film dà ampio spazio al desiderio dell’uomo, mostrandolo attento e premuroso verso il bambino della sorella o mentre guarda e parla ai figli dei vicini. La moglie è una society woman che ama gli agi e il benessere, e si diverte con le amiche, donne ricche ed eleganti che come lei non lavorano. Nella prima parte il racconto alterna scene del processo in tribunale, alcuni flashback del dottor Homer nel ghetto, ed episodi in cui la signora Walton chiacchiera in compagnia. Quando un’amica le rivela di essere incinta e le chiede aiuto, la donna la rassicura e la porta dal suo medico. A questo punto il nodo ideologico del film appare chiaro: mentre le donne benestanti possono non avere figli, anche ricorrendo all’aborto clandestino, quelle povere sono vittime di continue gravidanze poiché non hanno le informazioni per evitare gravidanze indesiderate. La proibizione di diffondere materiali informativi appare del tutto ingiusta: le continue maternità non solo indeboliscono le donne, ma mettono in pericolo la vita stessa di molti bambini, poiché le famiglie non hanno i mezzi per mantenerli. Nonostante tutto, il dottor Homer viene condannato per il suo lavoro di prevenzione e Walton, pur condividendo il punto di vista del medico, non riesce a evitarne la condanna.
In questa prima parte ci sono riferimenti espliciti alle campagne eugenetiche del tempo, che auspicavano il controllo delle nascite nelle classi meno abbienti, responsabili «di far nascere bambini deboli e malati» che provocavano il «suicidio della razza» (race suicide). Mentre al contrario i sani, i «fit», avrebbero dovuto procreare per assicurare il miglioramento della specie (Gordon 2007: 76-81). In quest’ottica alcune studiose hanno recentemente affermato che il film di Weber è complice del discorso eugenetico contemporaneo. Where Are My Children? affermerebbe da un lato la necessità dell’aborto per le classi subalterne e dall’altro l’obbligo per le donne benestanti di fare (molti) figli. In questo scenario la signora Walton verrebbe stigmatizzata per aver rifiutato la maternità (Stamp 2002). Ritengo, al contrario, che nel corpo del testo siano iscritte una serie di posizioni contraddittorie riguardanti il soggetto femminile e che, in verità, sia possibile leggere il film come un’affermazione del diritto di ogni donna di decidere autonomamente se essere madre o meno.
Un ulteriore snodo narrativo rende il discorso del film più complesso di quanto abbiamo sinora descritto. Quando Lillian, la figlia della cameriera dei Walton, viene ad abitare con la madre a casa della coppia di protagonisti la ragazza, pura e ingenua, «modello Lillian Gish», diventa preda delle brame sessuali del fratello di Mrs. Walton, anch’egli ospite nella stessa casa. Secondo i canoni del melodramma ottocentesco il villain si prende gioco della giovane vergine che rimane incinta. Mentre la signora Walton, per amore del marito, decide di diventare madre, il fratello porta Lillian ad abortire dal medico consigliatogli dalla sorella, ignara, tuttavia, che la malcapitata sia la figlia della sua cameriera. Tornata a casa Lillian si sente male e muore per un’emorragia dopo aver rivelato alla madre la verità. A quel punto il signor Walton denuncia il medico che viene processato. In una efficace simmetria rispetto all’inizio torniamo in tribunale: se prima Walton non era riuscito a far scagionare il dottor Homer, ora riesce a far condannare il dottor Mitlif. Ma quando il procuratore guarda i libri contabili del medico vede registrate tra le pazienti la moglie e tutte le sue amiche. Inorridito giunge a casa e dopo aver cacciato le ospiti chiede disperato alla moglie «Where Are My Children?» («Dove sono i miei figli?»). L’ultima parte del film mostra la difficile convivenza dei due, con il marito che comunque perdona la moglie. Alla fine, oramai vecchi, siedono davanti al camino mentre in sovrimpressione appaiono dei bambini, poi dei giovani, i figli che immaginano ma che non hanno avuto.
Proprio la forma del film, in particolare la scelta di usare in modo così sistematico il montaggio alternato, definisce il punto di vista dell’opera sulla materia narrata. Nella prima parte la regista «mette a confronto» le gravidanze insostenibili delle donne povere con il rifiuto della maternità da parte di donne ricche. Il confronto non implica una presa di posizione da parte del film: la strategia adottata da Weber non sostiene né condanna una posizione rispetto all’altra. Ciò che il montaggio alternato mette in evidenza sono le differenze tra le due situazioni: alla differenza di classe corrisponde un diverso statuto, un diverso potere del soggetto femminile sulla propria condizione. Mentre la donna povera non può evitare la gravidanza, la donna altoborghese conosce delle scappatoie che le consentono di mutare il corso degli eventi. È interessante a tale proposito una testimonianza di Margaret Sanger. Le donne da lei assistite affermavano che «le ricche conoscono i trucchi mentre noi ci ritroviamo con tutti i bambini» (Sanger 1995: 338). La differenza di classe viene esaltata dal montaggio alternato che rivela, in primo luogo, lo iato incolmabile tra la condizione delle donne assistite dal dottor Homer e quella della signora Walton e delle sue amiche. Si può dire, usando uno dei paradigmi di base del pensiero femminista, che la differenza di classe si traduce in una opposizione sostanziale tra passività e attività. Lo stile espositivo del film evita qualsiasi giudizio sul comportamento delle society women e il desiderio di Walton di avere figli non appare più legittimo o giusto del desiderio della moglie di non averne. In questa prima parte non vi è alcuna condanna dell’aborto. Tale posizione è rafforzata nell’episodio successivo in cui il rapporto tra differenza di genere e classe è articolato in una prospettiva diversa. Nel momento in cui il fratello della signora Walton seduce Lillian, si ripropone il tipico conflitto melodrammatico di classe emerso sin dal Settecento nei romanzi di Richardson e nei drammi teatrali di Lessing e Schiller e continuato nei melodrammi teatrali di Pixérecourt & Co. in cui il villain, un esponente dell’aristocrazia, attenta alla virtù di una giovane di classe inferiore. L’iconografia del film tratteggia in modo esplicito i due personaggi, riproponendo la dicotomia attivo/passivo nei termini dell’opposizione tra malvagità e innocenza (Brooks 1985). Nella logica narrativa del film l’esito tragico dell’evento, la morte della giovane dopo un aborto clandestino, non va ascritto al medico che pratica l’intervento, ma al comportamento immorale dell’uomo che l’ha sedotta, un adulto istruito, perfettamente consapevole delle proprie azioni, che raggira una giovane ingenua e di estrazione umile. Quando Lillian muore tutti i protagonisti colpevolizzano il seduttore. Neanche in questo caso dunque la pratica dell’aborto clandestino viene condannata.
In definitiva, Where Are My Children? dà spazio a eventi e punti di vista diversi sulla maternità, coinvolgendo sia il desiderio di soggetti maschili che femminili. La pluralità delle posizioni esprime non solo la complessità della materia e la varietà dei punti di vista emersi all’epoca, ma sottolinea l’irriducibilità sia delle differenze di genere che di classe. Il film rilancia le prerogative della donna povera e sfruttata, soggetta a maternità multiple, ma lascia anche trasparire la possibilità che, come alcune frange radicali del pensiero femminista del tempo ritenevano, «alcuni matrimoni debbano rimanere senza prole» (Gordon 2007: 94). Ma rifiutare la maternità nel contesto del matrimonio significa anche pensare la sessualità al di fuori dell’ambito riproduttivo e, dunque, accettare la sessualità femminile come mera ricerca del piacere. Questo tratto definisce bene la signora Walton, una donna autonoma e attiva, che ama sinceramente il marito, ma che rifiuta uno stile di vita fondato sul sacrificio. Una donna, insomma, piuttosto radical.
L’interesse di Weber per le questioni sociali continua anche nel primo dopoguerra, ma l’atmosfera ora è irrimediabilmente cambiata. Nella Jazz Age degli anni ’20 dominano le commedie sul matrimonio di De Mille e i flapper films con Colleen Moore, Clara Bow e Louise Brooks: ora le «heavy dinners» di Lois Weber annoiano l’audience moderna, proiettata verso comportamenti più liberi e interessi legati ai nuovi stili di vita urbani. Anche se Weber non ottiene più grandi successi al box office, i critici non le fanno mancare il loro apprezzamento. È il caso di The Blot (1921), che ottiene un successo critico eccezionale (Mahar 2006: 148-149). Il film affronta la questione del lavoro intellettuale sottopagato attraverso la storia del professor Griggs. Pur insegnando in un college privato frequentato da ricchi rampolli, Griggs ha uno stipendio talmente esiguo da non riuscire a mantenere la famiglia. La moglie passa la giornata cercando di portare qualcosa in tavola, il gatto di casa va a cibarsi nella spazzatura dei vicini, e quando la giovane figlia si ammala non può essere nutrita in modo adeguato. Il discorso sociale del film è estremamente efficace grazie in particolare a una costruzione narrativa serrata e a un’attenzione estrema ai dettagli. Infine, come in altri film di Weber, il montaggio parallelo e alternato risulta fondamentale al commento sociale dell’opera. In The Blot Weber radicalizza le questioni di classe già affrontate in film precedenti e presenta un caleidoscopio dei rapporti sociali piuttosto complesso. Le dinamiche tra i vari gruppi vengono raccontate attraverso Amalia Griggs, la bella figlia del professore, corteggiata da tre giovani uomini, appartenenti a tre diverse classi sociali. Il confronto/scontro più sviluppato è quello tra i Griggs e i loro vicini, gli Olsen, una famiglia numerosa e benestante. Il capofamiglia è un emigrato i cui guadagni come artigiano della scarpa di lusso superano di gran lunga quelli del professor Griggs. Mentre il lavoro intellettuale è sottopagato, il lavoro manuale dà guadagni notevoli. Il discorso morale del film si scaglia contro una situazione che appare illogica: mentre chi «nutre l’intelletto» viene ridotto alla fame, chi alimenta i vezzi trendy e consumistici dei ricchi viene premiato.
Questa situazione viene sviluppata in particolare attraverso una serie di episodi e battibecchi che vedono protagoniste le due mogli e madri, le signore Griggs e Olsen. Dalla propria cucina, la prima osserva sofferente la tavola imbandita degli Olsen. L’immagine si sofferma costantemente sulla quantità e la varietà dei cibi dei vicini, che hanno sin troppo, mentre la signora Griggs non può nemmeno servire un tè forte ai propri ospiti. L’apice di questo scontro vede la signora Griggs, disperata per non poter dare alla figlia qualcosa di nutriente, pensare, per un istante, di rubare un pollo alla vicina. Compiuto il gesto, la donna si pente e lo restituisce immediatamente. Purtroppo la vicina ha visto tutta l’azione, mentre Amalia non vede la restituzione del pennuto ed è convinta della colpevolezza della madre. Ma il conflitto tra la classe borghese intellettuale, i «nuovi poveri» del dopoguerra, e la classe lavoratrice, oramai economicamente più agiata dei primi, non è l’unico ad attraversare il film. Il terzo polo è rappresentato dai «capitalisti», i ricchi che mandano i figli a costosi college e passano le loro serate in lussuosi Country Club. Il film inizia con il confronto tra la povertà del professor Griggs e la ricchezza dei suoi studenti, che non solo sono poco interessati allo studio ma si prendono gioco del professore. Phil West, figlio di uno dei membri del Consiglio di amministrazione del college, si innamorerà di Amalia e dietro l’incredulità dei suoi amici comincerà ad aiutare la famiglia, quindi cercherà di convincere il padre ad aumentare lo stipendio dei professori. Il finale sembra annunciare il fidanzamento interclasse tra Phil e Amalia e un possibile matrimonio. È un esempio di mobilità sociale femminile, in anticipo rispetto ai tempi, ma in sintonia con le tante traiettorie di autoaffermazione femminile che si svilupperanno nel cinema del decennio. Si tratta quasi di un finale da New Woman, anche se Amalia non ha nulla della ragazza moderna che invade gli schermi degli anni ’20. La leggerezza e la positività del finale sembra contraddire la durezza dei conflitti sociali che caratterizza tutto il film. Forse Weber non può fare a meno di registrare, anche inconsapevolmente, l’atmosfera inebriante e trasgressiva dell’epoca. Le New Women saranno le protagoniste incontrastate del cinema degli anni successivi.
Il film è anche un esempio della centralità del soggetto femminile nel cinema della regista. In The Blot Weber privilegia il punto di vista femminile alternando nella rappresentazione il punto di vista della madre e della figlia (Kaplan 1992). Il film dà invece poco spazio al capofamiglia, curiosa scelta dato che il soggetto del film è proprio la condizione del professor Griggs. La signora Griggs, in particolare, è per gran parte del film il fuoco del racconto. Più in generale, il film è strutturato attorno al rapporto conflittuale tra le due madri di famiglia, che passano tutto il loro tempo nello spazio domestico. Le due donne si controllano a vista attraverso una serie di sguardi, resi efficacemente con un attento lavoro di cadrage incentrato su alcune finestre. Come precedentemente in Shoes, lo sguardo è usato in modo ossessivo nel film: attraverso lo sguardo si sviluppano le dinamiche del desiderio che percorrono il testo e che riguardano il rapporto tra le due famiglie e il corteggiamento ad Amelia. Se in Hypocrites e Where Are My Children? Weber aveva sfruttato, tra i codici della retorica cinematografica, il montaggio alternato e la sovrimpressione, in The Blot lo sguardo assume un ruolo primario. In ogni caso Weber è un’abile narratrice, consapevole delle possibilità del linguaggio cinematografico, non meno di Griffith e di De Mille, considerati i più importanti autori del periodo. Come ebbe a dire a proposito di Where Are My Children?, «al fine di fare un film drammatico che funzioni [...] bisogna seguire le regole dell’efficacia narrativa più che la propaganda rigorosa» (Stamp 2002: 281).
4. Elvira Notari, regista napoletana
Elvira Notari è senza dubbio la pioniera italiana del cinema. Con più di 60 film e 100 cortometraggi, realizzati dal 1906 al 1930, la sua biografia professionale è paragonabile a quella di Alice Guy e Lois Weber. Mentre molte delle registe italiane degli anni ’10 e ’20 arrivano alla regia da una avviata carriera di attrice e/o diva – al cinema, a teatro o all’opera –, come le sue omologhe straniere Elvira Notari ha la personalità e le capacità della regista. Le somiglianze con Guy e Weber sono molte, a partire dalla collaborazione con il marito, con cui nel 1909 fonda la casa di produzione Dora Film. Diverso è ovviamente non solo il contesto nazionale, ma i riferimenti e le tradizioni culturali in cui il cinema di Notari si inserisce. Per diversi motivi Alice Guy, first pioneer of the cinema, può vantare uno statuto originario, «universale» incontestato: da un lato perché inizia a fare cinema a Parigi, proprio agli albori della settima arte, dall’altro perché la sua duplice carriera, prima in Francia poi negli Stati Uniti, le conferisce uno statuto internazionale pressoché unico. E la sua carriera prolungata le consente di sperimentare e lavorare con tutti i diversi formati sino al lungometraggio, inclusa una delle prime forme di sonoro, il Cronofono della Gaumont. La scrittura delle memorie sembra anche dimostrare una maggiore consapevolezza, da parte di Alice Guy, non solo del suo ruolo, ma anche dello statuto del cinema come forma artistica e culturale. Al confronto, l’impatto di Lois Weber appare più limitato poiché si sviluppa nel contesto del cinema americano. In questo ambito, tuttavia, Weber non è solo la più importante regista-donna del muto americano, ma una delle maggiori autrici del cinema statunitense sino a oggi. In secondo luogo, appare riduttivo definirla in termini di genere: Weber ha all’epoca uno statuto come cineasta tout court, non come cineasta-donna. A differenza di come considerava il lavoro delle altre registe, alle quali assegnava film di un certo tipo, «adatti alle donne», nel pubblicizzare i film di Weber Universal usava una retorica che sottolineava non tanto «ciò che faceva di Weber una donna, ma ciò che faceva di lei Weber», ovvero ciò che costituiva la sua autorialità, la sua unicità (Cooper 2010: 128-129). E nel definirla «l’unico regista in America che abbia dedicato la sua intera carriera a produrre ‘film per il pensiero’ [thought film]» in epoca più recente Kevin Brownlow le ha ugualmente attribuito uno statuto autoriale importante e privo di connotazioni di genere (Francke 1994: 26).
L’opera e l’autorialità di Elvira Notari sono ancora diverse. Alla natura quasi «universale» del cinema di Guy e a quella decisamente nazionale di Weber si contrappone il regionalismo della regista napoletana. Il cinema di Notari infatti non solo si iscrive nella tradizione della cultura popolare napoletana, attraverso l’utilizzo di materiali provenienti dalla letteratura, dal teatro e dalla musica, ma il suo enorme successo tocca innanzitutto il capoluogo campano (Bruno 1993). A Napoli il successo era strabiliante, il pubblico formava lunghissime code davanti ai cinema – soprattutto il Vittoria nella Galleria Umberto I – e a volte la Questura ha dovuto addirittura autorizzare l’anticipo dell’inizio delle proiezioni per smaltire le file. Ma Notari aveva un pubblico vastissimo in tutta l’Italia meridionale e nelle isole, mentre nell’Italia del Nord non raccoglieva consensi. Qualcuno ha sostenuto che forse al Nord il suo cinema era più disprezzato dai critici che dal pubblico. Secondo Vittorio Martinelli, il primo a riscoprire l’opera della Notari e delle tante registe del muto italiano, «dove l’accoglienza raggiunse forme addirittura deliranti è nelle comunità italiane d’America del Sud e del Nord», in città come New York, Buenos Aires e Montevideo (Martinelli 1981: 21). A New York, in particolare, operava una succursale della casa di produzione, la Dora Film of America, che distribuiva i film prodotti a Napoli, alcuni dei quali, censurati in Italia, potevano invece uscire liberamente negli Stati Uniti (Troianelli 1989). È evidente come il regionalismo di Notari non implichi dunque una diffusione locale e limitata; si configura invece come un’esperienza internazionale che, attraverso il fenomeno migratorio di inizio Novecento, tocca almeno tre continenti.
La regionalità di Notari spiega la reticenza a includerla nelle storie ufficiali del cinema italiano. Ma l’impatto di Notari non si esaurisce nel periodo in cui opera. Al contrario, dietro il cinema popolare napoletano del secondo dopoguerra, in particolare quello di Roberto Amoroso, si scorge quello di questa regista, che funge da modello sia dal punto di vista produttivo che formale. La specificità del cinema di Notari si coglie dunque in relazione agli elementi culturali extracinematografici che mobilita, soprattutto il melodramma nella sua declinazione «napoletana». Di film in film ritroviamo gli stessi temi e le stesse dinamiche intersoggettive e familiari: la passione e il tradimento, l’amore e l’onore. Questi scenari vedono anche la ripetizione costante delle modalità del rapporto uomo-donna e della rappresentazione del femminile. In questo contesto l’immaginario di Notari è assai tradizionale e mostra la sopravvivenza di forme premoderne: solo la madre viene connotata in modo positivo, mentre la donna giovane è una versione napoletana di vamp che seduce l’uomo, lo tradisce e lo porta alla perdizione. La madre incarna un’immagine specifica della cultura del Sud. Nella famiglia meridionale la madre ha un potere morale e contrattuale indubbiamente maggiore rispetto ad altre realtà geografiche (Gribaudi 1996). Questa figura di madre ha un attaccamento speciale verso i figli maschi ed è sempre pronta a far ricadere le loro colpe sulla donna di cui si sono innamorati. Si pensi, quattro decenni più tardi, alla Rosaria Parondi di Rocco e i suoi fratelli. Dietro questa immagine di donna forte, centro decisionale all’interno della famiglia, si può scorgere, per alcuni versi, anche Notari stessa. Elvira è il cuore dell’impresa familiare e ha un attaccamento particolare verso il figlio Eduardo, presente in molti film della madre nel ruolo di Gennariello, mentre la figlia Dora «non sembra avere un ruolo dominante nella dinamica familiare e le eroine che nei film portano il suo nome muoiono suicide» (Troianelli 1989: 27).
Nata a Salerno nel 1875, Elvira Coda si trasferisce a Napoli dopo le scuole superiori e sposa Nicola Notari nel 1902. La coppia inizia la propria attività cinematografica dedicandosi alla colorazione della pellicola per conto terzi, ma amplia in poco tempo i servizi offerti. Con l’acquisizione di un teatro di posa nel 1912, la Dora Film si dedica alla produzione di film, prima documentari – diretti soprattutto da Nicola –, poi lungometraggi di finzione, diretti invece da Elvira. La suddivisione dei compiti vede Nicola operatore di macchina, Elvira autrice dei soggetti e nella direzione della troupe. Elvira inoltre sceglie i copioni in virtù di una cultura superiore a quella del marito. Enza Troianelli, autrice del primo studio approfondito su Notari, la descrive come una donna decisa che negli anni ’20, quando le attrici cominciano a corteggiare il figlio Eduardo, diventa diffidente delle donne. Non è certamente una femminista e se in giovane età produce film «audaci», «intorno alla cinquantina diventa moralista ferrea, quasi bigotta» (Troianelli 1989: 18). L’affermazione professionale di Notari si compie attraverso il matrimonio e la famiglia: la Dora Film è una casa di produzione familiare in cui Elvira ha il ruolo decisionale. Il caso di Notari non è un’eccezione: a inizio secolo le donne lavorano in percentuali molto alte in tutti i campi, e nell’ambito artistico e letterario le figure di primo piano sono tante. E Napoli costituiva una delle città più in sintonia con la modernità.
Lo statuto di gender di Elvira Notari sembra dunque essere definito dalla contrapposizione tra l’emancipazione forte della regista che, al pari di Alice Guy e Lois Weber, persegue una carriera di successo, e la rappresentazione delle dinamiche maschile-femminile del suo cinema che, al contrario, connota la donna in modo negativo e fa della famiglia un luogo repressivo e malsano. Da un lato Notari è una figura attiva nella sfera sociale, mobilita un’ampia audience e contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica: in questo è una donna moderna, il cui ruolo è comprensibile nell’ambito della modernità. Dall’altro però le immagini, gli stili di vita e le strutture del sentimento dei soggetti femminili rappresentati ci mostrano un mondo chiuso e tradizionale, in cui il ruolo primario della donna è quello della vamp traditrice – tutto il contrario della donna moderna – oppure della madre accentratrice. In questo aspetto il suo cinema è lontano da quello delle due altre pioniere, che invece costruiscono personaggi femminili che rappresentano o dialogano fortemente con la modernità.
I tre film sopravvissuti – e molti di quelli perduti – realizzano lo stesso canovaccio di base, ripetendo con grande omogeneità rapporti, storie e ambienti. Come si vede in È piccerella (1922), ’A Santanotte (1922) e Fantasia ’e surdate (1927) a ritornare non sono solo le storie e le dinamiche narrative, ma anche gli stessi personaggi, spesso interpretati dagli stessi attori. La bella Rosé Angione interpreta la giovane di cui si innamora Tore, interpretato da Alberto Danza. Tore vive con la vecchia madre, l’attrice Elisa Cava, e con il fratello minore, Gennariello, Eduardo Notari, mentre Carluccio compete con Tore per l’amore della stessa donna. Nei tre film lo scenario familiare è «incompleto», privo della figura paterna, mentre la vecchia madre è un modello particolare di genitrice: la madre è l’autorità, difesa e amata da Gennariello, il figlio più giovane e buono, che non la delude mai. Tore invece è un disgraziato che per amore di una donna distrugge l’unità familiare e le sue finanze, mette a rischio la propria incolumità o la sua salute mentale. In È piccerella si innamora di Margaretella, che per lui lascia il fidanzato Carluccio. Ma la giovane è una vamp interessata solo a regali di lusso. Sorta di Theda Bara napoletana, come un vampiro Margaretella succhia l’energia vitale di Tore, oltre che i soldi di famiglia. La sensualità violenta della donna, esacerbata da uno stile recitativo eccessivo, è resa dai baci che l’uomo non cessa di desiderare anche quando capisce che lei gli ha mentito e che è pronta a tradirlo (se non l’ha già fatto). Per lei Tore rovina la famiglia, spendendo i soldi in abiti e gioielli: così il fratello e la madre non riescono a pagare le rate dei macchinari dell’attività famigliare e i fornitori vengono a ritirarli facendo chiudere la piccola azienda. Tore non riuscirà a liberarsi dall’ossessione della donna e se ne andrà di casa. Quando la vecchia madre si ammala, Gennariello va a cercare il fratello perché chieda perdono e faccia morire in pace l’anziana. Ma dopo un anno Tore va ancora in cerca di Margaretella. Alla festa di Montevergine vede la donna, la segue e cade a terra in preda all’ossessione. In ’A Santanotte Tore si innamora di Nanninella, una giovane che lavora nel bar del padre. Ma l’amore dei due è contrastato: la madre di Tore non è favorevole alla storia del figlio con una popolana e l’amico Carluccio, anch’egli innamorato della ragazza, trama col padre della giovane perché questi non la dia in sposa a Tore. Quando il padre di Nanninella muore accidentalmente, Carluccio incolpa Tore e lo fa arrestare. In una serie di sviluppi altamente melodrammatici la ragazza accetta di sposare Carluccio per scoprire l’innocenza di Tore, di cui è a conoscenza Gennariello. Nanninella ottiene la confessione da Carluccio che però l’accoltella. La donna muore tra le braccia di Tore. Anche in Fantasia ’e surdate, ambientato a Roma, Giggi, il protagonista, soffre per la perdita della donna amata che lo lascia. Quando l’uomo, che vive con la madre e il fratello Gennariello, inizia una nuova relazione sentimentale, sembra tornare a nuova vita. Ma la donna è una poco di buono e la storia viene contrastata dalla famiglia. Giggi ruba i risparmi e se ne va di casa. Gli snodi successivi sono assai spericolati: il protagonista si suicida, la seconda fidanzata accusa Gennariello della morte del fratello, Gennariello va in carcere, poi in guerra, ecc. Alla fine la fidanzata rivela la verità alla polizia e incredibilmente si riappacifica con la vecchia madre.
In anni abbastanza recenti il melodramma è stato riabilitato negli studi accademici sia in ambito teatrale che cinematografico per la sua capacità di rendere evidenti le contraddizioni dei valori borghesi, in particolare le dinamiche all’interno del nucleo familiare nell’epoca, a seconda dei casi, della rivoluzione industriale o del capitalismo. In questo contesto, l’eccesso stilistico e l’eccesso delle emozioni della forma melodrammatica andrebbero a iscrivere, proprio per la loro manifesta visibilità (e ovvietà), un atto di riflessività, di critica ai valori rappresentati. In un genere come il family melodrama hollywoodiano degli anni ’50, per esempio, queste strategie producono uno iato incomponibile tra il desiderio dei soggetti e le richieste del simbolico. Ma grazie a procedure di messa in scena particolari, la maggior parte dei film esalta le prerogative antisociali dei personaggi. Anche se questi personaggi trasgressivi escono sconfitti e perdenti, è per loro che lo spettatore ha grande empatia. Politiche testuali e reazioni spettatoriali non registrano alcuna differenza di gender. Il family melodrama partecipa infatti a ridisegnare i rapporti tra maschile e femminile attuati dal cinema del decennio: negli schermi americani degli anni ’50 il soggetto maschile subisce una sorta di femminilizzazione e, come la donna, viene rappresentato in tutta la sua fisicità ed eroticità (Pravadelli 2007).
Se da un punto di vista formale il cinema di Elvira Notari rientra pienamente nel melodramma, mi sembra che in esso manchi questa qualità trasgressiva. L’esito è a mio avviso dovuto all’assenza di qualsiasi elemento «storico» e trasformativo. In Notari è forte la percezione che i valori della cultura napoletana rappresentati siano eterni e senza tempo, legati a una tradizione consolidata che va difesa e mantenuta. La presenza ossessiva e costante dei luoghi veri di Napoli – strade, piazze e il lungomare – e di feste popolari, come la sfilata di Montevergine che apre e chiude È piccerella, connotano fortemente il gesto identitario di Notari ma contribuiscono anche a costruire quella «veridicità» locale, immune al cambiamento, che si coglie in ogni momento. La passione e il tradimento, così come l’attaccamento alla madre e il senso dell’onore familiare, sono sentimenti e comportamenti opposti, ma ugualmente radicati, e costituiscono le due facce della stessa medaglia: l’uno dà il senso dell’altro. La tradizione e l’identità napoletana sembrano poter sussistere solo in questa forma arcaica, primordiale. In questo scenario è ovvio che le prerogative di emancipazione per la donna siano assenti: in uno spazio che rifiuta la modernità, ovvero la possibilità di concepire l’esistenza come trasformazione e cambiamento, il soggetto femminile – e anche quello maschile, a ben vedere – rimane intrappolato in forme di vita statiche e immutabili. L’immagine della madre dominante, e che pretende l’amore incondizionato dei figli maschi, allontana il cinema di Notari dalle esperienze femminili più moderne del tempo.