La nascita della filosofia (cfr. Nbb 1) – in Grecia, nel VI secolo a.C. – è uno degli eventi più decisivi nella storia dell’uomo. Si può dire addirittura che sia il più decisivo, se ci si rende conto che il modo in cui la filosofia si è presentata sin dal suo inizio sta alla base dell’intero sviluppo della civiltà occidentale, e che le forme di questa civiltà dominano ormai su tutta la terra e determinano perfino gli aspetti più intimi della nostra esistenza individuale. La filosofia greca apre lo spazio in cui vengono a muoversi e ad articolarsi non solo le forme della cultura occidentale, ma le istituzioni sociali in cui tali forme si incarnano, e infine il comportamento stesso delle masse. Arte, religione, matematiche, e indagini naturali, morale, educazione, azione politica ed economica, ordinamenti giuridici vengono ad essere avvolti da questo spazio originario; e il cristianesimo e il linguaggio con cui la civiltà occidentale esprime il mondo; e gli stessi grandi conflitti della storia dell’Occidente: tra Stato e Chiesa, borghesia e proletariato, capitalismo e comunismo.
In genere si pensa che a determinare una grande epoca storica non possa essere la filosofia (che è il lavoro di una élite ristretta, vissuta sempre al di fuori dei luoghi dove si decidono le sorti del mondo), ma movimenti che abbiano una presa immediata sulle masse, come la religione, e, per quanto riguarda la nostra civiltà, il cristianesimo. Dicendo che la filosofia greca apre lo spazio dove giocano le forze dominanti della nostra civiltà non intendiamo confondere lo spazio col gioco che vi si conduce, ma rilevare che ogni gioco della nostra civiltà – e ormai ogni gioco della terra – vien fatto all’interno di tale spazio e ne resta determinato così come i nostri movimenti sono condizionati dallo spazio fisico in cui veniamo a trovarci.
Certo, il cristianesimo ha un rapporto diretto con le masse occidentali (lo stesso discorso può essere fatto per il linguaggio che esse parlano) che la filosofia non possiede; ma il cristianesimo è divenuto ciò che esso è solo in quanto la sua struttura concettuale portante è costituita dallo spazio originariamente aperto dal pensiero greco. Anche il modo in cui noi oggi parliamo è determinato dalle riflessioni sintattico-grammaticali che agli albori dell’età moderna presiedono alla formazione delle lingue nazionali europee; ma, ancora una volta, quelle riflessioni hanno la loro origine (attraverso la grande mediazione della cultura latina) nei grammatici greci che analizzano il fenomeno del linguaggio alla luce delle categorie della filosofia greca. E un discorso analogo va fatto per la scienza, il cui apparato concettuale non è certo familiare alle masse, ma i cui effetti sono ormai percepibili da chiunque.
La civiltà occidentale si presenta oggi come civiltà della tecnica, ossia come organizzazione dell’applicazione della scienza moderna all’industria. È da questa organizzazione che i popoli privilegiati - ossia quelli che l’hanno costruita - ricevono tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere (e forse in futuro questo potrà accadere per tutti i popoli del pianeta); ma è ancora questa organizzazione ad avere predisposto le condizioni dell’annientamento della razza umana in seguito ad una catastrofe nucleare. La situazione mondiale contemporanea è cioè incomprensibile se non si fa riferimento all’incidenza e all’incombenza su di essa da parte della tecnica; e la tecnica è a sua volta incomprensibile se non viene pensata in relazione alla scienza moderna. Ma è la filosofia, e precisamente la filosofia nella sua forma classica, cioè greca ad aver aperto lo spazio all’interno del quale è stato possibile costruire ciò che chiamiamo “scienza moderna”.
Tutti i parti sono dolorosi. A volte la partoriente muore dando alla luce la propria creatura. La nascita della scienza moderna viene comunemente interpretata come un distacco traumatico, una separazione violenta della scienza dalla filosofia. Ed è certamente difficile contestarlo. Ma il difetto di questa interpretazione è di non aver occhi che per i dolori del parto e per la morte della partoriente, facendo così perdere di vista che, innanzitutto, ciò con cui si ha a che fare è un parto, dove la partoriente, anche se soffre e muore, consegna la propria essenza al nuovo essere per il quale essa muore, ma nel quale tuttavia essa sopravvive.
La filosofia nasce grande. I primi passi della sua storia non sono cioè l’incerto preambolo a un più maturo sviluppo del pensiero, ma stabiliscono i tratti fondamentali del suo intero decorso storico. Per decine e decine di millenni l’esistenza dell’uomo – globalmente e in ogni suo singolo aspetto – è guidata dal mito. Il mito non intende essere una invenzione fantastica, bensì la rivelazione del senso essenziale e complessivo del mondo. Anche nella lingua greca il significato più antico della parola mýthos è “parola”, “sentenza”, “annunzio”; a volte mýthos significa persino “la cosa stessa”, “la realtà”. Solo in modo derivato e più tardo, nella lingua greca mýthos indica la “leggenda”, la “favola”, la “fola”, il “mito”.
Ma il mito arcaico è sempre collegato al sacrificio, cioè all’atto col quale l’uomo si conquista il favore degli dèi e delle forze supreme che, secondo la rivelazione del mito, regnano nell’universo. Il sacrificio può essere cruento, oppure del tutto incruento come nelle pratiche ascetiche dello Yoga; ma in ogni caso il suo intento è di identificarsi e di dominare ciò che nel mito appare come la potenza suprema.
Per la prima volta nella storia dell’uomo, i primi pensatori greci escono dall’esistenza guidata dal mito e la guardano in faccia. Nel loro sguardo c’è qualcosa di assolutamente nuovo.
Appare cioè l’idea di un sapere che sia innegabile; e sia innegabile non perché le società e gli individui abbiano fede in esso, o vivano senza dubitare di esso, ma perché esso stesso è capace di respingere ogni suo avversario. L’idea di un sapere che non può essere negato né da uomini, né da dèi, né da mutamenti dei tempi e dei costumi. Un sapere assoluto, definitivo, incontrovertibile, necessario, indubitabile.
I primi pensatori hanno chiamato questo sapere con antiche parole della lingua greca – le quali hanno quindi assunto da quel momento un significato inaudito. Queste parole sono: sopbia, logos, alétheia, epistéme. Se vogliamo tradurle esse corrispondono rispettivamente a “sapere”,’“ragione”, “verità”, “scienza”. Ma queste parole ci dicono poco (o troppo) se non le poniamo in relazione a quel significato inaudito. Quanto alla parola philosophía (“filosofia”), che però compare nella lingua greca insieme a ciò di cui essa è il nome, essa significa, appunto, alla lettera (philo-sophía) “aver cura del sapere”. Se si accetta l’ipotesi che in sophós, “sapiente” (su cui si costruisce il termine astratto sophía), risuona, come nell’aggettivo saphés (“chiaro”, “manifesto”, “evidente”, “vero”), il senso di pháos, la “luce”, allora “filosofia” significa aver cura per ciò che, stando nella “luce” (al di fuori cioè dell’oscurità in cui stanno invece le cose nascoste – e alétheia, “verità”, significa appunto, alla lettera, “il non esser nascosto”) non può essere in alcun modo negato. “Filosofia” significa “l’aver cura della verità”, dunque – dando anche a quest’ultimo termine il significato inaudito dell’“assolutamente innegabile”.
I Greci evocano per primi il significato inaudito l’“idea’’, si è detto sopra – della verità. Ciò non vuol dire che essi si accontentino di contemplare questa idea senza preoccuparsi di stabilire quale sia la verità – quali tratti abbia il suo volto. Si vuol dire che per poter affermare quali sono i tratti della verità è necessario che innanzitutto stia dinanzi agli occhi il senso indicato dalla parola “verità”; e i Greci per primi hanno guardato questo senso e si sono messi in cammino per stabilire che cosa può essere detto verità.
Ma già all’inizio di questo cammino la filosofia vede che il mito non è verità innegabile (non è qualcosa di saphés, come dice Senofane, uno dei primi pensatori greci), ma è soltanto una leggenda in cui si crede. Poiché, d’altra parte, la fede nel mito è la regola secondo la quale sono vissute tutte le civiltà precedenti (e la società stessa in cui la filosofia nasce), la critica filosofica del mito diventa inevitabilmente una critica della società.
Nei primi pensatori greci l’evocazione del senso inaudito della verità è insieme (e non può non essere) un rivolgersi alla Totalità delle cose. Tuttavia, anche dal punto di vista storico, questa affermazione può essere rovesciata e si può affermare che la filosofia nasce quando, nel VI secolo a.C., i pensatori greci si rivolgono per la prima volta alla Totalità delle cose e questo rivolgersi al Tutto è insieme l’evocazione del senso inaudito della verità. Tentiamo di vedere più da vicino questa implicazione reciproca tra verità e Tutto.
Anche il rivolgersi al Tutto presenta, all’inizio del pensiero filosofico, un senso inaudito.
Nel mito greco, la Teogonia di Esiodo (cfr. Nbb 2) racconta come tutti gli dèi siano stati generati dal Caos originario. Nella lingua greca matura, per esempio quella di Platone, la parola cháos significa “mescolanza”, “magma”, “disordine”. Il contrapposto di ciò che viene indicato dalla parola cháos, così intesa, è il kósmos (“cosmo”, “mondo”). Kósmos è l’insieme delle cose che è uscito dal disordine del cháos.
Eppure queste due parole hanno un significato più originario. Cháos – limitiamoci per ora a questa parola – significa innanzitutto l’immensità dello spazio originario, l’apertura immensa, cioè non misurabile, illimitata. Tutti gli dèi e tutti i mondi si generano al suo interno. Il cháos è la dimensione più ampia che il mito greco sia riuscito a pensare. Ciò che gli manca, per possedere il significato filosofico del Tutto, è il motivo in base al quale poter escludere che qualcosa si trovi al di fuori di esso (cfr. cap. IV, § 1, a). Questo criterio manca anche a tutta la sapienza orientale (comprese le parti più antiche del Vecchio Testamento) che, prima della filosofia, parla del “Tutto”.
Se nelle civiltà più antiche il rapporto dell’uomo all’Immenso è più familiare – e forse si può addirittura sostenere che sia lo sfondo costante di ogni pratica quotidiana –, invece noi oggi, nella nostra esistenza quotidiana, non riflettiamo mai sul “Tutto” come tale: ci occupiamo di cose e di ambiti particolari, ed è a cose ed ambiti particolari che si dirige la nostra riflessione: l’ambiente fisico e sociale in cui viviamo, il lavoro, gli svaghi, gli affetti, il mondo che ci si manifesta nel sentimento religioso, il nostro corpo e la successione di piacere e di dolore che in esso avvertiamo.
Eppure queste cose e ogni altra – altri mondi e altri dèi − si trovano insieme in un’unica regione, costituita appunto dalla Totalità delle cose: essa contiene il presente, il passato, il futuro, le cose visibili e quelle invisibili, corporee e incorporee, il mondo umano e quello divino, le cose reali e quelle possibili, i sogni, le fantasie, le illusioni e la veglia, il contatto con la realtà, le delusioni; ogni vicenda di mondi e universi, ogni nostra speranza.
Con la nascita della filosofia il pensiero, per la prima volta, attraversa senza lasciarsi distrarre l’infinita ricchezza delle cose: rivolgersi al Tutto vuol dire percorrere l’estremo confine, al di là del quale non esiste niente, e riuscire a scorgere il raccogliersi insieme delle cose più differenti e più antitetiche: il loro raccogliersi in una suprema unità.
Sul senso del “niente” e dell’“unità” si dovrà ritornare (cfr., rispettivamente, § Il e §§ 6-8) per scorgere il criterio, di cui si parla qui sopra, che consente al senso filosofico del “Tutto” di escludere un residuo che rimanga al di fuori di esso. Intanto, è possibile mettere in luce l’implicazione reciproca tra verità e Tutto, dalla quale ha preso le mosse questo paragrafo. L’evocazione del senso inaudito della verità implica che ci si rivolga non a questa o a quella dimensione particolare della realtà, ma al Tutto, per chiedere quale sia la verità innegabile. Solo se ci si porta agli estremi confini del Tutto è possibile imbattersi in essa. Se invece ci si rivolge a una parte del Tutto, privilegiata rispetto alle altre, e questa presume di contenere la verità innegabile, è sempre possibile che l’irruzione di altre parti smentisca il sapere che si era costituito guardando esclusivamente a quella prima parte privilegiata. E viceversa: quando i primi pensatori greci si rivolgono al Tutto, è perché la verità innegabile non è tale relativamente a questa o a quella dimensione particolare della realtà, ma relativamente all’estremo confine del Tutto. Questo significa che il Tutto è il contenuto della verità innegabile. Non nel senso che i Greci si propongano di dar fondo all’immensa ricchezza dell’universo, ma nel senso che scoprono il confine inoltrepassabile, all’interno del quale sono oltrepassati tutti i confini cui l’indagine dell’uomo riesce a pervenire.
In altre parole, se il nucleo della filosofia è l’idea della verità innegabile (cioè di un sapere incontrovertibile, necessario, che né dèi né uomini possono smentire), la presenza di questa idea consente di prendere le distanze e infine di negare ogni forma di sapere o di conoscenza (e quindi ogni forma di vita) che possa essere smentita, negata, superata, corretta. Con la sua nascita, la filosofia mette in luce l’infondatezza, ossia la negabilità di tutto il sapere da cui la vita dell’uomo era stata fino allora guidata. Scoprendo l’idea della verità, la filosofia, pertanto, conduce per la prima volta tutte le cose dinanzi alla verità. Sino al momento in cui la filosofia si mostra sulla terra, la totalità delle cose si trova invece raccolta e guardata – e insieme lasciata sullo sfondo – dal mito, che ancora non è riuscito a scorgere la pura essenza della verità e non può quindi nemmeno escludere che oltre l’immensità del cháos si estendano altri universi imprevisti e imprevedibili. Rivolgendosi per la prima volta alla verità innegabile e scorgendo così la non-verità del mito, la filosofia nega che il mito abbia verità, non solo in relazione a questa o a quella cosa, ma in relazione a tutte le cose, così che, per la prima volta nella storia dell’uomo, alla totalità delle cose è consentito apparire nella verità.
Sin dall’inizio la filosofia è l’interesse portato al Tutto, che appare nella verità. Il nucleo costantemente presente nella storia della filosofia non è allora costituito solamente dall’idea della verità – cioè dall’apparire della pura essenza della verità –, ma dalla relazione tra l’apparire della pura essenza della verità e l’apparire della totalità delle cose: il nucleo è, appunto, l’apparire del Tutto nella verità. Ciò che abbiamo chiamato l’“idea” della verità è la verità stessa, in quanto si mostra nei suoi tratti più ampi e decisivi (cioè nella sua pura essenza): l’incontrovertibilità, necessità, assolutezza, immodificabilità del sapere.
Aristotele chiama “fisici” e “fisiologi” i primi pensatori greci. Nel suo linguaggio, la “fisica” (cioè la scienza studiata dai “fisici”) ha come oggetto quella parte del Tutto che è la realtà diveniente (sia essa realtà corporea, o biologica, o psichica), oltre la quale esiste la realtà immutabile di Dio. La “fisica” aristotelica (e, a maggior ragione, la fisica moderna) non è scienza del Tutto. Anche se questa interpretazione di Aristotele della nascita della filosofia è spiegabile in relazione al modo in cui si configura la filosofia aristotelica, tuttavia il rendersi conto che nei primi pensatori greci la cura della verità è insieme un rivolgersi al Tutto, richiede che non si possa accettare la tesi aristotelica secondo la quale la filosofia al suo inizio è semplicemente una “fisica”. Poiché la parola “metafisica” sarà usata, nel linguaggio filosofico successivo, per indicare il rivolgersi della filosofia al Tutto, oltrepassando il sapere limitato al mondo fisico, è più aderente alla situazione reale dire che i primi pensatori greci sono dei “metafisici” e anzi i primi metafisici. Questo, qualora la parola “metafisica” (usata inizialmente da Andronico, editore delle opere di Aristotele, nel I secolo a.C. per indicare gli scritti che, nell’edizione, venivano “dopo” quelli destinati alla fisica) sia appunto intesa come il rivolgersi al Tutto, andando oltre quella dimensione particolare del Tutto che è costituita dalla realtà diveniente. Se per Aristotele la filosofia incomincia come “fisica”, il carattere “metafisico” di questo inizio è invece riconosciuto da Hegel.
Il termine “fisica” è costruito sulla parola phýsis, che i latini (e poi le lingue nazionali europee) hanno tradotto con “natura”. Se si sta alla definizione aristotelica di “fisica” dove phýsis è appunto la realtà diveniente – allora tradurre phýsis con “natura” è del tutto legittimo, perché nel termine latino natura risuona innanzitutto il verbo nascor (“nasco”, “sono generato”), sì che la “natura” è appunto il regno degli esseri che nascono (e quindi muoiono), ossia di ciò che, appunto, diviene.
Ma quando i primi filosofi pronunciano la parola phýsis, essi non la sentono come indicante semplicemente quella parte del Tutto che è il mondo diveniente. Anche perché è la parola stessa a mostrare un senso più originario, che sta al fondamento di quello presente ad Aristotele. Phýsis è costruita sulla radice indoeuropea bhu, che significa essere, e la radice bhu è strettamente legata (anche se non esclusivamente, ma innanzitutto) alla radice bha, che significa “luce” (e sulla quale è appunto costruita la parola saphés). Nascendo, la filosofia è insieme il comparire di un nuovo linguaggio, ma questo linguaggio nuovo parla con le parole vecchie della lingua greca e soprattutto con quelle che sembrano più disponibili ad essere dette in modo nuovo. Già da sola, la vecchia parola phýsis significa “essere” e “luce”, e cioè l’essere, nel suo illuminarsi.
Quando i primi filosofi chiamano phýsis ciò che essi pensano, non si rivolgono a una parte o a un aspetto dell’essere, ma all’essere stesso, in quanto esso è il Tutto che avvolge ogni parte e ogni aspetto; e non si rivolgono all’essere, in quanto esso si nasconde e si sottrae alla conoscenza, ma all’essere che si illumina, che appare, si mostra, e che in questa sua luminosità è assolutamente innegabile. In questo rivolgersi alla phýsis, cioè al Tutto che si mostra, la filosofia riesce a vedere il Tutto nel suo esser libero dai veli del mito, ossia dai tratti alteranti che questo velamento conferisce al volto del Tutto. Per la filosofia, liberare il Tutto dal mito significa che il Tutto non è ciò che resta suscitato dalla forza inventiva del mito, bensì è ciò che da sé è capace di mostrarsi e di imporsi, proprio perché riesce a mantenersi manifesto e presente. E il Tutto non mostra di contenere ciò che il mito racconta (le teogonie e le vicende degli dèi e del loro rapporto con gli uomini), bensì mostra il cielo stellato e il sole e la terra e l’aria, e l’acqua dei mari e dei fiumi, e le azioni e i traffici dei popoli e tante altre cose ancora, che il filosofo si trova davanti e si propone di penetrare e comprendere. La filosofia (la “cura per il luminoso”) si presenta sin dall’inizio come il lasciar apparire tutto ciò che è capace di rendersi manifesto e che pertanto si impone (e non è imposto dalla fantasia mitica), ossia è verità incontrovertibile: phýsis.
L’affermazione di Aristotele che la scienza dei primi pensatori è una “fisica” può essere espressa anche dicendo che tale scienza è una “cosmologia”, cioè una scienza del “cosmo”. Si è già accennato sopra (§ 3) che, come la parola cháos, anche la parola kósmos ha un significato originario che illumina il senso della presenza di tale parola nel più antico linguaggio filosofico. Quando si intende kósmos come “ordine” e “cosmo” (cioè mondo ordinato, in contrapposizione al disordine del cháos),ci si trova già oltre quel significato originario. Anche qui è la radice indoeuropea di kósmos a dare l’indicazione più importante. Tale radice è kens. Essa si ritrova anche nel latino censeo, che, nel suo significato pregnante, significa “annunzio con autorità”: l’annunziare qualcosa che non può essere smentito, il dire qualcosa che si impone. Ci si avvicina al significato originario di kósmos, se si traduce questa parola con “ciò che annunziandosi si impone con autorità”. Anche l’annunziarsi è un modo di rendersi luminoso. Nel suo linguaggio più antico, la filosofia indica con la parola kósmos quello stesso che essa indica con la parola phýsis: il Tutto, che nel suo apparire è la verità innegabile e indubitabile.
Si può così comprendere perché la filosofia non abbia tardato a chiamare sé stessa epistéme. Se noi traduciamo questa parola con “scienza”, trascuriamo che essa significa, alla lettera, lo “stare” (stéme) che si impone “su” (epí) tutto ciò che pretende negare ciò che “sta”: lo “stare” che è proprio del sapere innegabile e indubitabile e che per questa sua innegabilità e indubitabilità si impone “su” ogni avversario che pretenda negarlo o metterlo in dubbio. Il contenuto di ciò che la filosofia non tarda a chiamare epistéme è appunto ciò che i primi pensatori (ad esempio Pitagora ed Eraclito) chiamano kósmos e phýsis.
Come la fisica moderna (ma già la “fisica” aristotelica) non ha più a che fare col senso della phýsis alla quale pensano i primi filosofi – appunto perché la scienza moderna procede dall’assunto metodico di isolare dal suo contesto quella parte della realtà che essa intende studiare e controllare –, così l’epistéme alla quale si riferisce la moderna “epistemologia” non ha più a che fare col senso filosofico dell’epistéme. L’“epistemologia’’è la riflessione critica sulla “scienza” moderna, ossia su quel tipo di conoscenza che ha progressivamente rinunciato a porsi come verità incontrovertibile e si propone come conoscenza ipotetica provvisoriamente confermata dall’esperienza e in grado di operare la trasformazione del mondo più radicale che l’uomo sia mai riuscito a realizzare. E questi sono indubbiamente elementi dell’aspetto per il quale, nella derivazione della scienza dalla filosofia, il parto è un distacco traumatico e doloroso.
Questo distacco della scienza dalla filosofia è già in qualche modo preannunciato dal significato complesso di phýsis, che se nei suoi strati più profondi significa l’illuminarsi, l’apparire dell’essere, esso include però anche il senso del nascere e del crescere. Si può supporre che al significato originario di phýsis tenga dietro quello derivato, perché vi sono dei modi specifici, secondo cui le cose giungono a rendersi manifeste: il nascere ricorrente del sole e della luna, il nascere degli uomini e degli animali, lo spuntare, crescere, sbocciare, fiorire delle piante. Quando non si presta più attenzione al fatto che, attraverso questi modi, le cose giungono a rendersi manifeste e ad imporsi, e si presta invece attenzione ai modi specifici che preparano il loro ingresso nell’apparire, allora la parola phýsis viene usata – come appunto accade in Aristotele – per indicare soltanto l’insieme degli enti costituito da questi modi, e cioè l’insieme dei vari tipi di sviluppo, ossia quella regione particolare dell’essere che è la realtà diveniente.
Non è facile rendersi conto di ciò che vi è di straordinariamente grandioso e inaudito in quel rivolgersi della filosofia alla luminosità della verità innegabile, che è insieme uno scorgere l’estremo confine del Tutto e il niente che vi è oltre esso (ossia il non esservi alcunché oltre di esso). Ma vi è un terzo tratto fondamentale – ed essenzialmente legato agli altri due – del volto che la filosofia mostra fin dall’inizio.
Nell’esistenza guidata dal mito è posta in primo piano la differenza, l’opposizione, l’antitesi, l’incompatibilità e irriducibilità, l’ostilità e estraneità che esistono tra le cose. Anche nel racconto di Esiodo l’immensità del cháos, da cui si generano tutti gli dèi e tutte le fasi del mondo, rimane ben presto sullo sfondo e l’attenzione è attratta dal modo in cui le vicende e le lotte tra i divini abbiano portato alla configurazione attuale del mondo. Nel dissidio tra gli dèi si rispecchia il dissidio che esiste tra gli uomini. L’esistenza mitica, indubbiamente, non interpreta l’universo come un pulviscolo di parti che si urtano e si affrontano tra loro, ma vede delle unità che raccolgono in sé molte cose differenti e anche tra loro contrastanti. La tribù o il clan familiare sono esempi di tale unità. Una tribù è un insieme di individui diversi, di diverse abitazioni, di attrezzi, animali, depositi di cibo, luoghi abitati e frequentati, comportamenti ed eventi molto diversi tra loro. La tribù è l’unità di questo insieme molto diversificato di cose. Ma questa unità è sempre vissuta dai suoi membri umani come contrapposta ad altre unità: le altre tribù più o meno nemiche (e i loro dèi), che sono sentite soprattutto come elementi estranei e inassimilabili. La tribù, e ogni altra forma di unità presente nell’esistenza mitica, è cioè una unificazione parziale delle cose, e il senso stesso di tale unificazione è ambiguo e differenziato.
Ma la filosofia può guardare sino agli estremi confini del Tutto, perché se, attraversando la varietà smisurata delle cose, non si lascia distrarre e catturare da nessuna di esse, tuttavia essa vede che ogni cosa, per quanto diversa dalle altre, ha tuttavia in comune con ogni altra il suo essere una abitatrice del Tutto. Le cose non sono cioè soltanto diverse tra loro, ma anche identiche: ognuna è una abitatrice del Tutto, qualcosa cioè che si mantiene, sia pure in modi diversi, all’interno del Tutto. Ciò vuol dire che la totalità delle cose può mostrarsi alla filosofia solo in quanto, insieme, mostra il tratto identico che ogni cosa, in quanto abitatrice del Tutto, ha in comune con ogni altra cosa, per quanto diversa. Se questa identità delle cose diverse non si mostrasse, le cose diverse non potrebbero mostrarsi come “totalità delle cose”: di volta in volta si mostrerebbe questa o quella parte del Tutto, ma non il Tutto che in sé le tiene raccolte.
Eraclito dice appunto: «Tutte le cose sono uno». Sono cioè l’identità in cui restano unificate tutte le loro differenze: l’identità del diverso.
Forse il lettore può pensare che stiamo troppo indugiando sull’inizio del pensiero filosofico, quando la strada da percorrere è molta. Eppure questo inizio contiene in forma pregnante tutto ciò che nella storia del pensiero filosofico andrà rendendosi esplicito. Per quanto riguarda l’identità del diverso, essa è addirittura la sostanza della “dialettica” hegeliana – la sostanza cioè del nucleo del pensiero che sta al termine dello sviluppo storico della filosofia.
Ma le cose, almeno quelle del mondo, sono abitatrici del Tutto e non restano ferme e invariate, ma si muovono, variano, nascono e muoiono, si generano e si corrompono, vengono e vanno. Ed ecco un quarto tratto fondamentale del nucleo originario del pensiero filosofico.
Le cose che nascono non provengono da una dimensione che si trovi al di là del Tutto, e, morendo, non vanno a finire oltre i confini estremi del Tutto (e il “nascere” e il “morire” siano intesi nel loro significato più ampio, quello per cui, ad esempio, si parla anche del nascere e del morire delle stelle). Le cose sono abitatrici del Tutto, non solo nel senso che si trovano in esso, ma nel senso, più forte, che l’origine da cui vengono e il termine ultimo a cui, andandosene, pervengono, stanno essi stessi nel Tutto.
Le piante spuntano e si protendono nell’aria provenendo dalla terra; e alla loro morte ritornano nuovamente alla terra. In qualche modo, esse esistono già nella terra prima di spuntare, e, in qualche modo, esse continuano a esistere nella terra anche dopo essere marcite. La terra tiene già raccolte e continua a tenere raccolte in sé stessa tutte le piante che sono visibili nell’aria; le tiene raccolte in una unità che, stando sulla superficie del terreno, non si lascia vedere.
Questa metafora può chiarire in che senso le cose che abitano il Tutto vengano da un’unità e ritornino in una unità, che non solo si trova essa stessa nel Tutto, ma è anzi il centro del Tutto, così come la terra è il centro da cui si irraggiano nell’aria le infinite ramificazioni arboree.
“Centro di irraggiamento”, “punto dominante”, “principio”, “origine”: tutti termini, questi, con i quali si può esprimere il senso della parola arché (usualmente tradotta con “principio”), che sin dall’inizio è stata pronunciata dai primi pensatori greci (sembra per la prima volta da Anassimandro) per indicare l’unità da cui tutte le cose provengono e in cui tutte ritornano. Eraclito, infatti, non afferma soltanto che «tutte le cose sono uno», ma anche che «da tutte le cose l’uno, e dall’uno tutte le cose». Il Tutto include sia l’“uno’’sia “tutte le cose”, ma nell’“uno” stanno già e tornano a trovarsi raccolte “tutte le cose” che da esso provengono e a esso ritornano. Così come quel tutto, che è l’insieme della terra e delle piante protese nell’aria, include sia la terra sia le piante protese nell’aria, ma la terra contiene già in sé, originariamente unificate, tutte le piante che si protendono nell’aria, e le raccoglie di nuovo in sé, quando esse muoiono e marciscono.
Dall’uno provengono le differenze (cioè le molte cose differenti tra loro). Per i primi pensatori greci l’uno, da cui le differenze provengono, è la stessa “identità del diverso” di cui si è parlato nel precedente paragrafo. Il processo del differenziarsi dell’uno coincide così con l’unità (= identità) delle differenze. Il divenire (la generazione) delle cose è cioè lo stesso costituirsi della differenza delle cose, a partire dall’uno. La differenza (tra le cose) esiste soltanto nel differenziarsi (delle cose – a partire dall’uno). Ancora una volta, appunto, questo sarà il concetto della “differenza”, che al termine dello sviluppo storico della filosofia si ripresenterà in modo del tutto esplicito nel pensiero hegeliano. D’altra parte, in questo modo, vengono identificati due concetti che non sono immediatamente identici: il concetto di ciò che vi è di identico in ognuna delle cose diverse (ossia l’identità o unità del diverso), e il concetto dell’unità da cui tutto viene e in cui tutto ritorna. E tuttavia questa identificazione risulta pienamente comprensibile se si presta attenzione alla circostanza che i primi filosofi tendono a identificare ciò che vi è di identico nelle cose diverse e ciò da cui le cose sono costituite (ossia ciò di cui son fatte, la loro “sostanza” o “materia” o “elemento”); sì che ciò che vi è in esse di identico è la stessa unità da cui esse, formandosi, provengono e in cui, dissolvendosi, ritornano: così come l’acqua del mare è sia ciò che tutte le onde hanno di identico, sia ciò da cui esse, formandosi, provengono e in cui esse ritornano quando si dissolvono.
Ciò da cui le cose vengono e in cui esse vanno a finire non sta al di là degli estremi confini del Tutto, perché al di là di tali confini vi è niente. Aristotele avverte appunto che i primi pensatori considerano come verità l’affermazione che dal niente si genera niente. Il “principio” (= l’arché)da cui le cose si generano e in cui si corrompono non è quindi a sua volta generabile e corruttibile, ma è eterno. Viene anche chiamato “il divino”, che “avvolge e governa” tutte le cose. Sin dal suo inizio, il pensiero filosofico stabilisce, così, il modo in cui l’intero sviluppo della filosofia si rivolgerà a “Dio”.
L’arché, dunque, non solo è ciò che vi è di identico nelle cose diverse, e non solo è la dimensione da cui provengono e in cui esse ritornano, ma è anche la forza che determina il divenire del mondo, ossia è il “principio” che, governando il mondo, lo produce e lo fa ritornare a sé. Anche se Aristotele trascura questa circostanza – lo si riscontra anche nel passo aristotelico analizzato nel paragrafo successivo – il modo in cui i primi pensatori parlano della phýsis induce a ritenere che, per essi, non solo le cose non si generano dal niente e non ritornano nel niente, ma il divenire stesso delle cose (il processo del loro generarsi e corrompersi) è messo in movimento non dal niente, ma da una forza – il “divino” – che, appunto, “governa” tutte le cose. Per ritornare all’immagine sopra introdotta, l’acqua del mare non è solo ciò da cui provengono e in cui ritornano le onde, ma è anche il vento, ossia ha in sé anche la forza del vento che forma le onde.
Abbiamo richiamato tutti gli elementi principali che consentono di comprendere uno dei testi fondamentali in cui la filosofia indica il senso del proprio inizio. Si tratta di un passo del libro I della Metafisica di Aristotele.
Rifacendosi a coloro che agli inizi “hanno filosofato intorno alla verità”, Aristotele dice: «La maggior parte di coloro che per primi filosofarono ritennero che i principi di tutte le cose fossero soltanto quelli di specie materiale. Essi chiamano infatti “elemento” [stoichéion] e “principio” [arché] degli enti ciò da cui tutti gli enti sono costituiti, e ciò da cui essi derivano originariamente e in cui si corrompono da ultimo, in quanto è una sostanza che permane mentre le sue affezioni vanno variando. È per questo motivo, ossia è perché questa realtà [phýsis] si conserva sempre, che essi ritengono che nulla si generi e nulla si distrugga».
In questo passo si dice dunque:
1. Coloro che per primi filosofano si rivolgono alla verità.
2. Il loro rivolgersi alla verità è, insieme, un rivolgersi alla totalità degli enti.
3. In questo rivolgersi al Tutto essi pensano l’elemento (stoichéion) da cui tutte le cose sono costituite, ossia l’identità del diverso.
4. Ma l’identità del diverso è insieme, per essi, il “principio” (arché) da cui le cose si generano e in cui si dissolvono per essi, cioè, l’“elemento’’ degli enti è insieme il loro “principio”.
5. Questa identificazione di “elemento” e “principio” è espressa dalla parola phýsis, che nomina entrambi.
6. Questa identificazione tra l’identità del diverso (l’“elemento”) e il “principio” è spiegata dalla circostanza che il “principio” è, per i primi pensatori, la “materia” da cui tutti gli enti sono costituiti e che quindi è ciò che vi è di identico in ognuno di essi.
7. “Conservandosi sempre”, la phýsis è eterna e i singoli enti che si trasformano sono le “affezioni” della phýsis (come le onde sono le “affezioni” dell’acqua del mare).
8. Poiché la phýsis (cioè l’essere) è eterna e solo le sue affezioni si trasformano, questa trasformazione porta ad affermare che non vi è nulla che si generi e perisca del tutto. Ma, come altrove Aristotele rileva, l’affermazione dell’eternità della phýsis si basa sull’assioma che dal nulla non si genera nulla. Questo punto 8 e il prossimo verranno approfonditi nel § 11.
9. I primi pensatori si rivolgono alle cose considerate come “enti”: per essi l’“elemento” e il “principio” sono elemento e principio degli “enti”.
10. Rimane da chiarire perché Aristotele si riferisca alla maggior parte di coloro che per primi filosofarono e non a tutti. (Intanto, si può dire che l’eccezione è costituita da Parmenide.)
Prima di chiarire il senso di quella riserva di Aristotele, va richiamato un quinto tratto fondamentale del primo pensiero filosofico.
Si è già accennato nel § 2 al rapporto tra il mito e il sacrificio. Nell’esistenza guidata dal mito, l’uomo considera il sacrificio come il mezzo più potente di cui egli dispone per dominare il mondo. Col sacrificio riesce infatti a ottenere il favore delle forze divine che regnano sul mondo. Tutte le capacità e abilità che consentono all’uomo di sopravvivere, tutti gli strumenti, le armi, i manufatti di cui egli dispone perdono ogni efficacia se non sono accompagnati dal sacrificio. Una grande flotta che trasporta l’esercito dei Greci sta salpando per Troia. Ma alloro capo Agamennone tutta questa formidabile macchina di guerra sembra insufficiente senza il favore degli dèi, ed egli sacrifica loro la propria figlia primogenita per il buon esito della spedizione. Il mito rivela la natura delle forze divine che regnano sul mondo e i rapporti che esistono tra loro e con i mortali. li mito è lo sfondo su cui prende senso il sacrificio, anche quando quest’ultimo si presenta come preghiera rivolta al divino, ossia come convinzione che nelle imprese umane il fattore decisivo è il favore degli dèi.
Scoprendo che il mito non ha verità, la filosofia scopre insieme che il mito è una guida fallace dell’esistenza e che solo la verità può essere la guida sicura. Per agire in modo veramente efficace sulla natura e sugli uomini è necessario conoscere la verità sul mondo, e ciò è possibile lasciando parlare le cose del mondo, senza imporre loro un senso fabbricato dall’uomo, ma lasciando che esse stesse si impongano per la loro verità. Anche se il mito è vissuto, nell’esistenza da esso guidata, come un lasciar parlare le cose, agli occhi della filosofia il mito appare invece come un “produrre” (e cioè come “poesia”, giacché la parola greca póiesis significa, insieme, “produzione” e “poesia” che impone alle cose un senso loro estraneo e che quindi svia chi, guardando tale senso, pensa di poter ottenere ciò che egli si prefigge. La “produzione” mitica (“poetica”) del senso del mondo impedisce la produzione reale.
Lógos (che normalmente viene tradotta con “ragione”) è la parola greca che, sin dall’inizio del pensiero filosofico, nomina quel lasciar parlare le cose senza imporre loro un senso estraneo, ma lasciando che esse) manifestandosi, si impongano. Eraclito dice appunto: «Non dando ascolto a me, ma al Lógos, è saggio [sophón] convenire che tutte le cose sono uno». Ed è ancora Eraclito ad affermare che «la sophía è dire cose vere e farle». E ancora: «Non bisogna agire e parlare come dormienti» – e quindi innanzitutto come quei dormienti che orientano la loro esistenza conformandosi al mito. E ancora: «Bisogna seguire il comune. Pur essendo comune il lógos, i molti vivono come se avessero una loro saggezza privata». La “saggezza privata” è appunto quella del mito: il mito è una pluralità di miti (e quindi di gruppi umani) tra loro contrapposti. Invece il “comune” è il lógos, perché il lógos, lasciando parlare le cose (che, manifestandosi, s’impongono su ogni “saggezza privata”), è comune a ogni uomo e ogni uomo deve seguirlo se non vuole agire nel sogno, ma nella veglia.
Proprio perché la sophía è dire e fare cose vere, la filosofia delle origini stabilisce la forma di ciò che sarà chiamato “etica” (“morale”) e “scienza”. Sono infatti entrambe un agire che intende farsi guidare dalla verità. La scienza moderna, quando nasce, è ancora guidata da questa intenzione. Solo a partire dalla fine del secolo scorso la scienza moderna si rende conto che per rendere il mondo il più possibile conforme ai nostri progetti è necessario abbandonare la pretesa di conoscere la verità del mondo – la “verità”, intesa nel senso forte che essa presenta nel pensiero filosofico. In questo senso, la scienza ritorna al mito e la filosofia è una parentesi nella lunga storia del mito. Una parentesi che tuttavia ha deciso le sorti della nostra civiltà; non solo, ma che rimane pur sempre la dimensione all’interno della quale la scienza continua a mantenersi.
a) Verità, filosofia, dolore.– Come conoscenza della verità, la filosofia intende essere il fondamento che consente di dominare veramente il mondo, cioè di agire in modo veramente efficace su di esso. Ma dominare il mondo significa mettersi nella condizione di sopportare il dolore e di liberarsi dall’angoscia che esso produce. Quando il dolore è insopportabile e l’angoscia opprime, non c’è la forza e la potenza di dominare le cose e gli eventi; quando questa potenza si esprime, l’uomo è riuscito a contenere il dolore e a liberarsi dall’angoscia. La potenza è salvezza, e la salvezza è potenza. Ma la potenza e la salvezza offerte dal mito non hanno verità. Come fondamento del vero dominio del mondo, la filosofia, sin dalla sua nascita, intende essere il fondamento della vera potenza e della vera salvezza dell’uomo.
Questa intenzione acquista un particolare rilievo nel pensiero tragico, ossia in ciò che comunemente viene inteso come un genere letterario – la tragedia attica (cfr. Nbb 3) – che andrebbe distinto dal pensiero filosofico. Il pensiero tragico, soprattutto quello di Eschilo (525/4-456 a.C.), è invece lo stesso pensiero filosofico in quanto vede nella verità il vero rimedio contro il dolore e l’angoscia.
Si tratta ora di comprendere che il significato del dolore e dell’angoscia al quale si riferisce il pensiero filosofico è essenzialmente connesso al modo in cui la filosofia, sin dall’inizio, pensa l’“essere”, il “nulla”, il “divenire”.
b) In che senso le cose sono salve e in che senso non sono salve dal niente. – I primi filosofi, rileva Aristotele (cfr. § 9), condividono l’assioma che dal nulla non si genera nulla, ossia che gli enti non si generano dal niente. Questo significa, innanzitutto, che essi pensano l’ente e il niente. Per la prima volta nella storia dell’uomo, la filosofia, e sin dal suo inizio, pensa la contrapposizione infinita tra ciò che è (l’ente) e il niente (il nulla, il non essere). Pensa il niente e lo pensa come lontananza infinita dall’ente, come privazione assoluta, totale mancanza di essere. Prima della filosofia, le parole “ente” (“essente”) e “niente” non hanno questo significato radicale: il “non essere” è inteso come una privazione relativa di essere. Prima della filosofia il “non essere” è pur sempre un qualcosa che manca, è privo di qualcos’altro. La filosofia, invece, e per la prima volta, pensa il “non essere” come assoluta mancanza di ogni qualcosa e di qualsiasi forma di positività. li niente sta al di là degli estremi confini del Tutto (cfr. § 3), nel senso che al di là di tali confini non vi è niente. Il Tutto è la totalità dell’ente.
È appunto a questo significato radicale del “niente” che i primi filosofi si rivolgono, quando affermano che dal niente non si genera niente – ex nihilo nihil fit, traducono i latini. Il niente è assoluta privazione di ente, e quindi non può generare l’ente. Gli enti del mondo sono generati da quell’Ente supremo che è l’arché – e in esso, corrompendosi, ritornano. L’arché «si conserva sempre», dice Aristotele nel passo sopra richiamato (cfr. § 9). Traducendo con maggior precisione, si deve dire: l’arché «è sempre salvo». Sempre salvo dal niente. Nascita e morte riguardano le cose del mondo, cioè gli enti divenienti: uomini, animali, piante, città e mondi. La nascita e la morte è, per essi, il provenire e il ritornare nell’arché.
In questo senso, per i primi filosofi, non vi è nulla che si generi e che perisca del tutto: appunto perché l’arché è ciò che avvolge e costituisce tutte le cose divenienti, è il loro “principio” e il loro “elemento” (la loro sostanza, visto che “sostanza” significa “ciò che sta sotto” e “sorregge”). In qualche modo la salvezza dell’arché – la salvezza dal niente è la salvezza di tutte le cose.
E tuttavia le cose del mondo nascono e muoiono. L’arché è la loro unità e identità, la loro sostanza, ma esse, anche, differiscono dall’arché: escono e si allontanano da essa, ed è appunto in questo loro essere separate da essa che le cose sono soggette alla nascita e alla morte.
Ma la filosofia vede nascita e morte con occhi nuovi. Proprio perché incomincia a pensare la contrapposizione infinita tra l’essere e il niente, la filosofia pensa la nascita e la morte cioè, in generale, il divenire del mondo – ponendole in relazione al niente. Per la prima volta nella storia dell’uomo, “nascere” significa “uscire dal niente” e “morire” significa “ritornare nel niente” – dove il niente è l’abisso senza fondo in cui è assente ogni forma dell’essere. Questo modo di intendere il divenire, evocato per la prima volta dalla filosofia greca, non solo rimane alla base dell’intera cultura occidentale, ma è lo spazio in cui cresce l’intera storia dell’Occidente.
Per ritornare, dunque, ancora una volta alla metafora, sopra introdotta (cfr. § 8), del movimento ondoso (cioè del divenire del mondo), non vi è nulla che si generi e si distrugga, perché l’acqua (la sostanza) che costituisce ogni onda rimane (cioè “si conserva sempre”, “è sempre salva”); ma, insieme, la configurazione specifica di ogni onda (fuor di metafora: la configurazione specifica di ogni essente), cioè l’onda in quanto onda (l’onda, in quanto si costituisce separandosi in qualche modo dalla sostanza acquea) non rimane, non si conserva sempre, non è sempre salva, ma nasce e muore ed è estremamente effimera.
Fuor di metafora, nel divenire del mondo, la sostanza (l’arché)degli enti che divengono è sempre salva dal niente e in questo senso non vi è nulla che si generi e perisca del tutto (ex nihilo nihil fit), ma la configurazione specifica degli enti che divengono nasce e muore, esce dal niente e vi ritorna. Gli enti escono dall’arché vi ritornano, relativamente alla loro sostanza; ma, insieme, escono dal niente e vi ritornano, relativamente alla loro configurazione specifica, cioè in quanto sono “affezioni” (come dice Aristotele, cfr. § 9) o modi della sostanza.
c) Il divenire, l’angoscia e la previsione. – La vicenda della nascita e della morte – e, in generale, il divenire del mondo – è sempre stata imprevedibile. Anzi, per l’uomo è l’imprevedibile stesso. E l’imprevedibile è la radice dell’angoscia. L’angoscia riguarda il futuro. Il dolore che si patisce non angoscia. È subìto. Il dolore produce l’angoscia (come si è detto all’inizio di questo paragrafo), perché ci si angoscia per la possibilità che esso abbia a continuare, cioè perché non si conosce che cosa tiene in serbo il futuro – perché non si sa prevedere. Se si è incapaci di prevedere, il dolore non ha senso e l’angoscia diventa insopportabile. La previsione, dunque, dà senso al dolore e rende sopportabile l’angoscia.
Ma quando la filosofia pensa il divenire, evoca la forma estrema dell’angoscia. Per la filosofia, infatti, il divenire degli enti è il loro uscire dal niente e il loro rientrarvi, e nulla è più imprevedibile e quindi più angosciante di ciò che esce dal niente. E se la morte compendia in sé ogni dolore, il dolore della morte diventa a sua volta estremo quando la morte è pensata come il cadere nel niente, da cui la configurazione specifica degli enti non può più fare ritorno. Per il pensiero filosofico, dunque, gli eventi che producono la morte sono eventi (ossia enti) annientanti, che irrompono provenendo dalla assoluta imprevedibilità del niente. La filosofia, come pensiero del niente, evoca la forma estrema del dolore e dell’angoscia. E la tragedia greca è la forma più potente di questa evocazione.
Ma la filosofia – e lo stesso pensiero tragico – è anche il rimedio contro il pericolo che essa stessa ha portato alla luce. Infatti, se l’angoscia scaturisce dall’imprevedibilità del futuro, e se la previsione dà senso al dolore e rende sopportabile l’angoscia, la filosofia, come conoscenza della verità del Tutto – cioè come conoscenza vera che vede l’arché da cui tutti gli enti si generano e in cui si corrompono –, si presenta come la Previsione suprema che scorge il Senso del mondo.
La filosofia è la Previsione suprema, perché al Senso del mondo, indicato dalla filosofia, devono adeguarsi tutte le cose e tutti gli eventi, anche quelli futuri. La filosofia intende infatti indicare il vero Senso del mondo, al quale, dunque, nulla può sfuggire («Come è possibile sfuggire a ciò che non tramonta?», dice Eraclito), e quindi prevede l’essenza di tutto ciò che può accadere.
Questa Previsione essenziale libera dunque dall’angoscia e rende sopportabile il dolore. E quindi dà all’uomo la vera potenza sul mondo. Anche il mito conferisce al mondo un senso che avvolge tutti gli eventi, anche quelli futuri. Gli uomini vivono nel mito per poter sopravvivere e liberarsi dall’angoscia per l’imprevedibile. Ma il senso che il mito conferisce al mondo non è il vero senso del mondo, e quindi il mito è una previsione non vera, che solo apparentemente libera dall’angoscia. La filosofia, come Previsione del vero Senso del Tutto – e cioè come visione del permanere dell’arché e della sostanza di tutte le cose che nascono e muoiono –, è la prima grande forma di rimedio che l’Occidente ha preparato per liberare dall’angoscia suscitata dal pericolo estremo l’uscire delle cose dal niente e il ritornarvi – che lo stesso pensiero filosofico ha per la prima volta evocato.
Oggi, la forma dominante di rimedio è l’organizzazione scientifico-tecnologica dell’esistenza dell’uomo; ma anche questa forma di rimedio si riferisce a quello stesso pericolo che la filosofia, nascendo, ha portato alla luce. È in questo senso che la filosofia predispone lo spazio in cui cresce l’intera civiltà occidentale e, ormai, l’intera storia della Terra.
1. Sulle origini della filosofia greca: B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it., Einaudi, Torino 1963; B. Farrington, Scienza e politica nel mondo antico – Lavoro intellettuale e lavoro manuale nell’antica Grecia [1946-47], tr. it., Feltrinelli, Milano 19824; E. Paci, Storia del pensiero presocratico, Eri, Torino 1957; K.R. Popper, Ritorno ai Presocratici [1958], in Id., Congetture e confutazioni, tr. it., Il Mulino, Bologna 1972, pp. 235-285; G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico [1961], tr. it., Sansoni, Firenze 1966; J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco [1962], tr. it., Editori Riuniti, Roma 1984; Id., Mito e pensiero presso i Greci [1965], tr. it., Einaudi, Torino 1978; M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica [1967], tr. it., Laterza, Roma-Bari 1983; G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975; M. Rossi, Le origini della filosofia greca, Editori Riuniti, Roma 1984.
Tra le opere generali sulla filosofia greca: AA.VV., Questioni di storiografia filosofica, a cura di V. Mathieu, La Scuola, Brescia 1975, vol. I; AA.VV., La filosofia antica, in Storia della filosofia, a cura di M. Dal Pra, Vallardi, Milano 1976, voll. III e IV; F. Adorno, La filosofia antica, Feltrinelli, Milano 1975,2 vol.; A.H. Armstrong, Introduzione alla filosofia antica, tr. it., Il Mulino, Bologna 1983; G. Calogero, Storia della logica antica. L’età arcaica, Laterza, Bari 1967; G. Cambiano, La filosofia in Grecia e a Roma, Laterza, Roma-Bari 1983; G. De Ruggiero, La filosofia greca (1918), Laterza, Roma-Bari 19743, 2 voll.; O. Gigon, Problemi fondamentali della filosofia antica, tr. it., Guida, Napoli 1983; Th. Gomperz, Pensatori greci [1893-1909], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1967, 4 voll.; G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano 19875 [I ed., ivi, 1975], 5 voll.; L. Robin, Storia del pensiero greco [1923], tr. it., Einaudi, Torino 1951, Mondadori, Milano 1978; M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 1989; E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1932 sgg.
Tra le opere di carattere bibliografico sulla filosofia greca: F. Adorno, Il pensiero greco. Orientamenti bibliografici, Laterza, Bari 1969; F. Adorno, Il pensiero greco-romano. Orientamenti bibliografici, Laterza, Bari 1970.
2. Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) fu, insieme a Omero, il punto di riferimento principale per la morale e la religiosità dei Greci. A Esiodo la tradizione attribuiva un insieme di opere concatenate tra loro, sulla paternità delle quali sono stati sollevati dubbi sin dall’antichità. Sicuramente esiodee sono comunque la Teogonia (un poema che narra la generazione degli dèi dal Caos originario) e Le opere e i giorni (un poema nel quale Esiodo espone, prendendo spunto da una contesa con il fratello Perse a proposito di un’eredità, una serie di precetti morali e di considerazioni generali intorno alla giustizia e alla vita umana).
Della Teogonia cfr. la tr. it. di C. Pavese, con testo greco a fronte, Einaudi, Torino 1981; o quella di G. Arrighetti, sempre con testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 1984. Delle Opere e i giorni quella di L. Magugliani, con testo greco a fronte e con una introduzione di W. Jaeger, Rizzoli, Milano 1979. Cfr. anche le Opere di Esiodo, a cura di A. Colonna, Utet, Torino 1977.
Su Esiodo e, più in generale, sul mito: B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it., Einaudi, Torino 1963 (su Esiodo, in particolare, cfr. le pp.70-87); W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 1-27; G.S. Kirk, La natura dei miti greci, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1977 (su Esiodo, in particolare, pp. 115 sgg.); J-P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci, tr. it., Einaudi, Torino 1978 (su Esiodo soprattutto le pp. 15-90); Id., Mito e società nell’antica Grecia, tr. it., Einaudi, Torino 1981 (su Esiodo soprattutto le pp.173-191); Id., Le origini del pensiero greco, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1976; M. Detienne (a cura di), Il mito. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1976.
3. La tragedia attica è una delle massime espressioni letterarie e filosofiche della grecità classica. Eschilo (525/4-456 a.C.), Sofocle (497/6-406/5 a.C.) ed Euripide (485/4-406 a.C.) sono i tre autori maggiori. Scrissero tutti e tre numerose tragedie. Del primo rammentiamo la trilogia dell’Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi), Il Prometeo incatenato, I Persiani, Le supplici, I sette a Tebe, del secondo le tragedie del ciclo tebano (Antigone, Edipo re, Edipo a Colono); di Euripide Medea, le Troiane, le Baccanti. L’interesse del pensiero filosofico per la tragedia greca è indicato, in particolare, da Aristotele (che dedica alla tragedia gran parte del primo libro della Poetica) e da Nietzsche (che fa della tragedia uno degli assi portanti del suo pensiero; si vedano, in particolare, La nascita della tragedia e La filosofia nell’epoca tragica dei Greci).
In traduzione italiana si veda Il teatro greco. Tutte le tragedie, a cura di C. Diano, Sansoni, Firenze 1970. Cfr. anche Eschilo, Orestea, tr. it. di M. Valgimigli, Rizzoli, Milano 1980; Sofocle, Antigone, Edipo re, Edipo a Colono, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 1982; Euripide, Medea, Troiane,Baccanti, a cura di V. Di Benedetto, Rizzoli, Milano 1982 (tutti e tre con testo greco a fronte).
Sulla tragedia: M. Untersteiner, Le origini della tragediae del tragico [1942], Cisalpino, Milano 1984; M. Pohlenz, La tragedia greca, Paideia, Brescia 1961, 2 voll.; A. Beje (a cura di), La tragedia greca. Guidastoricae critica, Laterza, Roma-Bari 1974; E. Severino, Interpretazione e traduzione dell’Orestea di Eschilo, Rizzoli, Milano 1985; Id., Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano 1989.
Tra i primi pensatori greci Parmenide occupa una posizione particolare. Traccia un solco che divide quanti lo precedono da quanti lo seguono non solo lungo la storia della filosofia antica, ma lungo l’intera storia del pensiero filosofico. Questo, anche se non sempre ci si renderà conto della presenza decisiva di questo pensatore. Egli porta alla luce un problema (cfr. cap. VI, § 1) alla cui soluzione è impegnata esplicitamente tutta la filosofia antica, da Empedocle, Anassagora, Democrito a Platone e Aristotele e al neoplatonismo. La stessa filosofia dell’età cristiana medioevale può essere considerata come una conseguenza del modo in cui il pensiero filosofico ha avviato la soluzione di quel problema.
Da questo punto di vista, comprendere il rapporto di Parmenide con i pensatori che l’hanno preceduto e seguito nella storia della filosofia antica significa riuscire a scorgere il baricentro e il significato essenziale e unitario di tale storia. Nel passo riportato nel § 9 del capitolo I, Aristotele si riferisce alla “maggior parte” e non a tutti “coloro che per primi filosofarono”, appunto perché Parmenide (e i suoi discepoli Zenone e Melisso) si rivolge alla verità del Tutto – cioè alla phýsis, all’identità del diverso e all’assioma che dal nulla non si genera nulla – in modo profondamente diverso da quello di tutti coloro che per primi filosofarono (cfr. cap. IV).
Non solo, ma mentre tutti costoro sono, per Aristotele, dei “fisici”, che, pur intendendo stabilire i principi del Tutto, sanno scorgere per altro solo quelli materiali e quindi restringono di fatto la loro indagine solamente a una parte del Tutto, viceversa Parmenide è, per Aristotele, l’unico pensatore che, prima di Platone, non possa essere considerato come un “fisico” e la discussione col quale debba essere esplicitamente condotta dal punto di vista della scienza del Tutto, che Aristotele chiama “filosofia prima” e che poi sarà chiamata “metafisica”.
Rivolgendosi sin dall’inizio al Tutto – si è già detto –, la filosofia vede ogni cosa raccolta nel Tutto. Non si limita a vedere la diversità tra le cose, ma riesce a scorgere, insieme, la loro identità. Per quanto diverse, opposte tra loro, tra loro incompatibili, le cose appartengono tutte alla comune regione del Tutto e, per questa appartenenza, ogni cosa è identica a ogni altra. Il sole non è la luna (differisce da essa), ma entrambi stanno nel Tutto e, per questo stare, il sole non differisce dalla luna, ma le è identico. Si può pensare la totalità delle cose solo se si scorge la loro identità: l’identità del diverso, l’identità del molteplice. Questa identità è appunto ciò che raccoglie e unifica i differenti nella comune regione del Tutto.
Ma proprio perché, sin dall’inizio della sua storia, la filosofia si rivolge al Tutto e quindi scorge l’identità del diverso, proprio per questo i primi filosofi si trovano di fronte al problema (che non è ancora quello di Parmenide, cui abbiamo accennato sopra) di stabilire in che consista l’elemento unificatore delle cose, ossia in che consista, appunto, quell’identità dei diversi, che consente il loro raccogliersi nella suprema unità del Tutto, il loro essere abitatori del Tutto. Il problema non è se esista l’elemento unificato re – giacché il Tutto può star dinanzi manifesto, solo se le cose molteplici e differenti si mostrano raccolte in una essenziale unità – ma in che consista tale elemento. È il problema della determinazione dell’elemento unificatore, che, per quanto si è detto nel § 8 del capitolo I, è insieme il problema della determinazione dell’arché (ossia del “principio” da cui le cose provengono e in cui ritornano).
Per Talete (cfr. Nbb 1) – che la tradizione considera come il primo filosofo (prima metà del VI sec. a.C.) – l’elemento unificato re e il principio di tutte le cose è l’“acqua”. Se l’attenzione viene concentrata su quest’ultima parola, l’inizio storico della filosofia non può che apparire deludente e rudimentale. Ma in questo modo ci si dimentica dell’orizzonte da cui è suscitato il problema della determinazione dell’elemento unificatore e dell’arché delle cose. La grandezza di Talete – o del clima mentale di cui probabilmente questo nome è simbolo – è data appunto dall’interesse per quell’orizzonte, ossia dall’interesse per il Tutto, liberato dal mito e mostrantesi come unificazione suprema del diverso.
Ci si può chiedere quali motivi abbiano condotto Talete a porre l’“acqua” come elemento unificatore e principio: motivi che possono essere stati di carattere biologico o chimico (ad esempio l’aver constatato che il nutrimento dei viventi è umido e così il seme da cui si generano; o che l’“acqua” può assumere lo stato liquido, come quello solido e aeriforme, ecc.), o che possono derivare da reminiscenze mitiche (già per Omero l’autore di ogni generazione è Oceano). Ma non è indugiando su questi aspetti che si coglie il senso autentico della più antica filosofia.
Se invece si rivolge l’attenzione all’orizzonte che ci siamo preoccupati di mettere in luce, cioè al contesto all’interno del quale Talete determina la phýsis come “acqua” (affermare che l’elemento unificatore è l’“acqua”, e cioè che tutte le cose sono “acqua”, significa affermare che ciò da cui esse si generano e in cui si corrompono è qualcosa di unitario – sì che tutte le cose sono identiche, nel senso che sono tutte costituite da una comune sostanza originaria), ci si mette in condizione di comprendere che l’“acqua’’di cui parla Talete non è l’acqua sensibile in cui ci si bagna e che si beve: l’acqua sensibile – intesa cioè nel significato ordinario della parola – è infatti soltanto una delle molte e diverse cose dell’universo, e in quanto è soltanto una tra le molte non può essere ciò che vi è di identico in ognuna di esse, e quindi non può essere nemmeno il principio unitario (l’arché)da cui tutte derivano. L’“acqua’’si presenta in tal modo come una metafora che non riesce a sopportare il peso di ciò che essa intende esprimere.
a) L’ápeiron. – Ponendo l’“acqua’’come sostanza identica di tutte le cose, Talete mostra di non intenderla come una realtà particolare e sensibile (appunto perché “acqua” sono anche il sole, la terra, il cielo e tutte le altre cose che non hanno le caratteristiche dell’acqua sensibile). Il concetto di “acqua” non è pertanto in grado di contenere ciò che già Talete intende pensare mediante esso: pensa ciò che vi è di identico in ogni diverso, e questa identità la esprime con un termine che indica pur sempre – nonostante ogni intenzione contraria – una cosa diversa dalle altre e quindi particolare, limitata. Un diverso – ossia una cosa particolare e limitata, che, in quanto tale, differisce dalle altre – non può essere ciò che vi è di identico in ogni diverso.
Appunto in quest’ultima affermazione consiste il passo innanzi compiuto da Anassimandro (prima metà del VI sec. a.C.; cfr. Nbb 1) rispetto a Talete, di cui è stato forse discepolo. Anassimandro afferma infatti che l’arché di tutte le cose è l’ápeiron. Alla lettera, questa parola significa “non limitato”, “non finito”, “non particolare”. L’ápeiron è l’infinito, l’illimitato, l’immenso.
Se stiamo al linguaggio del passo aristotelico sopra riportato (cap. I, § 9) dove la parola phýsis indica, insieme, il “principio” e l’“elemento’’(cioè l’arché e lo stoichéion), per Anassimandro la phýsis non può essere costituita da qualcosa di limitato, ma è l’illimitato. Proprio perché la phýsis è, insieme, l’elemento unificato re e il principio, le ragioni che portano Anassimandro oltre Talete sono date anche dalla presenza più o meno esplicita, nei primi pensatori, dell’assioma che” dal nulla non si genera nulla”. Se infatti tutto ciò che si genera deve in qualche modo preesistere nella realtà o sostanza originaria (altrimenti si genererebbe dal nulla), l’“acqua’’ non può essere la dimensione in cui sono originariamente contenute tutte le cose. Tale dimensione non può essere un che di finito e di limitato; sì che, dovendo “tutto avvolgere e tutto sorreggere”, essa è, appunto, l’infinito.
Aristotele, riferendosi probabilmente ad Anassimandro, rileva la necessità di affermare che l’infinito è ingenerato e incorruttibile: ciò che nasce e muore è limitato, e pertanto ciò che sta al di fuori di ogni limite – l’ápeiron, appunto non nasce, non muore e “non invecchia”.
b) Il divenire. – La generazione dell’universo è generazione dei contrari: della notte e del giorno, del caldo e del freddo, della guerra e della pace, della vita e della morte. L’ápeiron contiene quindi in sé ogni contrarietà e opposizione: esso è l’originaria unità degli opposti.
Ma, nel processo della generazione cosmica (della quale per altro non si vede l’inizio e il termine, e pertanto è essa stessa eterna), la generazione di uno dei contrari impedisce la generazione dell’altro, o ne provoca il dissolvimento: il giorno, sopraggiungendo, dissolve la notte, e viceversa; e, così, ogni cosa che nasce ne porta altre al disfacimento e alla distruzione, e a sua volta è condotta al disfacimento dalla nascita di altre.
Mentre nella dimensione eterna e incorruttibile dell’ápeiron “divino” tutte le cose e quindi tutte le opposizioni sono eternamente raccolte, unificate e custodite, invece nell’“ordine del tempo” – tale è il mondo del divenire, ossia il processo della genesi cosmica – la nascita di ogni cosa è una prevaricazione sulle altre e quindi un”’ingiustizia”. Il prevaricante “paga il fio della propria ingiustizia”, andando distrutto per opera di altri prevaricanti, ossia ritornando all’unità originaria dell’ápeiron.
Lo sviluppo dell’universo (che almeno per gli animali ha il carattere di una evoluzione, la cui prima fase è costituita dall’elemento liquido) è pertanto un processo di “separazione” dall’unità originaria di tutte le cose; ma questa separazione è pur sempre governata da quell’unità, ossia dall’ápeiron da cui ogni cosa proviene e in cui ogni cosa ritorna. La separazione dall’unità originaria si mantiene cioè all’interno di quella unità di tutte le cose che la filosofia, sin dal suo inizio, vede ormai definitivamente come lo sfondo ultimo e inoltre passabile di ogni processo. Il Tutto divino – ossia ciò che Anassimandro chiama il “governo” dell’ápeiron – contiene e unifica la stessa separazione dell’universo dall’originaria unità divina. E questa unità, a sua volta, è appunto ciò che mantiene sotto il suo governo tutte le cose che, nella generazione dell’universo, si vanno separando da essa. I grandi temi e problemi del pensiero occidentale sono già tutti presenti nelle poche parole che ci rimangono della filosofia di Anassimandro.
Sennonché il concetto di ápeiron è soltanto negativo. L’identità, ossia il principio del diverso, non può essere un diverso (cioè una delle diverse cose): questo è ormai acquisito. Ma dunque, in che consiste questa identità e questo principio? Che cos’è ciò che vien posto come ápeiron? Che cos’è il non-limitato, il non-finito, il non-particolare?
A queste domande incomincia già a rispondere Anassimene (tra la prima e seconda metà del VI sec. a.C.; cfr. Nbb 1) – che anzi, verosimilmente, per primo le ha suscitate. Ma la risposta deve essere in grado di tener fermo il passo innanzi di Anassimandro su Talete (la phýsis non può essere qualcosa di limitato), indicando nel contempo la determinazione in cui l’ápeiron consiste – e cioè indicando ciò che consente di rispondere alla domanda: “Che cos’è l’ápeiron?”. Si tratta dunque di indicare ciò che, pur essendo ápeiron, è in grado di divenire tutte le cose. Si può anche dire che mentre in Anassimandro l’ápeiron è il soggetto dell’affermazione che ne pone l’esistenza, in Anassimene emerge la consapevolezza della necessità di stabilire quale sia il soggetto di cui l’ápeiron è il predicato.
Ma va aggiunto che, per la prima volta, Anassimene porta alla luce la necessità di rivolgersi alla causa che determina la trasformazione dell’arché in tutte le cose – la” causa” che Aristotele chiama “efficiente”. Sino a che il “principio” (l’arché) è inteso soltanto come la sostanza o la materia che costituisce tutte le cose (ossia ciò che Aristotele chiama “causa materiale”), non è possibile sapere quale sia la “causa” che determina il processo della genesi cosmica. È vero che già Anassimandro parla del “governo” delle cose da parte dell’áipeiron, ma, anche qui, si tratta di stabilire in che consista questo “governo”.
Per Anassimene il “governo” dell’ápeiron, cioè la “causa” che determina la trasformazione dell’ápeiron in tutte le cose del mondo, è la condensazione e rarefazione dell’“aria”, Ossia è l’“aria” il soggetto che ha come predicato l’ápeiron.
Ma anche qui – e anzi qui a maggior ragione che in Talete – l’“aria” di cui parla Anassimene non è un elemento sensibile particolare (contrapposto cioè all’acqua, alla terra e alle altre cose) L’“aria’’, dice Anassimene, avvolge tutto nello stesso senso in cui “la nostra anima” (il “soffio vitale”) ci sorregge. Infatti l’“aria” è qualcosa di “incorporeo” (= invisibile). Ogni corpo è finito, quindi l’ápeiron deve essere quell’incorporeo che è l’“aria’’. Rarefacendosi, l’“aria’’origina il fuoco; condensandosi, origina l’acqua e la terra; e fuoco, acqua e terra originano a loro volta tutte le singole cose. Nella rarefazione e condensazione l’aria diventa corporea e cioè visibile. Invisibile e incorporea essa è in quanto unità originaria infinita.
Ma riportando il senso dell’“aria” all’“anima che ci governa”, Anassimene rende esplicito quanto vi era di implicito nell’affermazione di Anassimandro che l’ápeiron governa tutte le cose. Tale governo esige che l’ápeiron non sia qualcosa di cieco e di insensibile, ma un principio conoscente e vivo.
1. Talete, Anassimandro e Anassimene operarono a Mileto, sulle coste dell’Asia Minore e la tradizione fa di loro gli iniziatori della storia della filosofia occidentale.
Talete, in particolare (stando a quanto riferisce Diogene Laerzio [III sec. d.C], autore di una preziosa Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi) «era uno dei sette sapienti [...] e per primo fu chiamato sapiente» (DK, 11A1 [per la numerazione dei frammenti dei presocratici cfr. più sotto]). Le testimonianze lo presentano come un uomo dai molteplici interessi: si occupò di politica, di studi naturalistici, di astronomia («fu il primo a studiare i corpi celesti e a predire le eclissi del sole e i solstizi», ibidem), di matematica. Non ci è pervenuto alcun frammento delle sue opere e, anzi, «secondo alcuni non lasciò nessun’opera» (ibidem).
Anassimandro fu, pare, discepolo di Talete. Della sua opera Perì physeos (= Intorno alla natura. È il titolo ricorrente degli scritti dei presocratici) ci resta un unico frammento, tramandatoci da Simplicio (VI sec. d.C.), che costituisce il primo testo pervenutoci della più antica filosofia greca. Anche Anassimandro, come Talete, fu una personalità poliedrica: si occupò di politica, di ricerche naturalistiche, di geografia («per primo ardì disegnare su una carta la terra abitata», DK, 12A6) e di astronomia. Tra le altre cose, gli viene attribuito un modello cosmologico in base al quale «la terra è librata in alto, non è sostenuta da niente e rimane sospesa perché ha uguale distanza da ogni cosa. Ha la forma ricurva, sferica, simile a una colonna di pietra: delle sue superfici l’una è quella sulla quale noi ci muoviamo, l’altra sta dalla parte opposta» (DK, 12A11). Anassimene fu discepolo di Anassimandro, e scrisse un trattato Perì physeos (del quale possediamo tre frammenti) usando «un dialetto ionico semplice e non ricercato» (DK, 13A1).
I frammenti dei filosofi di Mileto si leggono in: Ionici. Testimonianze e frammenti, a cura di A. Maddalena, La Nuova Italia, Firenze 1963 [rist., ivi, 1970], oltre che nelle raccolte generali dei frammenti dei presocratici citate qui di seguito.
Su di loro: R. Laurenti, Introduzione a Talete, Anassimandro, Anassimene, Laterza, Roma-Bari 19862 [1971], che comprende anche un’ampia bibliografia critica; M. Heidegger, Il detto di Anassimandro [1946], in Id., Sentieri interrotti, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 299-348; E. Severino, La parola di Anassimandro [1963], in Id., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 391-411.
I frammenti dei filosofi presocratici sono raccolti in H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker [1903], Berlino 1951-526, 3 voll. È d’uso citare i frammenti da questa edizione (abbreviata in DK) indicando con un primo numero il capitolo che riguarda ciascun filosofo; con una lettera maiuscola il fatto che si tratti di una testimonianza indiretta (A), di un frammento autentico (B) o di un’imitazione (C); con un secondo numero il numero progressivo assegnato a quel particolare frammento nella raccolta. Tutto il materiale del Diels-Kranz è stato tradotto da vari specialisti in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 19863, 2 voll. (da questa traduzione sono tratte tutte le citazioni dei presocratici presenti in queste note). Un’altra traduzione dei frammenti da tenere presente è quella curata da A. Pasquinelli, I Presocratici. Frammenti e testimonianze, Einaudi, Torino 1976 (che arriva però solo sino alla filosofia eleatica). Una diversa raccolta dei frammenti (con traduzione italiana a fronte) era stata avviata da G. Colli ne La sapienza greca, Adelphi, Milano 1977 sgg. [rist., ivi, 1990 sgg.], ma la morte del curatore ha impedito che si andasse oltre Eraclito.
La filosofia di Anassimene non è dunque una semplice variazione di quella di Talete. E tuttavia il suo tentativo di stabilire che cosa sia l’ápeiron non sa ancora liberarsi da una prospettiva dove l’universale (ossia ciò che vi è di identico in ogni cosa diversa) vive ancora confuso col particolare. È vero che l’“aria” è intesa come “anima”, ma l’“anima” è a sua volta intesa come un “soffio”. Non solo, ma i concetti di “rarefazione” e “condensazione” sono intelligibili soltanto se vengono riferiti all’aria come elemento sensibile e corporeo. Anche qui: l’“aria” di cui parla Anassimene è una metafora che non sa reggere il peso di ciò che essa intende indicare, e che questa volta è un peso ancora maggiore di quello che grava sulla metafora di Talete.
La domanda: “Che cos’è l’ápeiron?” rimane ancora senza risposta. Il pensiero di Eraclito e quello di Parmenide possono essere intesi come i segmenti fondamentali di questa risposta.
a) L’opposizione. – Considerando il modo di procedere di Talete, Anassimandro, Anassimene, noi siamo autorizzati ad affermare che essi pensano l’identità degli opposti e i problemi suscitati da questo concetto. Eraclito (tra il VI e il V secolo a.C.; cfr. Nbb 1), invece, non solo pensa, ma riflette esplicitamente sull’identità degli opposti ed esplicitamente ne parla; sì che per esporre il suo pensiero non c’è bisogno di introdurre termini ed espressioni che egli non abbia effettivamente pronunciato. Inoltre, anche se in quello che ci rimane di Eraclito manca un riferimento al nome di Anassimandro, di Anassimene e di Talete, il pensiero di Eraclito si trova tuttavia in un costante colloquio con quello di Anassimandro.
«Tutte le cose sono uno», dice Eraclito. Per quanto diverse e opposte, si raccolgono in una suprema unità; ossia, pur nella loro diversità e opposizione, sono identiche (hanno cioè qualcosa di identico). Questa identità non può essere una cosa particolare e limitata, ossia è l’illimitato, l’ápeiron; e d’altronde si deve stabilire che cosa essa sia (secondo l’esigenza avanzata da Anassimene), Eraclito porta alla luce che l’identità delle cose è il loro stesso esser diverse e opposte, il loro stesso diversificarsi (dalle altre) e opporsi (alle altre); e chiama “guerra” (pólemos) l’opposizione in cui ogni cosa consiste e da cui è generata. Ciò che vi è di identico in ogni cosa è la contrapposizione stessa di ogni cosa alle altre. Ciò che è “comune” a ogni cosa è questa sorta di “contesa”, soltanto nella quale le cose possono diventare e rimanere ciò che sono: se la vita non fosse in contesa, e cioè non si opponesse alla morte, il caldo al freddo, il giorno alla notte, la sazietà alla fame, non esisterebbero vita, caldo, giorno, sazietà. La discordanza, il contrasto, l’opposizione sono lo stesso principio di concordanza, armonia, unità delle cose.
L’identità del diverso – la quale, come ha stabilito Anassimandro, non può essere qualcosa di particolare e quindi è ápeiron – è l’opporsi di ogni cosa alle altre, il suo non esserle altre, il suo essere, appunto, un “diverso”. Questo “non esser l’altro da sé” non è qualcosa di particolare e limitato, che riguardi soltanto alcune cose: il “non esser l’altro da sé” costituisce tutte le cose e cioè è illimitato, ápeiron. Anassimene domanda: «Che cos’è l’ápeiron?». Eraclito risponde: È il «non esser l’altro da sé», ossia è l’opporsi di ogni cosa a tutte le altre.
Eraclito può così riprendere i concetti di “giustizia” e di “ingiustizia” già presenti in Anassimandro. Già Anassimandro intende l’“ingiustizia” come prevaricazione di una cosa sulle altre, ossia come la pretesa, della cosa particolare, di sciogliersi da ogni rapporto e legame con le altre. Eraclito mette in luce come ogni cosa possa essere quello che è solo in quanto si trovi legata alle altre nel rapporto di opposizione; sì che l’opposizione, la contesa, “spegne” la prevaricazione. Si deve dire quindi che “la giustizia è contesa” – appunto perché nel contrasto dell’opposizione, cioè nella guerra universale’rimane negata la “tracotanza” delle singole cose.
Anche per Eraclito la phýsis è sia stoichéion, sia arché: sia l’identità delle cose diverse e opposte (ossia la loro legge e il loro ordine) sia il luogo divino dove tutti gli opposti sono originariamente ed eternamente raccolti e dove la legge delle cose è il contenuto della suprema sapienza del Dio, da cui procede ed è governato il divenire cosmico.
E il divenire delle cose ha una particolare importanza per Eraclito, perché nell’universo visibile è il legame che unisce gli opposti: la pace nasce dalla guerra, la guerra dalla pace, si riscaldano le cose fredde e si raffreddano quelle calde. Anzi, nel divenire, tanto il contrasto e l’opposizione delle cose, quanto l’unità degli opposti si presentano nel modo più manifesto: basta che qualcosa si realizzi, ad esempio la gioventù, che subito il suo contrario la raggiunge e la gioventù precipita nella vecchiaia e vi si identifica. Nel divenire ogni cosa diventa il suo contrario, e in ciò è l’espressione visibile di quell’“armonia nascosta” in cui consiste il Dio come originaria unità degli opposti.
b) L’opposizione e il fuoco. – Ma Eraclito afferma anche che l’universo (il Kósmos) è «fuoco eternamente vivo». Ma proprio questo riferimento al “fuoco” – che sembra esprimere un atteggiamento filosofico ormai oltrepassato da parte di un pensiero che, come quello di Eraclito, è riuscito a portare alla luce che l’opposizione tra le cose è la loro stessa identità – proprio il riferimento al “fuoco” mette in risalto la potente originalità di quel pensiero. Se, ancora, l’ápeiron di Anassimandro è l’identità del diverso, nel senso che, come origine e termine delle cose, esso è insieme la sostanza da cui le cose sono costituite, invece in Eraclito l’opposizione tra le cose (ossia ciò che vi è d’identico in ognuna di esse) non è la sostanza, la “materia” di cui son fatte, ma è il loro ordinamento, la loro legge, che dunque sono ordinamento e legge della sostanza di cui le cose son fatte; ed è appunto questa sostanza (o “materia”) che Eraclito chiama “fuoco”.
Ciò significa che con Eraclito – ma qualcosa di analogo era accaduto con Pitagora – l’identità del diverso si presenta in una prospettiva nuova, che però non elimina, ma riunisce e conserva in sé la prospettiva precedente. Dicendo che «tutte le cose sono uno» Eraclito intende che la sostanza da cui son generate e costituite e in cui ritornano è il “fuoco” (e questa è la permanenza della prospettiva precedente), ma in modo che la costituzione delle cose e il processo in cui esse nascono e muoiono son determinati dall’opposizione tra le cose, cioè dalla” contesa”, che è la legge di ogni cosa e quindi è ciò che vi è di identico in ognuna (e questa è la prospettiva nuova in cui vien considerata l’identità del diverso). In altri termini, il “fuoco” è la sostanza unitaria delle cose regolate dalla legge unitaria della loro opposizione. Si è già visto che nei primi pensatori la phýsis è insieme arché e stoichéion. In Eraclito, è appunto lo stoichéion a presentare a sua volta un duplice aspetto e cioè a presentarsi in una nuova prospettiva che si mantiene unita a quella precedente: la prospettiva nuova dell’identità della legge che regola il costituirsi delle cose, e la prospettiva precedente dell’identità della sostanza o della “materia” (il “fuoco”) da cui le cose provengono e son costituite e in cui ritornano.
c) Verità e opinione. – Eraclito rende inoltre pienamente esplicita la contrapposizione tra la filosofia, come conoscenza della verità, e il comune modo di pensare degli uomini. La legge e l’ordine del Tutto sono una sempiterna “Parola” (Lógos) che si offre all’ascolto di tutti. I più la sentono, ma non sanno ascoltarla. Ogni giorno vi si imbattono e tuttavia non la intendono. Vivono quindi come in sogno, separati come sono da ciò che è “comune”, ossia dalla divina legge del Tutto. Le opinioni secondo cui regolano la vita sono “trastulli di bimbi”: lasciano al di fuori della verità delle cose. Nel loro sogno non comprendono che il contrasto tra le cose è la stessa condizione dell’armonia e dell’unità del Tutto, e non si avvedono che l’eliminazione dei contrasti e delle lotte, che sembrano rendere insopportabile la vita, sarebbe la stessa fine di ogni vita e del Tutto. Specialmente nell’uomo, che ignora l’armonia del contrasto, resta quindi perpetrata l’ingiustizia della prevaricazione: in tale sua ignoranza egli è infatti portato a pensare e a vivere le cose e le situazioni come se fossero isolate e distolte dal contrasto, rendendole quindi prevaricanti e ingiuste.
Il “sapiente” (ma Eraclito pronuncia anche la parola “filosofo”) sta invece in ascolto del Lógos e quindi dice e fa cose vere. Non è colui che conosce un gran numero di cose (Eraclito si riferisce qui esplicitamente a Pitagora), bensì colui che segue la legge di Dio quale è manifesta nel Lógos. Nella sapienza, così intesa, risiede la “suprema virtù”. Per la prima volta, diventa esplicito il concetto che la cura per la verità è la legge fondamentale che deve guidare la vita dell’uomo: la filosofia stabilisce un rapporto essenziale con la vita.
Pitagora (cfr. Nbb 2) conduce all’interno della filosofia il mondo del “numero”, cioè dei rapporti quantitativi esistenti tra le cose. È ancora Aristotele a informarci che per i pitagorici i “numeri” sono principi di tutta la phýsis, e che «gli elementi (stoichéia) dei numeri sono gli elementi di tutti gli enti, sì che tutto l’universo è armonia e numero».
Gli “elementi” del numero sono il “pari” e il “dispari”, ma l’unità è insieme pari e dispari perché genera entrambi questi contrari; il pari e il dispari generano tutti i numeri e i numeri generano infine tutte le altre cose dell’universo, che nel loro ordinamento sembrano immagini dei numeri e loro incarnazioni. Anche se Eraclito non apprezza la “multiscienza” di Pitagora, tuttavia l’unità da cui si generano il pari e il dispari (che costituiscono l’opposizione originaria dell’universo, dalla quale procedono tutte le altre opposizioni) è la stessa separazione dei contrari dall’unità originaria che li contiene, ossia è la stessa separazione di cui parlano Anassimandro ed Eraclito.
Anche Pitagora, come Eraclito, si rivolge al modo in cui il Tutto viene portato alla luce da Anassimandro, per il quale l’ápeiron è appunto l’unità da cui si separano gli opposti in essa preesistenti. Se si pensa che l’opposizione è essenzialmente dualità – un’unità contrapposta a un’altra unità – allora la relazione tra l’ápeiron e il cosmo si presta a essere interpretata come un rapporto fondamentalmente numerico, dove l’uno (o Monade), come principio di tutte le cose, è innanzitutto principio del due (o Diade), ossia dell’opposizione originaria tra pari e dispari, in cui trovano radice tutte le altre opposizioni dell’universo. Pertanto, tutte le cose sono numero, e il numero, come originaria Monade divina, precontiene la pluralità che da esso si genera.
Come “elemento” originario, l’uno è quindi ciò che vi è di identico in ogni cosa. Ogni cosa è cioè un’unità, un uno.
Come Eraclito rileva che ciò che vi è di identico in ogni cosa è il suo non essere l’altro da sé, così Pitagora rileva che ciò che vi è di identico in ogni cosa è il suo essere una unità. Le due tesi sono complementari. Infatti ogni cosa non è l’altro da sé, perché è una unità; e, viceversa, ogni cosa è una unità, perché non è l’altro da sé.
Il processo matematico che sviluppa e conserva l’uno in tutti gli altri numeri ha il compito di indicare il motivo per il quale le cose, pur essendo tutte un’unità, differiscono per altro tra loro. Anche nel pitagorismo, dunque, l’elemento unificatore è sia ciò che vi è di identico in ogni diverso, sia il luogo divino in cui sono originariamente unificate tutte le opposizioni che da esso si generano.
Come l’“aria” di Anassimene (e anche l’“acqua” di Talete) non è un semplice elemento fisico-sensibile, così il “numero” dei pitagorici – in quanto “elemento” di tutte le cose – non è il semplice numero matematico. Ma come le conoscenze meteorologiche consentono ad Anassimene di mostrare come l’“aria” sia il principio unitario delle cose, attraverso un processo di condensazione e rarefazione (e cioè, anche qui, attraverso un’opposizione originaria), così le conoscenze matematiche dei pitagorici consentono loro di mostrare come tutte le cose siano “numero”. Tanto più che, nell’antica matematica pitagorica, i numeri sono intesi non come concetti astratti delle proprietà quantitative degli oggetti, ma come oggetti essi stessi reali, ossia come figure geometriche costituite da punti (onde i pitagorici parlano di numeri triangolari, quadrati, rettangolari, cubici).
Pertanto, come la meteorologia di Anassimene pregiudica la possibilità di qualificare l’ápeiron come “aria” (giacché questo termine esprime pur sempre, nonostante le intenzioni in senso opposto, il riferimento a qualcosa di particolare), così la matematica dei pitagorici non consente di intendere l’ápeiron come “numero”, perché, nonostante l’intenzione di porre il numero come principio universale, esso resta pur sempre un rapporto quantitativo, cioè una determinazione particolare delle cose.
È tuttavia merito dei pitagorici aver sollevato a oggetto di considerazione esplicita il senso dell’“unità’’della “dualità”, della “molteplicità”, che liberate dalla loro ambientazione (e limitazione) matematica, sono determinazioni universali, senza cui non è possibile la comprensione filosofica del Tutto.
Il pitagorico Filolao, contemporaneo di Socrate, ribadisce la natura filosofica del “numero”, affermando che mentre l’“errore” è ostile alla natura del numero, la “verità” è invece propria di tale natura.
1. Eraclito nacque ad Efeso, poco più a nord di Mileto. «Fu altero quant’altri mai e superbo» (DK, 22A1), si tenne lontano dalla vita pubblica e «per insofferenza verso gli uomini [...] visse sui monti, cibandosi di erbe e di piante» (ibidem). Venne soprannominato “l’oscuro”, probabilmente per lo stile aforistico del suo trattato Sulla natura (del quale ci restano numerosi frammenti): Eraclito lo depose «nel tempio di Artemide, avendo deciso intenzionalmente, secondo alcuni, di scriverlo in forma oscura, affinché ad esso si accostassero solo quelli che ne avessero la capacità e affinché non fosse dispregiato per il fatto di essere alla portata del volgo» (ibidem).
I frammenti di Eraclito si leggono in: Eraclito. Testimonianze e imitazioni, a cura di R.Mondolfo e L. Tarán, La Nuova Italia, Firenze 1972; Eraclito. Frammenti, a cura di M. Marcovich, La Nuova Italia, Firenze 1978; Eraclito. I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Mondadori, Milano 19872 [1980]; G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano 19822 [1980], vol. III.
Su Eraclito: R. Laurenti, Eraclito, Laterza, Bari 1974; A. Capizzi, Eraclito e la sua leggenda, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1979; A.M. Battegazzore, Gestualità e oracolarità in Eraclito, Tilgher, Genova 1979; G. Pasqualotto, Il Tao della phýis: Eraclito e il taoismo, in Id., Il Tao della filosofia, Pratiche, Bologna 1989, pp. 19-47.
2. Della vita di Pitagora (nativo di Samo, un’isola posta di fronte alla costa sulla quale sorgono Efeso e Mileto) non si conosce quasi nulla di certo. Già Aristotele non sa niente di preciso sulla persona di Pitagora e parla, globalmente, dei “cosiddetti pitagorici” (Metafisica, 985b). Ciò è dovuto a diverse ragioni: al fatto che Pitagora, pare, non scrisse nulla; all’aura sacrale che, assai presto, circondò la sua persona, favorendo la fioritura di numerose leggende; al carattere collettivo della ricerca nella scuola da lui fondata a Crotone; alla religiosa segretezza che circondava le dottrine pitagoriche. Risulta perciò storiograficamente più corretto riferirsi – con Aristotele – ai pitagorici, più che al singolo Pitagora.
I testi dei pitagorici si leggono in: I pitagorici. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, La Nuova Italia, Firenze 19692 [1958– 1964], 3 voll.
Su Pitagora e i pitagorici: R. Cuccioli Melloni, Ricerche sul pitagorismo. I. Biografia di Pitagora, Bologna 1969.
a) L’essere e il niente. – Già per i primi filosofi la phýsis è l’essere stesso (l’essere, nella sua totalità) che, liberato dalla non-verità del mito e da ogni conoscenza priva di verità, si manifesta nella sua verità e si offre all’ascolto. Ma è Parmenide (VI-V sec. a.C.; cfr. Nbb 1) il primo pensatore che, nella storia dell’uomo, presta ascolto al senso dell’essere conducendolo all’interno di una riflessione e di una testimonianza esplicite. Per questo motivo, riferendoci all’oggetto di chi filosofa prima di Parmenide, abbiamo preferito il termine “cosa” (ad esempio: la totalità delle cose), piuttosto che il termine “essere” o “ente”. Anche il poema di Parmenide, come gli scritti di tutti i primi pensatori greci, è intitolato Sulla phýsis: ma per mostrare appunto, esplicitamente, che la phýsis è l’essere. E il discepolo di Parmenide, Melisso (cfr. Nbb 1), abbandonerà il titolo tradizionale degli scritti filosofici, scrivendo appunto Sulla phýsis o sull’essere.
Il senso dell’essere emerge nella contrapposizione dell’essere al niente. Anche Parmenide, come Eraclito, riflette esplicitamente sull’opposizione, ma egli si rivolge all’opposizione suprema, quella dove i due opposti non hanno alcunché in comune, e cioè quella dove uno dei due opposti – il niente – non è “qualcosa” che possa venire conosciuto e intorno a cui si possa parlare, ma è l’assolutamente niente, l’assoluto non-essere che non trova luogo all’interno dei confini del Tutto.
Proprio perché riesce a pensare il senso assoluto del niente, Parmenide consente alla filosofia di pensare ciò che al mito non era stato possibile: il criterio in base al quale si esclude irrevocabilmente che al di là dei confini del Tutto vi sia ancora qualcosa. Al di là del Tutto non esiste alcunché, perché il Tutto è l’essere, e al di là dell’essere non vi è niente.
Eppure sembra che proprio Parmenide non si avveda che la testimonianza esplicita dell’opposizione assoluta tra essere e niente – e quindi la testimonianza esplicita del senso dell’essere – viene per la prima volta alla luce solo con lui; e parla di chi lo precede nella filosofia come di chi abbia già dinanzi agli occhi il senso esplicito dell’essere, ma vada poi fuori strada nell’attribuire all’essere dei caratteri che non gli possono convenire. Forse per questo motivo ci si può spiegare come Aristotele, influenzato da Parmenide, affermi che già i primissimi filosofi si rivolgono all’arché e allo stoichéion di tutti gli enti, e attribuisca loro l’assioma che “dal niente non si genera niente”.
Se si tengono unite le seguenti considerazioni: 1. che sin dall’inizio del pensiero filosofico phýsis significa “essere”; 2. che per i primi pensatori tutto ciò che si genera si genera dalla phýsis e 3. che per essi dal niente non si genera niente, allora si può ritenere che in costoro la phýsis, e cioè l’essere, sia già vista nella sua contrapposizione al niente. E tuttavia è solo con Parmenide – stando almeno a quanto sappiamo della più antica filosofia – che per la prima volta viene esplicitamente messo in luce il senso radicale di quella contrapposizione e quindi il senso autentico dell’essere.
Anche prima di Parmenide, nel mito greco e nei grandi testi della saggezza orientale, si parla del “Tutto” e della “Totalità delle cose” ma, come accade per il cháos di Esiodo, se il pensiero va sì rivolgendosi all’immenso (ossia a ciò che non ha misura), d’altra parte non può escludere che al di là di esso si estendano altri mondi e altri universi, e quindi non può escludere che la loro irruzione sconvolga e distrugga la “verità” che nel frattempo l’uomo ha creduto di scoprire in relazione all’immenso. Percorrendo gli estremi confini del Tutto, il pensiero, con Parmenide, riesce a vedere che al di là di essi non c’è niente, e che quindi la “Verità” del tutto ha un “cuore non tremante”.
b) La negazione del divenire. – Quando il senso dell’essere viene esplicitamente alla luce, appare insieme la necessità, l’incontrovertibilità, l’innegabilità, la “Verità”, dunque, del pensiero che dice: l’essere non è non-essere (= l’essere non è il niente).
Chi presta ascolto alla Verità sa dunque che l’essere è ed è impossibile che non sia. Se infatti si afferma che l’essere non è, si afferma che l’essere è non-essere, e questo è l’impercorribile assurdo che la Verità proibisce di affermare.
Quindi l’essere non può venir generato né andare distrutto. Se infatti l’essere fosse generato, allora, prima di essere generato non sarebbe; e daccapo non sarebbe più quando andasse distrutto. Affermare che l’essere si genera e si distrugge è affermare che l’essere è non-essere, e questo significa negare la Verità innegabile. Quindi l’essere è assolutamente immutabile ed eterno; e la “Giustizia” dell’essere consiste appunto in questo: nel proibire che esso, in qualsiasi modo, divenga.
Il divenire dell’essere, che sembra incessantemente attestato dalle trasformazioni del cosmo, è quindi un’opinione senza verità, un’apparenza illusoria di cui si convincono i “mortali” allorché, invece di prestare ascolto alla Verità, seguono il percorso della non-Verità, ove ci si persuade che l’essere possa non essere. La phýsis non può dunque esser intesa come ciò da cui provengono e in cui ritornano le cose del mondo visibile: questo provenire e questo ritornare sono soltanto opinione illusoria dei “mortali”.
Già per Anassimandro il divenire cosmico è “ingiustizia”, perché la prevaricazione di qualcosa (il suo distacco dall’Uno) fa sì che altre cose non siano; ma per Anassimandro l’ingiustizia del divenire esiste realmente; non solo, ma nel divenire è presente anche il ristabilimento della Giustizia, che riporta le cose là donde sono venute – sì che Eraclito può affermare che “la contesa è giustizia”; e il divenire è per lui la forma più manifesta della “contesa” in cui consiste la giustizia dell’essere. Ma Parmenide scorge ora che l’ingiustizia è che l’essere non sia, e che quindi nasca, muoia, si trasformi, si separi negli opposti che formano il divenire cosmico, sia origine e termine di tale divenire. Sì che l’“ingiustizia” non solo resta “punita” (come pensa Anassimandro), ma non può nemmeno realmente accadere: appunto perché il divenire – dove l’ingiustizia, per quanto punita, accade realmente – è soltanto il contenuto dell’opinione illusoria secondo cui gli uomini dirigono comunemente la loro vita.
c) L’eternità dell’essere. – Sin dal suo inizio, la filosofia pensa che la phýsis è eterna, “si conserva eternamente”, è “eternamente salva” dal niente. Come origine e termine di ciò che nasce e muore, non nasce e non muore: quando la phýsis è esplicitamente intesa come ápeiron, l’illimitato, si rileva che solo ciò che è limitato nasce e muore, e che quindi l’illimitato è eterno. Ma è con Parmenide che l’eternità della phýsis si mostra in modo perentorio – cioè come sentenza della Verità innegabile –, in base alla considerazione del senso dell’essere e del non-essere. Prima di Parmenide si può dire che l’eternità della phýsis sia soltanto intravista, presentita.
Non solo, ma è ancora con Parmenide che l’assioma “dal niente non si genera niente” viene per la prima volta esplicitamente formulato e viene formulato proprio nell’atto in cui si dimostra l’illusorietà del suo contenuto. Quell’assioma afferma infatti che ciò che si genera si genera dall’essere (cioè dalla phýsis) –, ma Parmenide, dimostrando che ogni generazione è impossibile, mostra che non solo è impossibile la generazione di qualcosa dal niente, mala stessa generazione dall’essere (cioè dalla phýsis).
d) Da Anassimandro a Parmenide. – Anassimene avverte la necessità di stabilire che cosa sia l’ápeiron, cioè che cosa sia quell’identità degli opposti (quell’identità del diverso) che, come Anassimandro ha ormai visto, non può essere una determinazione particolare. Eraclito scorge che tale identità è lo opporsi delle cose (ossia che ogni cosa è un opporsi alle altre); il pitagorismo ravvisa tale identità nell’uno stesso. Infatti ogni cosa è ciò che essa è solo in quanto si oppone alle altre e in quanto si costituisce come unità.
Ma l’opposizione e l’unità sono ancora delle proprietà, sia pure essenziali, dell’elemento unificatore del molteplice. Parmenide scorge che ciò che è identico in ogni cosa è l’essere –, e l’essere è ciò che si oppone al niente (questo è il significato supremo dell’opposizione) e che attraversa tutte le cose raccogliendole in una inviolabile Unità. Questa Unità – che è il Tutto e quindi non manca di nulla – è “inviolabile” perché da essa non può separarsi alcuna parte: la separazione dall’Uno originario (che viene affermata anche da chi, come Anassimene, spiega il costituirsi del divenire cosmico mediante un processo di rarefazione e di condensazione) si produce infatti nel divenire, dove una parte dell’essere può incominciare a essere solo se altre parti dell’essere non sono, e dove, dunque, l’essere non è.
e) L’essere e il molteplice. – Ma sin dai più antichi interpreti il pensiero di Parmenide è stato inteso non solo come negazione dell’esistenza del divenire, ma anche come negazione dell’esistenza di quello stesso molteplice (il molteplice è l’insieme delle cose in quanto tra loro differenti), di cui l’essere dovrebbe essere l’elemento unificatore. Se il significato dei passi di Parmenide relativi al senso del molteplice rimane per noi ambiguo, è tuttavia fuori dubbio che il modo in cui Parmenide testimonia il senso dell’essere consente il costituirsi della negazione dell’esistenza del molteplice, perché questa testimonianza non porta esplicitamente alla luce quegli elementi (su cui invece si soffermerà esplicitamente il pensiero di Platone), che impediscono alla conoscenza di giungere a tale negazione.
Pertanto, nella tradizione storica, Parmenide rimane il filosofo che ha inteso negare l’esistenza del molteplice in base alla considerazione che l’affermazione di tale esistenza equivarrebbe all’affermazione che il non-essere è (la quale nega la “Verità”, tanto quanto la “Verità” è negata dall’affermazione che l’essere non è). Infatti, solo V’essere” è, perché il non-essere non è. E se solo l’“essere” è, allora ogni cosa determinata, proprio perché è determinata in un certo modo (ossia come colore, forma, suono, albero, stella, animale, casa, acqua, aria, fuoco, terra)., non è l’“essere”, ossia è non-essere.
Ad esempio, un albero non è l’essere; ossia “un albero” non significa “l’essere” (o anche ciò che è indicato dall’espressione “un albero” o dall’espressione “l’albero” – non è ciò che è indicato dall’espressione “l’essere”).
E un albero non è nemmeno parte dell’“essere”, perché o questa parte è identica all’“essere” – e allora non è nemmeno parte, ma è l’“essere” stesso – oppure è diversa dall’“essere” – ma allora, daccapo, essa non è l’“essere”. Di ognuna delle cose che costituiscono il mondo, la Verità mostra dunque che, non essendo e non significando “essere”, sono non-essere.
Se quindi di una cosa determinata qualsiasi si afferma che essa è (ad esempio si afferma che l’albero è, esiste), si viene ad affermare che il non-essere è, e cioè che il non-essere è “essere”. Si viene a negare la “Verità” incontrovertibile che afferma l’opposizione tra l’essere e il non-essere.
L’esistenza (l’essere) del molteplice e l’esistenza (l’essere) del divenire devono essere negate, perché entrambe implicano l’identificazione dell’essere e del niente. Se si tien fermo che l’essere non è il niente, si deve affermare che le cose e il loro divenire sono niente. Pertanto l’essere, che è il Tutto, non solo è eterno e immutabile, ma non è nemmeno composto di parti (che, appunto, lo renderebbero molteplice).
Anche la convinzione che il molteplice esista è così il contenuto dell’opinione illusoria dei mortali.
f) La sfida. – Appare, da quanto precede, che portando alla luce che la phýsis è l’“essere”, Parmenide giunge a negare e che la phýsis sia stoichéion (cioè elemento unificatore del molteplice), e che la phýsis sia arché, cioè principio e termine del divenire cosmico. L’“essere” è cioè l’assolutamente indifferenziato, indeterminato, l’assolutamente semplice e puro. Il mondo, che ci sta dinanzi nella sua infinita varietà di aspetti e nella sua incessante mutazione, il mondo in cui viviamo non ha alcuna “Verità” (dunque non è): è soltanto una gigantesca apparenza illusoria in cui i “mortali” ripongono ogni fiducia – i “mortali”, che sono appunto coloro che non seguono il “sentiero” della “Verità”. Con Parmenide la filosofia si presenta come la sfida più radicale rivolta al comune modo di pensare degli uomini. Ma, come vedremo tra poco, con Parmenide la filosofia diventa anche un grandioso problema dinanzi a sé stessa.
Discepolo di Parmenide, Zenone (prima metà del V secolo a.C.; cfr. Nbb 1) ha difeso la dottrina del maestro, dimostrando come coloro che affermano l’esistenza del divenire e della molteplicità dell’essere siano costretti a rifiutare ciò che essi intendono sostenere. La grandezza e continuità spaziali della realtà sensibile sono l’aspetto più manifesto della molteplicità dell’essere. Ma ciò che ha grandezza e continuità è divisibile, e le parti in cui si divide sono a loro volta divisibili e così all’infinito. Ma la divisione, o “dicotomia” infinita del continuo, significa che il divisore non ha alcuna grandezza, e cioè che il continuo non è costituito da alcunché e che dunque la sua esistenza (e quindi l’esistenza del molteplice) è impossibile.
Per quanto riguarda il divenire, lo schema argomentativo di Zenone consiste nel rilevare che se un corpo si muove dal punto A al punto B, prima di giungere in B dovrà giungere nel punto M, intermedio tra A e B; e prima di giungere in M dovrà giungere in M1, intermedio tra A e M, e così all’infinito; sì che lo spostamento oltre il punto A è impossibile, per quanto piccolo esso sia.
Le argomentazioni di Zenone hanno profondamente stimolato la riflessione anche in campo matematico. Ma di esse non ha bisogno la profondità essenziale del pensiero di Parmenide. Zenone mostra nei modi più svariati a quali contraddizioni vada incontro chi affermi il divenire e la molteplicità dell’essere; ma quale contraddizione è più potentemente e nettamente stagliata di quella indicata da Parmenide, cioè l’identificazione dell’essere e del niente, da parte di chi afferma il divenire e la molteplicità della phýsis?
1. Parmenide nacque ad Elea, una città della Magna Grecia non lontana da Napoli, dove fondò una scuola (la scuola eleatica, appunto), della quale fu a lungo, ma erroneamente, ritenuto fondatore Senofane (nato a Colofone, sulle coste dell’Asia Minore, poco più a nord di Efeso, e vissuto tra il VI e il V sec. a.C.). Parmenide fu quasi certamente attivo politicamente («si dice – racconta Diogene Laerzio – che abbia dato leggi ai concittadini», DK 28A1), e scrisse un poema intitolato Sulla natura (del quale ci restano ampi frammenti). Alla sua scuola appartennero anche Zenone di Elea e Melisso di Samo.
Zenone «ascoltò Parmenide e fu il suo amato» (DK 29A1); fu «uomo eminentissimo in filosofia e in politica» (ibidem), oltre che coraggioso (è noto l’episodio che lo descrive prigioniero del tiranno Nearco – contro il quale aveva congiurato – e che lo vede denunziare «tutti gli amici del tiranno, nell’intento di fargli il vuoto intorno» (ibidem), e addentare il tiranno all’orecchio non lasciando la presa sino a che non viene trafitto). Dal punto di vista filosofico, Zenone di Elea si impegnò nella difesa della dottrina del maestro, argomentando per assurdo contro le tesi dei detrattori della dottrina parmenidea (e per questo, Zenone venne considerato, sin dall’antichità, l’inventore della dialettica).
Melisso di Samo (V sec. a.C.) fu discepolo di Parmenide, oltre che uomo politico. Scrisse un trattato Sulla natura, o sull’essere, nel quale si propose di esporre in modo sistematico e di chiarire la dottrina parmenidea. L’eternità dell’essere è da lui affermata in base alla considerazione che dal nulla non può generarsi alcunché – un principio che diverrà celebre e che verrà ripetutamente ripreso, lungo la storia del pensiero occidentale, ma che in qualche misura già tradisce (cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 32-36) la perentoria lapidarietà del principio parmenideo dell’incontraddittorietà dell’essere. L’essere, inoltre, è detto da Melisso infinito perché, se così non fosse, ne risulterebbe che l’essere dovrebbe in qualche modo essere limitato dal nulla (il che sarebbe contraddittorio); Parmenide, viceversa, aveva posto la finitezza dell’essere, raffigurandolo come una “ben rotonda sfera”.
I frammenti degli eleati si leggono in: Parmenide. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1967; Zenone. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 19702 [1963]; Melisso. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Reale, La Nuova Italia, Firenze 1970. Sugli eleati: G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772.
Su Parmenide: E. Severino, Ritornare a Parmenide [1964], in Id., Essenza del nichilismo, cit., pp. 19-61; L. Ruggiti, Parmenide, Marsilio, Venezia-Padova 1975; A. Capizzi, Introduzione a Parmenide, Laterza, Bari 1975 (con ampia bibliografia critica); Id., La porta di Parmenide. Due saggi per una nuova lettura del poema, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1975; G. Casertano, Parmenide. Il metodo, la scienza, l’esperienza, Guida, Napoli 1978.
Su Zenone: P. Di Giovanni, Zenone e la dialettica dell’infinito, Cappelli, Bologna 1984.
Su Melisso: G. Reale, Melisso e la storia della filosofia greca, in Melisso. Testimonianze e frammenti, cit., pp. 1-268; R. Vitali, Melisso di Samo sul mondo o sull’essere. Una interpretazione dell’eleatismo, Argalia, Urbino 1973.
Al suo inizio la filosofia si esprime nelle forme linguistiche più diverse. Eraclito scrive in prosa (come poi Aristotele); in versi, invece, Parmenide e Empedocle; e il dialogo, che è una forma di rappresentazione scenica, sarà la configurazione linguistica pressoché costante in cui si esprime il pensiero di Platone. In ogni caso, la forma assunta dal linguaggio filosofico si discosta dal linguaggio comune, perché la filosofia mette dinanzi a contenuti del tutto nuovi rispetto a quelli della vita quotidiana. Non ci si deve quindi lasciar distrarre, come invece è quasi sempre accaduto, dalla circostanza che il pensiero filosofico di Eschilo (cfr. Nbb 1) senta il bisogno di esprimersi nel teatro.
Nella forma della tragedia, il teatro è d’altra parte una derivazione di quella situazione festiva che i Greci chiamano theoría (una parola; questa, che significa, insieme, “festa” e “teoria”). La theoría, cioè la festa, è il luogo dove l’uomo è in rapporto al divino, e forse essa è stata il clima in cui è potuta apparire la “teoria” che è propria del filosofare. Come nella theoría festiva non si contempla un contenuto qualsiasi, ma il contenuto essenziale, quello che più interessa l’uomo, così il teatro – e la parola greca théatron è etimologicamente affine a theoría – è per Eschilo il luogo in cui il popolo contempla non avvenimenti e racconti fantastici, “poetici”, o “mitici”, ma il contenuto più essenziale di tutti, cioè la verità e la sua capacità di salvare l’uomo dall’angoscia per il dolore provocato dal divenire e dalla morte. E il théatron consente di conoscere il rapporto tra la vita dell’uomo e la verità, ponendo di fronte ai grandi eventi già presenti nella memoria storica del popolo greco: le guerre contro i Persiani, la guerra di Troia e ancor prima, nel più lontano passato, il tentativo di Prometeo di ribellarsi, per migliorare la sorte dell’uomo, alla volontà degli dèi.
Il centro del pensiero di Eschilo è espresso dall’Inno a Zeus, nell’Agamennone (la prima delle tre tragedie che costituiscono l’Orestea):
«Zeus, chiunque egli sia, a lui mi rivolgo con questo nome, se gli è caro esser chiamato così. Se il dolore, che getta nella follia, deve esser cacciato dall’animo con verità, allora, soppesando tutte le cose con un sapere che sta e non si lascia smentire, non posso pensare che a Zeus. Uranos, infatti [il dio del cielo], che pur fu in passato potente e traboccante di audacia spavalda, è come se non fosse mai stato. Ed è svanito chi poi venne ad esistere, Cronos [il dio del tempo], che si imbatté in Zeus, il vincitore per sempre. Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua vittoria, perviene al culmine della sapienza. Guidando il pensiero dei mortali, Zeus ha stabilito che attraverso il dolore il sapere acquisti potenza. Quando, nel sonno, goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora, anche senza la volontà dei mortali, sopraggiunge in essi un sapere che salva. Questo è un dono dei démoni che siedono potenti sul sacro seggio di Zeus» (cfr. Emanuele Severino, Interpretazione e traduzione dell’Orestea di Eschilo, cit., pp. 22-23).
Per liberarsi con verità dal dolore che getta nella follia, e renderlo sopportabile, è necessario guardare con verità il Principio di tutte le cose, cioè «soppesando tutte le cose con un sapere che sta e non si lascia smentire»: il sapere dell’epistéme. Esso, che dunque è “un sapere che salva” dall’insopportabilità del dolore, è il “culmine della sapienza”, il punto più alto a cui può giungere la sapienza dell’uomo e che poi sarà chiamato “filosofia”.
La parola “Zeus”, infatti, non nomina, per Eschilo, un dio mitico, ma l’elemento e il principio di tutte le cose: «Zeus è l’etere, Zeus la terra, Zeus il cielo, Zeus tutte le cose e anche ciò che sta al di sopra di esse», dice un frammento delle Eliadi di Eschilo. E da Zeus, immutabile, provengono tutte le cose – e dunque anche la conoscenza umana della verità –; e a lui tutte ritornano. Quando l’uomo è condotto da Zeus al culmine della sapienza, il sapere umano ha potenza sul dolore, perché conoscendo con verità il senso del Tutto, il sapere dell’uomo diventa la previsione essenziale che dissipa l’imprevedibilità del futuro e rende sopportabile il dolore (cfr. cap. I, § 11, c).
La grandezza del pensiero filosofico di Eschilo riguarda appunto il rapporto tra la verità e il dolore. Egli mostra per primo, in modo del tutto esplicito, che la conoscenza della verità salva dall’angoscia del divenire, perché, da un lato, tale conoscenza è la previsione suprema del senso fondamentale di tutto ciò che dovrà apparire nel mondo, e, dall’altro lato, essa è il luogo in cui appare il Dio immutabile, cioè la dimensione sempre salva dal nulla, in cui anche l’essenza e la sostanza dell’uomo trova rifugio e riparo dall’annientamento.
È questa la struttura concettuale che rimane alla base dell’intera tradizione filosofica – a incominciare da Platone e da Aristotele (che pure riescono a vedere in Eschilo soltanto il poeta e non il filosofo) –, una volta che il pensiero filosofico avrà provveduto ad affrontare la grande sfida di Parmenide e a risolvere il problema da essa sollevato (cfr. cap. IV, § 1, f).
Nella memoria storica dei Greci sono conservati alcuni grandi eventi, che si presentano anche come situazioni tipiche della esistenza umana: la guerra contro Troia e i Persiani, cioè la lotta contro il nemico; la violenza intestina che oppone Greci a Greci e tra loro i membri di una stessa famiglia (per ottenere il favore degli dèi nella guerra contro Troia, Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia, ma al suo ritorno in patria è a sua volta ucciso dalla moglie, Clitennestra, poi uccisa dal figlio Oreste, che vuole vendicare il padre); la lotta di Prometeo contro gli dèi, nella quale l’eroe ruba loro la fonte di ogni tecnica, il fuoco, per aiutare gli uomini; le lotte tra gli dèi, che si schierano nei campi contrapposti dei mortali. Nell’Orestea, Eschilo mostra che, quando si tratta di giudicare la colpa di un uomo, che, come Oreste, si è macchiato dei delitti più gravi, il giudizio ultimo e decisivo non può essere dato dagli dèi, ma da giudici umani che sanno pensare «con verità» e il cui verdetto è quindi in grado di valere «per ogni tempo» (Eumenidi, vv. 472 sgg.).
Essi stanno nell’epistéme, ma il loro non è un pensiero che si possa produrre separatamente dalla “città” (pólis) in cui vivono – Atene. Chi giudica con verità non può che appartenere a una città che viva essa stessa, con le sue leggi e i suoi costumi, conformemente alla verità. La vita conforme alla verità non è né “priva di arché”, priva cioè del “principio” in cui la verità stessa consiste, e nemmeno oppressa da un potere esterno che non si preoccupa né della verità dei propri comandi, né della verità della vita che essa soggioga. La vita conforme alla verità, per Eschilo, è una “vita intermedia” – tra l’“anarchia” e il “dispotismo” –, e alla vita intermedia della città sapiente Dio concede la vera potenza, quella cioè per la quale la verità consente all’uomo di vincere l’angoscia provocata dal dolore.
Per vincere il terrore, l’uomo deve sottoporsi al “giogo” della verità, cioè a un timore più alto di quello da cui egli intende liberarsi (le religioni lo chiamano “timor di Dio”). Il giogo della verità sta a guardia della mente e allontana la follia provocata dal dolore. L’uomo e la città stanno nel “bene”, salvi, e la loro vita è “giusta”, quando si mantengono nella somma sapienza, in cui sorge la timorosa reverenza per la Giustizia, e cioè per le leggi della verità:
«Vi è un caso in cui il timore è bene e, vigile sentinella delle menti, deve porre, saldo, in esse la sua sede. La sapienza che salva richiede che si stia sotto il giogo. Se non si avvolge in questa luce che dà vigore al suo cuore, chi mai, o città, o mortale, potrà in futuro onorare la Giustizia?» (op. cit.).
Chi si rivolge alla verità «volontariamente», «senza esservi costretto», è «giusto», e quindi «non sarà infelice e non verrà completamente annientato» (op. cit.). La verità salva dal nulla e dalla infelicità – che è provocata da ultimo dalla coscienza che il dolore è l’avvisaglia del completo annientamento del mortale. Nella verità e nella giustizia l’uomo si pone infatti in rapporto all’eternità invincibile di Dio, trovandovi riparo.
La connessione tra la vita umana e la verità, che in Eschilo diventa per la prima volta potentemente esplicita, è il vero “rimedio” contro l’infelicità. Zeus, il vero Dio che si mostra al culmine della sapienza, è «il culmine del rimedio» (tò pan méchar, Le supplici, v. 594). Ciò vuol dire, per Eschilo, che le arti e le tecniche dell’uomo non sono veri rimedi. Per Eschilo, Prometeo non è eroe perché dona all’uomo la téchne del fuoco, ma perché, dopo essersi illuso e aver illuso i mortali che la tecnica possa salvarli dall’infelicità e dal dolore, riconosce infine, da un lato, il proprio errore, cioè il fallimento della tecnica e, dall’altro, la potenza invincibile della “necessità” (anánche) che si mostra nella luce della verità e che è la legge stessa della verità. «La téchne – dice il Prometeo di Eschilo – è troppo più debole della necessità» (Il Prometeo incatenato, v. 514).
Per essersi ribellato agli dèi, egli è incatenato e trafitto, ma le forze che lo vincono sono pur sempre e soltanto espressione di una téchne che, sebbene momentaneamente più forte, è destinata a soccombere dinanzi alla vera potenza della “necessità”. Profetizzando la futura rovina di Zeus, cioè dello Zeus mitico a cui si rivolge la coscienza religiosa dei Greci, il Prometeo di Eschilo afferma il tramonto del valore di tale coscienza e, insieme, della tecnica. E tale affermazione è in sintonia col principio che il giudizio supremo sulla vita dell’uomo può essere dato non dagli dèi (che si rivelano pertanto come semplici figure mitiche), ma dai giudici sapienti della città sapiente.
Separata dalla verità, la tecnica è hýbris (“prevaricazione”, “tracotanza”, “protervia”), che dopo il suo momentaneo successo e la sua apparente vittoria è destinata alla rovina. Hýbris non è la vera potenza della vita che è “intermedia” tra l’anarchia e il dispotismo, ma è la potenza che, restando separata dalla verità e dalla necessità, è destinata al fallimento. «Hýbris è la vera figlia della mancanza del timore» (Eumenidi, v. 534) nel quale l’uomo deve mantenersi di fronte alla verità.
Per Eschilo, la vera grandezza eroica di Prometeo consiste nel suo sapersi liberare dalla hýbris e nel suo comprendere che il sommo rimedio, per l’uomo, è la verità incontrovertibile dell’epistéme. Come i cantori dell’Inno a Zeus – che incarnano l’uomo sapiente e veramente potente –, Prometeo dice di essere ormai nella verità dell’epistéme, che consente di anticipare e prevedere il senso essenziale di tutto ciò che accade nel mondo: panta prouxepistamai: «Tutte le cose (panta) vedo anticipatamente (prou), a partire dal luogo (ek) in cui si apre il sapere stabile dell’epistéme (epistamai)».
1. Cfr. cap. I, Nbb 3. Eschilo vide, da giovane, la fine della tirannide, e poi l’avvento della democrazia in Atene. Combatté a Maratona e forse anche a Salamina. Accusato di aver rivelato i misteri, sostenne di non essere iniziato e fu prosciolto. È considerato il creatore del linguaggio tragico, che egli unisce a grandi effetti scenici. Sembra che egli stesso abbia affermato che i grandi pensieri, per essere espressi, hanno bisogno di grandi parole.
Nei pensatori che precedono Parmenide, la verità è l’apparire della phýsis intesa come unità delle cose molteplici, fonte del loro generarsi e termine del loro corrompersi. Parmenide testimonia il significato originario della phýsis: la phýsis è l’essere che si manifesta nella sua essenziale opposizione al niente. La verità è l’apparire di questa opposizione. Ma questa opposizione esige, si è visto, la negazione dell’esistenza del divenire e del molteplice. (E il problema di determinare quale sia l’elemento unificatore del molteplice è risolto eliminando i termini stessi del problema.) Divenire e molteplice non hanno verità. Sono opinione ingannevole. Affermando l’esistenza del divenire, si afferma che l’essere non è; affermando l’esistenza del molteplice, si afferma che il non-essere è.
E tuttavia il divenire e la molteplicità delle cose appaiono: l’universo molteplice e diveniente continua a manifestarsi anche quando si riconosca, come vuole Parmenide, che esso è privo di verità. Dopo Parmenide, la filosofia si rende esplicitamente conto che la manifestazione dell’universo molteplice e diveniente è anch’essa qualcosa di innegabile, non smentibile, incontrovertibile. Tale manifestazione è quindi, anch’essa, “verità”.
La verità viene così a porsi in antitesi con se medesima: da un lato, come ragione (Lógos) – ossia come negazione che l’essere sia niente –, esige l’immutabilità e la non molteplicità dell’essere, dall’altro lato, come esperienza – ossia come manifestazione del mondo –, mostra il divenire e la molteplicità dell’essere.
E d’altra parte Parmenide stesso e i suoi discepoli negano sì che l’esistenza del divenire e del molteplice abbia verità, ma non negano che tale esistenza appaia e quindi riconoscono anch’essi, implicitamente, che il contenuto della “verità” non è soltanto l’opposizione tra essere e niente, ma anche l’apparire di tutto ciò che appare. Ma, proprio per questo, è il pensiero stesso di Parmenide a trovarsi in antitesi con se medesimo perché, in quanto appaiono, il divenire e la molteplicità delle cose hanno verità, ma non hanno verità in quanto l’affermazione della loro esistenza è negazione della ragione.
Il problema che pertanto s’impone e che impegna tutta la filosofia greca dopo Parmenide (cfr. cap. II, § 1), è costituito dalla ricerca delle condizioni che impediscano l’autodistruzione della verità e cioè consentano la conciliazione della ragione con l’esperienza. In questo senso, la filosofia di Empedocle, di Anassagora e di Democrito (nel V sec. a.C.) indica già la direzione in cui si muoverà il pensiero di Platone e di Aristotele. In essa, il problema dell’antitesi tra esperienza e ragione diviene pienamente esplicito e trova i primi grandi tentativi di soluzione.
Innanzitutto, si tratta di reinterpretare la phýsis preparmenidea, tenendo conto che l’uscire e il ritornare delle cose nell’unità originaria della phýsis non possono essere più pensati indipendentemente dal senso dell’essere e del non-essere.
In tale reinterpretazione della phýsis spicca soprattutto la formulazione esplicita – compiuta da Empedocle (V secolo a.C.; cfr. Nbb 1) – del principio già implicitamente operante in tutta la filosofia preparmenidea: «L’essere non può originarsi dal non essere e non può perire e distruggersi diventando completamente niente». Infatti, mentre per Parmenide questo principio (che non va confuso con l’arché, ma è un assioma della ragione) indica l’assoluta immutabilità dell’essere e cioè l’inesistenza e la mera apparenza del divenire, per Empedocle, invece, esso significa che, nel divenire cosmico – la cui esistenza è innegabilmente manifesta – gli enti che “nascono” e “muoiono” provengono dall’unità originaria dell’essere e a essa ritornano; sì che “nascendo”, essi non provengono dal non-essere, e “morendo” non vanno nel nulla. Come Anassagora e Democrito, Empedocle ritiene di poter affermare, insieme, l’eternità dell’essere (la quale esclude appunto che l’“essere” sia generato e distrutto) e il divenire del mondo: intendendo l’“essere” come una pluralità di elementi originari che, trasformandosi, componendosi e separandosi, costituiscono di volta in volta le cose divenienti. In questo modo, il divenire è non illusorio e reale, perché è accidentale e estrinseco rispetto agli elementi immutabili dell’essere che costituiscono l’unità originaria della phýsis. (Ma l’affermazione di questi elementi molteplici rimane ancora in questi filosofi una semplice esigenza: bisogna attendere Platone per sapere come l’essere possa essere molteplice.)
Tutto l’essere che crediamo che nasca preesisteva dunque già nell’unità originaria dell’“essere”, e tutto l’essere che crediamo che muoia ritorna in questa unità. L’“essere” delle cose è ciò che le costituisce e ne è “radice”; e ogni cosa è costituita, per Empedocle, dall’acqua, dalla terra, dall’aria, dal fuoco, che appunto, per la prima volta, vengono esplicitamente intesi come forme dell’“essere”. Empedocle chiama “Amicizia” la forza che tiene unite le quattro radici in cui è contenuto tutto l’essere dell’universo diveniente, e chiama “Contesa” (o “Discordia”) la forza che separa le une dalle altre “radici” dell’essere producendo il divenire cosmico.
La nascita e la morte delle singole cose, pur non essendo apparenza illusoria, non è quindi altro che “mescolanza” e “separazione” degli eterni elementi dell’essere, in una vicenda ciclica del tempo, che vede di volta in volta il sopravvento dell’Amicizia o della Contesa.
In tal modo, diventa ancora più esplicito il tema (già presente in Anassimandro, Anassimene ed Eraclito) che, nel divenire cosmico, non solo gli enti non si generano dal niente e non si corrompono nel niente, ma che il loro stesso divenire non può essere determinato dal niente, ma da una forza o da un sistema di forze (Amicizia e Discordia) che producono e distruggono le diverse configurazioni delle cose. Tale forza viene intesa poi da Anassagora come “Mente”, che unifica in sé le due opposte attività dell’Amicizia e della Discordia e che anticipa il concetto platonico di “Demiurgo” (cfr. cap. IX, § 4, b) e il concetto aristotelico di “Mente motrice” dell’universo (e, in generale, di “causa efficiente”) (cfr. cap. X, § 12). Ma già in Eraclito il lógos, la “ragione”, non è solo la legge conformemente alla quale accadono le cose, ma è anche la forza che le produce e distrugge. E già per Anassimandro l’arché non è soltanto la dimensione da cui le cose provengono e in cui ritornano, ma è anche la forza che le “governa”.
Questo tentativo di Empedocle di conciliare l’esperienza del divenire col principio parmenideo dell’immutabilità dell’essere indica il senso fondamentale in cui verrà operata tale conciliazione, ma non raggiunge l’intento. La mescolanza e separazione degli elementi o “radici” dell’essere dà luogo a una loro continua trasformazione in tutte le qualità dell’universo. Sì che Melisso, scolaro di Parmenide, poteva obiettare che se non si vuole che l’esperienza del divenire e della trasformazione degli elementi sia illusoria, è allora impossibile che questi elementi siano elementi dell’essere ed eterni: se fossero elementi eterni dell’essere non potremmo percepirne la trasformazione.
a) Insufficienza della concezione empedoclea. – Inoltre, se l’acqua e le altre “radici” entrano certamente nella costituzione delle cose dell’universo, esse non sono però gli unici fattori costitutivi degli enti: ogni cosa (il ferro, la pietra, la carne, il bianco, il caldo) possiede una propria qualità, per la quale essa è quello che è e si distingue dalle altre. Quindi non è possibile affermare che soltanto le quattro “radici” siano l’essere: l’essere è tutte le qualità e determinazioni che formano l’universo. In questo modo Anassagora (V secolo a.C.; cfr. Nbb 2) oltrepassa la concezione empedoclea dell’essere; ma non per riconvergere sulla concezione parmenidea dell’illusorietà del divenire, bensì per giungere a quella conciliazione di esperienza e ragione che ancora sfugge a Empedocle.
Anche Anassagora tien fermo infatti il principio della permanenza dell’essere, e cioè che l’essere non può generarsi dal niente e non può annullarsi; e pertanto non solo i quattro elementi, ma tutte le cose preesistono nell’unità originaria dell’essere. Non solo, ma poiché un ente può diventare un qualsiasi altro ente – ad esempio il cibo diventa carne del vivente, e la carne, con la morte, diventa terra e acqua –, è allora necessario affermare, proprio in forza del principio della permanenza dell’essere, che in ogni ente vi è già tutto ciò che esso può diventare, e quindi che in ogni ente vi è il Tutto.
b) Le omeomerie. – Ogni cosa è ente; ma il modo in cui Anassagora intende le cose tien conto della critica all’esistenza del molteplice compiuta da Zenone. Per il quale, se l’essere fosse molteplice (e ciò che è esteso e continuo è un molteplice), sarebbe infinitamente divisibile e quindi riducibile a un niente (cfr. cap. IV, § 2). Per Anassagora, invece, c’è sempre qualcosa di più piccolo del qualsiasi termine raggiunto dalla divisione: dividendo il ferro, ad esempio, ci si imbatte sempre in particelle di ferro, e sono appunto queste particelle simili tra loro (Aristotele le chiama, appunto, omeomeríe: “parti simili”) che nella loro unione formano il pezzo di ferro sensibilmente percepito. Le omeomerie – che per la piccolezza della loro massa non sono percepibili – sono l’essere, e quindi sono eterne, ingenerabili, incorruttibili.
Nel divenire cosmico, la nascita delle cose visibili non è pertanto la nascita dell’essere, ma è un raccogliersi di omeomerie. Quando le particelle di un certo tipo (ad esempio le omeomerie del ferro) diventano prevalenti, in una certa regione spaziale, rispetto a quelle di tipo differente, formano allora una cosa determinata e percepibile (ad esempio un pezzo di ferro). Raccogliendosi, si rendono manifeste da invisibili che erano. A sua volta, la corruzione e morte delle cose è il corrispettivo disperdersi delle unioni di omeomerie. I “fenomeni” (ossia le cose manifeste) divenienti non sono dunque la nascita e la morte dell’essere, ma la “visione delle cose nascoste”, ossia il raccogliersi (implicante la visione) e il disperdersi (implicante la sparizione) delle eterne omeomerie dell’essere.
c) La “mente”. – Se i “fenomeni” costituiscono il divenire cosmico, le “cose nascoste” formano l’unità originaria da cui tutto deriva e ove tutte le parti sono mescolate insieme (e pertanto “nascoste”). Il divenire richiede allora un’attività discriminante e disvelante, che, avendo conoscenza di tutto e dominio su tutto, ha la potenza di raccogliere e disperdere le omeomerie. Questa potenza, che producendo il divenire lo rende manifesto, e cioè lo rende “fenomeno”, è chiamata da Anassagora “Mente” (Noûs). Essa è l’unico ente in cui non vi sia mescolanza, e appunto per questa sua purezza (Anassagora qui anticipa un grande tema aristotelico) può conoscere e dominare tutto.
In quanto attività discriminante e separante il molteplice dall’unità originaria, la “Mente” corrisponde al pólemos (e quindi al lógos) di Eraclito: anche il pólemos produce e rende possibile il manifestarsi degli opposti. Ma, come la “Discordia” e l’“Amicizia” di Empedocle, la “Mente” è introdotta da Anassagora per spiegare il divenire, mantenendo ferma l’eternità dell’essere.
a) L’essere del non-essere. – Per Parmenide, affermare l’esistenza del molteplice significa affermare l’esistenza del non-essere. E poiché solo l’essere è, l’universo delle cose molteplici è quindi illusorio. Ma l’atomismo (cfr. Nbb 3), che ha in Democrito (V-IV sec. a.C.) il suo maggior rappresentante, avverte ormai nel modo più deciso che i “fenomeni” (le cose che si manifestano, l’esperienza) non possono essere negati e – lungi dall’esser qualcosa di illusorio – sono anzi il fondamento (il “criterio”) della nostra conoscenza delle cose non manifeste. D’altra parte, l’atomismo tien fermo anche il principio parmenideo che l’esistenza del molteplice implica l’esistenza del non-essere; e questo principio, unito a quello dell’innegabilità dei fenomeni, e quindi del molteplice, porta l’atomismo ad affermare che anche il non-essere è (esiste): l’esistenza del non-essere è la condizione dell’esistenza del mondo molteplice.
Questa affermazione dell’esistenza del non-essere acquista il suo significato più proprio in relazione al modo in cui l’atomismo interpreta l’“essere” e il “non-essere”. Dal punto di vista di chi, come Democrito, ritiene che i fenomeni siano il criterio del conoscere e che non vi siano altri fenomeni oltre le cose sensibili, l’“essere” è il “pieno”, ossia ciò che è esteso e solido, e il “non-essere” è il “vuoto”, ossia la pura estensione non riempita. Il vuoto divide la compattezza del pieno in una molteplicità di parti, e quindi è ciò che rende possibile il molteplice. Dunque anche il non-essere – ossia il vuoto – esiste.
Assumendo infatti i fenomeni sensibili come criterio del conoscere, sono essi stessi a mostrare una differenza tra gli aspetti qualitativi (colori, suoni, odori, sapori, determinazioni tattili e termiche) e gli aspetti quantitativi (forma, grandezza, numero, posizione) delle cose. Le qualità sono oscure, incerte, variabili e opinabili: variano da individuo a individuo e da momento a momento. Gli aspetti quantitativi – ossia le varie determinazioni dell’estensione – sono invece chiari, sicuri, uguali per ogni individuo e quindi veri. Dal punto di vista della verità, l’“essere” è quindi estensione piena (ossia l’essere è ciò che rende piena l’estensione), il “non-essere” è estensione vuota. Gli aspetti qualitativi sono quindi opinione illusoria, cioè mantengono il carattere che Parmenide aveva assegnato alla totalità dei fenomeni.
b) Gli atomi. – Ma Zenone aveva mostrato che l’esteso, in quanto infinitamente divisibile, si riduce a un niente; e concludeva affermando l’illusorietà del molteplice che costituisce l’esteso. Per salvare i fenomeni (che sono innegabili), si deve allora escludere che l’esteso sia infinitamente divisibile, cioè si deve affermare che la divisione dell’esteso si arresta a certe parti estese non divisibili: poiché i fenomeni – e quindi il molteplice – non possono essere negati, è necessario affermare l’esistenza di una pluralità (infinita) di parti indivisibili dell’estensione. Gli atomisti chiamano appunto “atomi” (átomos significa “non divisibile”) queste parti.
Gli atomi sono l’essere; e quindi ogni atomo possiede le proprietà dell’essere, quali sono state rilevate da Parmenide: è un’unità indivisibile, ingenerabile, incorruttibile, eterna, non percepibile dai sensi, ma dalla ragione. L’esistenza del vuoto consente il loro reciproco distinguersi. Limitato dal vuoto, ogni atomo ha una certa grandezza, una certa figura, una certa posizione e un certo rapporto d’ordine con gli altri atomi. Per queste caratteristiche ogni atomo è quello che è e differisce dagli altri. I fenomeni sono aggregati di atomi e le infinite differenze tra i fenomeni sono determinate dalla possibilità di infinite combinazioni di atomi. Quindi anche gli aspetti qualitativi delle cose debbono essere intesi come determinati da aggregazioni atomiche – anche se tali aspetti, a differenza di quelli quantitativi, non lasciano apparire con evidenza il rapporto atomico che pur li costituisce.
c) Il divenire. – L’esistenza del non-essere, inteso come il vuoto, rende possibile anche l’affermazione dell’esistenza del divenire. Come la molteplicità, così il divenire dei fenomeni è innegabile. L’essere diviene, non già nel senso che gli atomi possano generarsi, corrompersi, trasformarsi – altrimenti si negherebbe il principio, che anche l’atomismo intende tener fermo, che l’essere non può aver origine dal non-essere e non può dissolversi nel non-essere – ma nel senso che gli atomi si muovono nel vuoto e incontrandosi danno luogo a quelle aggregazioni che costituiscono i fenomeni. Come già per Anassagora, la nascita di qualcosa è una unificazione e la morte è una separazione degli elementi costitutivi dell’essere.
d) Il materialismo. – Ma la soluzione atomistica è più rigorosa di quella di Anassagora, perché l’unificazione e separazione spaziali delle omeomerie (e lo stesso concetto di prevalenza quantitativa, in ogni cosa, delle omeomerie di un certo tipo rispetto a quelle di tipo diverso) esigono una struttura fondamentalmente quantitativa dell’essere, ossia una concezione materialistica dell’essere, che Anassagora lascia ancora in ombra, mentre è esplicitamente e per la prima volta portata alla luce dall’atomismo. Il materialismo, cioè l’affermazione che non esiste altro essere che quello da cui lo spazio è riempito (e la materia è appunto ciò che riempie lo spazio) non è infatti l’orizzonte in cui nasce la filosofia, ma si presenta per la prima volta, nella storia del pensiero, appunto come tentativo di superamento dell’antinomia tra ragione ed esperienza, provocata da Parmenide. (Ma escludendo che la filosofia più antica sia materialismo, si esclude insieme che essa sia una qualsiasi forma di “spiritualismo” – giacché “materia” e “spirito” sono termini correlativi e uno non può presentarsi se l’altro è assente.)
e) La causa del divenire. – Empedocle e Anassagora, rifacendosi peraltro a spunti già presenti nella filosofia preparmenidea, avevano rilevato la necessità di porre una causa del divenire: l’essere diviene perché su di esso agiscono le forze dell’Amicizia e della Discordia (Empedocle), o la forza della Mente (Anassagora). Ma dal punto di vista del materialismo atomistico, la variazione dello stato di quiete o di moto degli atomi non può avere altra causa che il loro essere urtati da altri atomi in movimento. Il divenire e la formazione del mondo non hanno quindi uno scopo, giacché il divenire può essere orientato a un fine solo da una “mente” (come appunto riteneva Anassagora) che produca il divenire in vista di quel fine; mentre l’atomismo non intende ammettere altra realtà che gli atomi e i loro movimenti nel vuoto tanto che, per Democrito, anche la mente umana è un aggregato di atomi, e la sensazione e il pensiero sono movimenti di atomi.
Ma intanto è rilevante che il pensiero filosofico, nell’atto stesso in cui esclude l’illusorietà del divenire, si renda conto, anche se in forma ancora embrionale, della necessità di porre una causa di esso (ossia qualcosa per opera del quale gli enti divengono).
Dal punto di vista della ragione, in cui si pone Parmenide, l’essere è immutabile e non molteplice. Dal punto di vista dell’esperienza, l’essere è invece diveniente e molteplice. Dopo Parmenide la filosofia si rende esplicitamente conto che anche il punto di vista dell’esperienza è verità; e quindi si trova impegnata a risolvere il problema della conciliazione dei due antitetici momenti della verità. L’importanza del pensiero di Empedocle, di Anassagora e di Democrito consiste nell’avere indicato il senso generale di questa conciliazione: la distinzione (che starà al centro del pensiero di Platone e di Aristotele) tra l’essere originario e l’essere derivato.
Nella sua originarietà e fondamentalità l’essere si presenta ora come una pluralità di unità eterne e immutabili (i quattro elementi di Empedocle, le omeomerie, gli atomi). I fenomeni – ossia l’essere quale è manifesto nell’esperienza – sono l’essere derivato, ossia costituito dal raccogliersi e dal separarsi delle unità elementari dell’essere. L’essere derivato è cioè concepito in modo tale che in esso non vi sia nulla di più di quanto è contenuto nell’essere originario. La nascita e la morte – attestate dall’esperienza – riguardano l’essere derivato e quindi non pregiudicano l’eternità e l’incorruttibilità dell’essere originario. Quando qualcosa (il derivato) nasce, il suo essere preesisteva già tutto negli elementi che lo costituiscono; e quando muore, tutto il suo essere resta conservato negli elementi in cui si risolve.
L’atomismo presenta i caratteri della maggiore radicalità. È inevitabile che, riconoscendo esplicitamente la verità dell’esperienza, il pensiero filosofico resti conquistato dalle determinazioni materiali e sensibili dell’esperienza, che ne sono l’aspetto più appariscente, e sia spinto a intendere l’essere come materia. In questa prospettiva (già implicita in Empedocle e Anassagora), la soluzione atomistica è la più radicale e coerente. Anche perché incomincia ad avanzare un concetto che verrà sollevato alla luce più piena nel pensiero del grande Platone: che anche il non-essere è (se si vuole che il molteplice sia).
Ma, intanto, affermare che il non-essere esiste, non significa abbandonare un tratto essenziale della ragione, proprio nell’atto in cui si tenta di conciliare la ragione con l’esperienza? Non significa dare un’ulteriore conferma a quell’altro modo di affrontare l’antitesi di esperienza e ragione, che ritiene insuperabile l’antitesi e anzi la vede riproporsi nel seno stesso della ragione e dell’esperienza? Appunto in questo diverso modo di affrontare tale antitesi consiste la sofistica, di cui dovremo ora occuparci.
1. Empedocle nacque ad Agrigento, una città nella quale esercitò anche l’attività politica. Fu uomo dai molteplici interessi (filosofo della phýsis, poeta, politico, medico...) e scrisse due opere: un poema Sulla natura e un Poema lustrale, dei quali possediamo numerosi frammenti. Intorno a Empedocle sorsero, forse anche in ragione della sua fama di mago, numerose leggende. Della sua morte, in particolare, si narra che egli «s’incamminò verso l’Etna e che, giunto ai crateri del vulcano, vi si gettò e scomparve, volendo accreditare la voce, circolante su di lui, che era divenuto un dio; ma poi tutto si venne a sapere, avendo il vulcano rigettato uno dei suoi calzari» (DK 31 A1). Si tratta comunque di notizie leggendarie, alle quali la storiografia più recente dà scarso o nullo credito.
I poemi di Empedocle si leggono in Empedocle. Poema fisico e lustrale, a cura di C. Gallavotti, Fondazione Valla/Mondadori 19883 [1975]. Su Empedocle: E. Bignone, Empedocle, Bocca, Torino 1916 (rist. anast. L’Erma di Bretschneider, Roma 1963).
2. Anassagora nacque a Clazomene, sulle coste dell’Asia Minore, e scrisse un’opera Sulla natura, della quale ci sono pervenuti una ventina di frammenti. Fu, probabilmente, il primo filosofo ad introdurre ad Atene quella filosofia che, sino a quel momento, era sorta e si era sviluppata nell’ambito delle colonie.
I frammenti della sua opera si leggono in: Anassagora. Testimonianze e frammenti, a cura di D. Lanza, La Nuova Italia, Firenze 1966. Su Anassagora: F. Romano, Anassagora, Cedam, Padova 19742 [1965].
3. Pochissimo sappiamo di Leucippo, e pochissimo ne sapevano gli antichi (Epicuro, ad esempio, ne mise addiritura in buccio l’esistenza). Nacque probabilmente a Mileto, dalla quale passò ad Elea, e infine ad Abdera, dove fondò la sua scuola. Esponente di spicco dell’atomismo fu il suo allievo Democrito, il cui nome compare quasi sempre, nelle testimonianze, in compagnia di quello del maestro. Cronologicamente, l’attività di Democrito si sviluppa contemporaneamente a quella di Socrate e dei suoi primi discepoli, anche se il suo pensiero è inserito nell’orizzonte della filosofia presocratica.
In traduzione italiana: Gli Atomisti. Frammenti e testimonianze, a cura di V.E. Alfieri, Laterza, Bari 1936 (rist. in I Presocratici, Laterza, Roma-Bari 19863, vol. II, pp. 643-867). Sugli atomisti: V.E. Alfieri, Atomos Idea. L’origine del concetto di atomo nel pensiero greco [1953], Congedo, Galatina 1979; M.M. Sassi, La teoria della percezione in Democrito, La Nuova Italia, Firenze 1978; AA.VV., Democrito dall’atomo alla città, a cura di G. Casertano, Loffredo, Napoli 1983.
L’antinomia tra ragione ed esperienza, suscitata dal pensiero di Parmenide, e gli stessi tentativi compiuti per risolverla portano in primo piano la domanda sulla capacità dell’uomo di raggiungere la verità.
Con i sofisti (cfr. Nbb 1) (una parola, questa, che alla lettera significa “sapienti”, ma che in seguito sarà usata con intenti critici o addirittura dispregiativi), il pensiero filosofico concentra la sua attenzione appunto sull’uomo che conosce e sul valore della sua conoscenza: può raggiungere l’uomo un sapere necessario, assoluto, incontrovertibile, se nel seno stesso della verità si è acceso un dissidio radicale tra i due fondamentali momenti della verità stessa (l’esperienza e la ragione)? E come si può sperare di conciliare questo dissidio se le forze in lotta sono antitetiche e quindi, per definizione, inconciliabili?
Questo dissidio della verità con sé stessa sollecita la riflessione filosofica ad approfondire l’indagine (già Eraclito era su questa strada) sugli infiniti dissidi tra gli uomini, sulle loro lotte, la loro disparità di opinioni, il loro farsi guerra. La stessa evoluzione dall’assetto aristocratico a quello democratico nelle città greche del V secolo mette in evidenza un tipo di vita politica dove le leggi e gli ordinamenti sociali non sono più intesi come divini e intangibili, ma sono oggetto di discussioni pubbliche e private, condotte da contrastanti punti di vista e in base a opposti interessi. E già Eschilo, nelle sue grandi composizioni tragiche, aveva avvertito il conflitto tra l’antica civiltà mediterranea e la nuova e dominante civiltà indoeuropea, come conflitto tra gli antichi dèi della Terra e i nuovi dèi olimpici, e quindi come situazione tragica, dove l’uomo è spinto in direzioni opposte da forze antagoniste e irriducibili.
Il principio che tutte le cose vivano in una essenziale opposizione e discordia era stato potentemente affermato da Eraclito. Ed era inevitabile che fosse inteso come affermazione della coesistenza dei contrari in ogni cosa. Lo stesso principio che esclude la generazione dell’essere dal non-essere portava Anassagora ad affermare che nello stesso ente coesistono i contrari: se, ad esempio, una cosa bianca diventa nera, e se si vuole escludere che il nero si generi dal niente, si deve affermare che il nero preesiste già nella cosa bianca, la quale, pertanto, è insieme bianca e nera. E Democrito, affermando che il non-essere è, identificava l’essere e il non-essere, e poneva ogni ente (in quanto unità di pieno e di vuoto) come essere e insieme non-essere.
Questo motivo dell’opposizione e interna contraddizione della realtà finisce col diventare il criterio in base al quale i sofisti reagiscono alla contrapposizione tra ragione ed esperienza, portata alla luce dallo stesso pensiero filosofico. L’opposizione tra le cose significa che la stessa conoscenza della realtà è in contrasto con sé medesima e non può quindi diventare verità – se per “verità” si intende una conoscenza non smentibile, necessaria, definitiva e valida per tutti. L’esistenza stessa di una molteplicità di dottrine filosofiche in contrasto tra loro è la prova evidente, per i sofisti, che l’essere non si manifesta nella verità, ma solamente nelle discordanti opinioni degli uomini.
L’importanza della sofistica risiede innanzitutto in questa autocritica esplicita e radicale del sapere filosofico; dove, da un lato, l’idea della verità esige la più inesorabile intransigenza verso ogni conoscenza che intenda proporsi come verità; ma dove, dall’altro lato, diviene manifesto che la filosofia è il luogo all’interno del quale, solamente, può essere esercitata ogni critica al filosofare stesso.
Inoltre, nella sofistica si annuncia per la prima volta il tema che nella storia della cultura occidentale riceverà i più profondi sviluppi: l’abbandono della verità per ottenere la potenza sulle cose. Il lógos, in cui si esprime la verità, è sostituito per ora, nella sofistica, dalla tecnica del linguaggio, con la quale si è in grado di trasformare le opinioni degli uomini e delle società e si è quindi in grado di determinare il corso della vita verso quelle forme e ordinamenti che il “tecnico” ritiene migliori di quelle attuali.
Il “sofista” è appunto colui nel quale la sophía, rinunciando a essere verità, è divenuta la capacità tecnica di persuadere conformemente a dei fini. Egli è quindi maestro dell’arte di eccellere nella vita e il suo insegnamento è remunerato dai discepoli, destinati a diventare i dominatori della società.
a) Le antilogie. – Se Parmenide, per tener ferma la ragione, afferma l’illusorietà dell’esperienza, Protagora (V sec. a.C.; cfr. Nbb 1) tiene invece ferma l’esperienza, affermando il carattere antinomico e quindi illusorio della ragione.
D’altronde, già Democrito, per “salvare i fenomeni”, era stato costretto ad affermare che anche il non-essere è, intaccando così, nonostante le sue intenzioni, il cuore stesso della ragione, ossia l’opposizione dell’essere al non-essere. Ma Protagora rileva esplicitamente e intenzionalmente che la ragione stessa – il lógos – è essenzialmente in contrasto con sé medesima. A questa conclusione lo porta sia la considerazione dell’identificazione democritea di essere e non-essere, sia la considerazione dell’intera filosofia sino allora realizzatasi, dove la tesi dell’unità dell’essere è contrastata dall’antitesi della molteplicità dell’essere. Ma il contrasto non solo dilacera la ragione filosofica, ma anche ogni conoscenza umana intorno agli dèi (di cui quindi non si può saper nulla, se esistano o non esistano), le leggi etiche, giuridiche e politiche, le arti umane. Nella sua opera intitolata Antilogie (“discorsi antitetici”, ove un lógos è sempre contrastato da un lógos contrario) Protagora mostra appunto questo carattere intrinsecamente antitetico di ogni attività conoscitiva e pratica dell’uomo.
b) «L’uomo è misura di tutte le cose». – Non esiste dunque una verità assoluta e valida per tutti: la “verità” è l’esperienza di ogni uomo, cioè l’insieme dei fenomeni, delle cose che si manifestano a ognuno. Con Empedocle, Anassagora e Democrito, Protagora riconosce il valore dell’esperienza; ma non per conciliarla con la ragione, bensì per porla come l’unico ambito della verità.
Infatti, affinché delle cose che sono si possa sapere che sono, e delle cose che non sono si possa sapere che non sono (e la verità consiste nell’affermare l’essere di ciò che è e il non-essere di ciò che non è), ci si deve attenere a quell’unica “misura” (métron) o “criterio” che è il singolo uomo, in quanto luogo in cui le cose si manifestano. Cioè non può essere la ragione, bensì l’esperienza individuale a stabilire di che cosa si deve affermare l’essere e di che cosa il non-essere.
Quindi tutto ciò che appare è; e gli uomini differiscono tra di loro perché differiscono gli insiemi di fenomeni che appaiono a ognuno. Se al malato un cibo appare amaro, il cibo è amaro, e se a un onest’uomo un’azione sembra ingiusta, l’azione è ingiusta. Ma se al sano quello stesso cibo appare dolce, il cibo è, insieme dolce, e se a un disonesto quell’azione sembra giusta, essa è, insieme, giusta. È vero, pertanto, ciò che appare sia al malato, sia al sano, sia all’onesto, sia al disonesto; nessun fenomeno e nessuno stato è più o meno vero degli altri.
c) Il sofista. – Il sapiente (o “sofista”) non è quindi il privilegiato che, a differenza degli altri, possiede la verità (giacché tutte le esperienze umane sono vere), ma è colui che ha la capacità di portare gli uomini da uno stato che è ritenuto inferiore (perché, ad esempio, dannoso, o doloroso, o brutto) a uno ritenuto superiore: ad esempio dallo stato in cui l’uomo vive isolato dagli altri e senza leggi e giustizia, allo stato in cui gli uomini si riuniscono in una vita ordinata e civile (la quale, pertanto, non può vantare una maggior verità, ma solo una maggior convenienza di quella selvaggia dell’uomo primitivo).
In modo ancor più radicale Gorgia (seconda metà del V sec. a.C.; cfr. Nbb 1) mette in evidenza il carattere contraddittorio dei risultati cui è pervenuto il pensiero filosofico (e, a maggior ragione, il carattere contraddittorio di ogni altra forma di conoscenza umana).
a) «Non esiste nulla». – L’antitesi di ragione ed esperienza è insuperabile: il tentativo di conciliare l’esistenza dell’essere eterno con l’esistenza dei fenomeni divenienti spera l’impossibile, e si è invece costretti a riconoscere che “nulla esiste”. Infatti, dal punto di vista della ragione, le cose molteplici e divenienti del mondo non sono (appunto perché Parmenide ha dimostrato che l’essere è uno e immutabile); e dal punto di vista dell’esperienza è impensabile l’esistenza di un essere che, in quanto uno e ingenerato, non potrebbe sottostare a quelle determinazioni spaziali, secondo cui invece esistono le cose dell’esperienza. (E d’altra parte il tentativo atomistico di intendere l’essere come essere spaziale si risolve nell’affermazione che esiste sia l’essere sia il non-essere – sì che, in quanto entrambi esistenti, l’essere e il non-essere si identificano.)
b) «Se qualcosa esiste è inconoscibile». – Ma anche se si ammettesse che qualcosa esiste, di esso non potrebbe darsi una conoscenza assoluta e incontrovertibile. Se due fenomeni sono eterogenei, uno dei due non può diventare il criterio assoluto in base al quale l’altro sia giudicato: la vista non può giudicare la verità dell’udito, e viceversa. (Sulla base di una percezione visiva, ad esempio, non si può affermare la verità o falsità di una percezione uditiva.) E quindi sulla base della ragione non si può affermare la verità o la falsità dell’esperienza e viceversa (giacché le cose che appaiono alla ragione sono eterogenee rispetto ai fenomeni dell’esperienza).
È così condannata sia la pretesa di Parmenide e della sua scuola di stabilire, sulla base della ragione, il valore dell’esperienza, sia la pretesa dell’atomismo di modellare la struttura della ragione sulla base dell’esperienza. Quindi non hanno verità assoluta né gli oggetti conosciuti dalla ragione, né quelli conosciuti dall’esperienza. E, all’interno della ragione stessa e della stessa esperienza, non esistono oggetti più veri degli altri.
c) «Se qualcosa è conoscibile, è incomunicabile». – E infine, anche concedendo l’esistenza di una verità assoluta, essa non può venir comunicata, perché il linguaggio è eterogeneo rispetto alle cose di cui parla (ossia altro sono le cose, altro le parole); sì che noi, parlando, non riveliamo agli altri ciò di cui parliamo, ma soltanto le nostre parole.
Inoltre, ogni uomo si trova in condizioni fisiche e mentali diverse da quelle di ogni altro suo simile e quindi non è possibile che un pensiero rimanga identico quando da uno è comunicato a un altro. Le stesse cose appaiono diverse a individui diversi e lo stesso individuo ha impressioni sempre diverse intorno alle medesime cose.
Queste, le conclusioni di Gorgia.
d) L’antiteticità del conoscere e la vita. – Per Eraclito l’uomo deve vivere conformemente alla verità; ma la sofistica mostra il vanificarsi della verità e quindi non può nemmeno proporla come ciò a cui la vita dell’uomo debba uniformarsi. In questo senso ogni decisione umana è arbitraria, perché dà la sua preferenza a ciò che non ha più valore delle cose che non vengono scelte. E, come per Protagora, il sapiente è il “persuasore” che sa far scegliere non già quello che sia veramente bene o veramente giusto, bensì quello che in una certa situazione sembra il più opportuno (e che può diventare inopportuno in una diversa situazione).
In questa prospettiva, è inevitabile che l’opportunità e convenienza della scelta resti determinata da ultimo dagli istinti e dalla forza. Lo scopo della vita è il godimento dei piaceri (così, ci dice Platone, insegnava Callide); e poiché non tutti gli uomini sono uguali, ma ci sono i deboli e i forti, la giustizia è (come afferma Trasimaco) il dominio dei forti sui deboli.
1. La sofistica si sviluppò in Grecia tra il V e il IV sec. a.C. Tra i sofisti più noti debbono essere ricordati Protagora di Abdera e Gorgia di Lentini.
Protagora, si narra, «fu il primo ad esigere un compenso di cento mine» (DK 80A1) per il suo insegnamento (fatto, questo, che contribuì non poco a costruire e ad accentuare l’opinione negativa che della sofistica ebbero filosofi come Socrate e Platone). Fu, pare, scolaro di Democrito («ma fu in relazione anche coi Magi persiani, al tempo della spedizione di Serse contro la Grecia», DK 80A2) e fu spesso ad Atene dove probabilmente si legò di amicizia con Pericle. A causa di uno scritto nel quale affermava di non poter accertare né l’esistenza né l’inesistenza degli dèi, tuttavia, «fu cacciato via dagli Ateniesi, e i suoi libri, sequestrati da un banditore a chiunque li possedesse, furon bruciati nell’agorà» (DK 80A1). Tra i suoi scritti ricordiamo le Antilogie (o Discorsi contrapposti), e La verità (o Discorsi sovvertitori), che si apriva con la celebre affermazione che «Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono» (DK 80B1). Morì forse «in un naufragio navigando verso la Sicilia» (DK 80A3), all’età di settanta o di novant’anni.
Gorgia fu retore e filosofo, e scrisse – tra le altre cose – un trattato Sulla natura o sul non essere, che già nel titolo indica l’intento polemico dell’Autore nei confronti dell’ontologia eleatica. Le fonti sottolineano la sua straordinaria capacità oratoria: «Fu lui ai sofisti maestro di impeto oratorio, e audacia innovatrice d’espressione, e mossa ispirata, e tono sublime per le cose sublimi, e distacchi di frasi, e inizi improvvisi, tutte cose che rendono il discorso più armonioso e solenne. Inoltre lo ampliava con espressioni poetiche, per gusto dell’ornato e del grandioso» (DK 82A1). Tra le sue opere, oltre allo scritto sopra citato, vanno ricordate l’Encomio di Elena e l’Apologia di Palamede (che ci sono pervenute per intero), due grandi esercizi retorici che mostrano, in atto, tutta la capacità seducente della parola e l’abilità discorsiva di Gorgia.
Tra gli altri esponenti della sofistica antica si ricordano Prodico di Ceo, Trasimaco di Calcedonia, Ippia di Elide, Antifonte di Atene, Crizia di Atene.
Gli scritti dei sofisti si leggono in: I sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner e A. Battegazzore, La Nuova Italia, Firenze 1967 [1949-1962], 4 voll.
Sulla sofistica: M. Untersteiner, I sofisti [1949], Lampugnani-Nigri, Milano 19672, 2 voll.; L. Sichirollo, Retorica, sofistica, dialettica. Genesi della dialettica nel V sec. a.C., in “Il Pensiero”, 6, 1961, pp. 48-67; A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Nuova Accademia, Milano 1961, pp. 22-39; F. Adorno, I sofisti e Socrate, Loescher, Torino 1962; A. Levi, Storia della sofistica, a cura di D. Pesce, Morano, Napoli 1966; G. Casertano, Natura e istituzioni umane nelle dottrine dei Sofisti, Il tripode, Napoli 1971; M. Migliori, La filosofia di Gorgia, Celuc, Milano 1973; M. Isnardi Parente, Sofistica e democrazia antica, Sansoni, Firenze 1975; I. Lana, Lingua e discorso nell’Atene delle professioni, Liguori, Napoli 1979; G.B. Kerferd, I sofisti [1981], tr. it., Il Mulino, Bologna 1988.
In Socrate (469-399 a.C.; cfr. Nbb 1) la critica dei sofisti a ogni forma di conoscenza diventa radicale. Ma, proprio per questo, Socrate ristabilisce un rapporto positivo con la verità. È sulla base di questo rapporto che, dopo Socrate, il pensiero filosofico potrà riaffrontare quel problema della conciliazione di ragione ed esperienza che aveva condotto la sofistica a negare l’esistenza della verità – l’esistenza, appunto, di un rapporto positivo del sapere umano alla verità.
Socrate afferma continuamente di non sapere. Ma questa affermazione è ben lontana dall’essere un atto di modestia, anche se tale può sembrare ai più sprovveduti. Egli infatti vuol dire che attorno a lui non c’è nulla che gli consenta di sapere: né leggi, né consuetudini sociali, né credenze religiose, né principi morali, né dottrine di filosofi. Giacché il “sapere” è conoscenza ferma, incrollabile, incontrovertibile – il “sapere” è cioè la verità –; e, invece, tutte quelle conoscenze e regole, una volta esaminate, si rivelano o gratuite (ossia affermate e praticate senza che si sappia veramente perché le si affermi e le si pratichi), o addirittura contraddittorie (tali cioè che vengano esse stesse a negare ciò che intendono affermare).
Per Socrate dichiarare di non sapere significa dunque che nessuna delle convinzioni umane a lui note gli si presenta come verità – nemmeno quelle che esplicitamente intendono valere come verità filosofica di contro alle semplici opinioni, e nemmeno quelle (proprie dei sofisti) che presumono porsi come là eliminazione definitiva di ogni verità. In questo senso, la critica di Socrate alla società è ancor più radicale di quella dei sofisti; e la condanna di Socrate da parte della società ateniese è la naturale reazione e difesa di una società che si sente minacciata nel modo più pericoloso.
Non so. Ma “so di non sapere”. La differenza che Socrate pone tra sé e gli altri è appunto questa: che gli altri non sanno di non sapere, mentre lui sa di non sapere. Sa cioè che la società e la cultura in cui vive non corrispondono all’idea della verità che i primi pensatori hanno portato alla luce, e quindi sa che cosa sia quella verità di cui egli rileva l’assenza: gli è cioè presente l’idea della verità.
Ma saper di non sapere non significa soltanto aver presente l’idea della verità, ma essere nella verità. La verità rinasce su un piano diverso, proprio nell’atto in cui ci si rende conto di non sapere, cioè di non possedere la verità: la verità è ora appunto la verità della critica e del rifiuto di tutto ciò che si va scoprendo privo di verità.
È una verità povera – che consiste appunto nel semplice sapere di non sapere –, ma è anche una verità che si dispone a diventare ricca, nel senso che è il mettersi alla ricerca di quel vero sapere che ora si sa di non possedere. L’Oracolo aveva detto che Socrate era il più sapiente dei Greci; e Socrate è convinto che questa sua maggior sapienza consista appunto nel suo sapere di non sapere: ciò vuol dire che la coscienza di non sapere è intesa da Socrate come possesso della verità (l’esser sapientissimo tra i Greci esprimendo appunto questo possesso): quel possesso che è per altro la condizione della ricerca di un sapere che non sia il semplice (ma ineliminabile) saper di non sapere.
L’intera vita di Socrate è stata la ricerca di quel sapere di cui egli si sapeva privo. Egli non l’ha trovato, ma ha stabilito alcune condizioni fondamentali affinché il pensiero filosofico potesse mettersi in cammino per trovarlo.
Innanzitutto, la verità non può esserci trasmessa da altri o venirci comunque data dall’esterno. Già Gorgia aveva mostrato l’incapacità del linguaggio a rivelare e a trasmettere ciò di cui esso parla: questa critica del linguaggio è accettata e anzi spinta a fondo da Socrate. Egli avverte infatti di continuo i suoi interlocutori che, rivolgendosi a loro, non ha nulla da insegnare. Se essi giungono a scoprire la verità, è perché l’hanno in sé e sono quindi essi stessi a generarla: lui, li può solo aiutare in questa generazione, ripetendo con essi quanto sua madre, levatrice, faceva con le partorienti. La “maieutica” (alla lettera: “arte dell’ostetricia”) è appunto il modo in cui Socrate si rapporta a chi non è ancora nella verità: a costui domanda il significato e la giustificazione di ciò che egli crede di sapere. Ma l’interlocutore, che esprime di volta in volta le varie istanze della cultura o della società del suo tempo, finisce col non saper più rispondere: perché Socrate esige da lui una risposta che in nessun modo possa venir contraddetta o infirmata (e invece la risposta è spesso essa stessa in contraddizione con sé medesima); Socrate domanda la verità delle convinzioni dell’interlocutore. E la verità nasce in quest’ultimo proprio quando egli si rende conto che tutto il sapere che credeva di possedere non ha alcuna verità – quando, cioè, anche lui giunge a sapere di non sapere.
Ma, appunto, questo sapere, o riconoscimento, siamo noi a doverlo realizzare: la verità esiste per noi solo in quanto la riconosciamo, e questo riconoscimento non può essere un altro a compierlo in vece nostra, né può esserci insegnato o trasmesso. La tesi di Gorgia dell’incomunicabilità della verità serve a Socrate non per mostrare come la verità sia assente dall’uomo, ma per mostrare che essa risiede in una dimensione diversa da quella esteriore del linguaggio e dell’insegnamento. Questa dimensione siamo noi stessi: non già, dunque, in quanto corpo o sensibilità, ma in quanto coscienza. In questo senso Socrate riconosce il valore essenziale dell’invito scritto sul frontone del tempio di Delfi: «Conosci te stesso».
La ragione fondamentale della debolezza (ossia della non verità) di ogni forma di conoscenza a lui nota è ravvisata da Socrate nell’incapacità di stabilire, innanzitutto, il significato di ciò intorno a cui si presume sapere qualcosa. Le conseguenze di questa incapacità si fanno sentire nel profondo dissenso che regna tra gli uomini relativamente alle questioni di maggior importanza per loro: sul bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto. Che ci si possa mettere facilmente d’accordo sulla grandezza, peso, forma, numero degli oggetti – cioè su quegli aspetti quantitativi dell’esperienza, sui quali l’atomismo andava richiamando l’attenzione –, Socrate lo concede senza difficoltà. Ma questo accordo dà luogo a cognizioni che non chiariscono il senso dell’uomo e la sua vita.
Ciò che manca alle opinioni riguardanti il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, è innanzitutto la capacità di definire “che cosa sia” ognuno di questi termini. Ci si trova quindi a dissentire intorno, ad esempio, alla giustizia di un’azione senza avere innanzitutto stabilito che cosa sia la giustizia e cioè senza averne definito il significato. Gli interlocutori di Socrate sono tutti convinti di sapere che cosa sia ciò di cui si discute, ma in effetti non lo sanno. Credono di sapere che cosa sia la giustizia, perché sanno indicare una certa azione giusta (o una intera serie di azioni giuste), o una proprietà della giustizia. Ma la giustizia non è né questa o quell’azione, né questa o quella sua proprietà, bensì è ciò che rende giusta una certa azione ed è ciò che possiede una certa proprietà; e quindi resta ancora da stabilire che cosa sia questo qualcosa.
Se definiamo la giustizia indicando un’azione giusta – se, ad esempio, diciamo che “giustizia” è la “restituzione di un prestito” – si presenta un duplice inconveniente. Da un lato è possibile indicare altre azioni giuste (ad esempio la punizione di un delinquente) che non potrebbero essere un atto di giustizia, se questa fosse soltanto la restituzione di un prestito. (Questo primo inconveniente si presenta anche qualora si definisca la giustizia con una delle sue proprietà.) Dall’altro lato è possibile indicare dei casi in cui la giustizia sta proprio nel non restituire un prestito – ad esempio qualora il debitore sapesse che la somma restituita servirà per compiere un’azione delittuosa.
Ci si deve quindi proporre di definire che cosa sia la giustizia in sé stessa e cioè di definire che cosa sia ciò che, realizzandosi in ogni azione giusta, fa sì che essa sia giusta. La giustizia, così intesa, è l’universale, rispetto al quale le azioni giuste sono i particolari. L’universale è appunto l’idea o la regola secondo cui ogni particolare si realizza.
L’importanza dell’indagine socratica non sta nell’avere effettivamente definito il giusto, il bene, il bello o qualsiasi altra determinazione, ma nell’aver messo in luce che il sapere, di cui si è privi, potrà essere raggiunto solo a condizione che il suo contenuto si presenti come determinazione universale. E quindi come oggetto di pensiero.
Infatti l’universale non è qualcosa di sensibile (tale cioè che si possa vedere, toccare, udire, ecc.): sensibili sono i particolari – ad esempio le singole azioni giuste, i singoli uomini, le singole case, ecc. Ma la definizione di “giustizia”, “uomo”, “casa” (e cioè il “che cosa è” giustizia, uomo, casa) non è manifestata dal tatto, o dall’olfatto, o dalla vista, ma da quell’attività, diversa dai sensi, che è il pensiero. Pertanto la verità delle cose non potrà mai essere data dal loro aspetto sensibile, ma da ciò che il pensiero dice delle cose, ossia da quell’universale che il pensiero coglie in ogni sensibile e che, in quanto colto dal pensiero, si dice “concetto”. Ci si deve quindi porre alla ricerca della verità, con l’intento di stabilire un sistema (un organismo) di concetti.
Sino a che non ci si sa sollevare al concetto universale delle cose, la posizione dei sofisti è certamente insuperabile: la conoscenza – come conoscenza dei particolari – è infatti certamente relativa e contraddittoria, e l’accordo e la comunicazione tra gli uomini è effettivamente impossibile. L’aspetto sensibile delle cose è certamente diverso per ogni uomo; e anche incomunicabile: come posso farti sentire quello che sento io, se quello che tu senti, proprio perché sei tu a sentirlo, è necessariamente diverso da quello che sento io?
Ma, anche qui, la critica alla conoscenza del particolare e del sensibile è positivamente sfruttata da Socrate: essa non ha l’intento di pervenire (come la critica sofistica) alla dichiarazione dell’irraggiungibilità della verità e dell’accordo e comunicazione tra gli uomini, bensì intende mostrare come verità, accordo e comunicazione vadano ricercati in una dimensione diversa da quella del particolare e del sensibile: il dialogo tra gli uomini è possibile intorno al concetto delle cose, ed è relativamente al concetto che può costituirsi tra loro un accordo nella verità.
a) Intellettualismo e volontarismo etico. – Ricercare la verità significa andare alla ricerca della stessa forza suprema che può guidare la vita dell’uomo. La potenza, cui mirano i sofisti dopo aver rinunciato alla verità, è invece soltanto apparente.
Se l’uomo scopre la verità, questa è la forza che vince e domina ogni altra che presuma guidare la nostra vita: il manifestarsi della verità ci spinge cioè necessariamente a vivere conformemente a essa. Chi non vive in questa conformità non è colui che, pur conoscendo la verità, non voglia vivere secondo essa, bensì è colui che non la conosce.
Socrate contrappone questa sua tesi (che di solito vien qualificata come “intellettualismo etico”, e cioè come affermazione che basti conoscere il bene perché lo si pratichi) alla tesi comunemente sostenuta: che l’uomo possa conoscere il bene e decidere tuttavia di fare il male (“volontarismo etico”). In questa seconda prospettiva si crede che dominatori delle azioni umane siano le passioni e gli istinti, e che il sapere (ad esempio il sapere che qualcosa è male) resti sempre sopraffatto da questi.
Ma che sapere è questo, che resta così sopraffatto? Socrate mette in luce come tale “sapere” sia in realtà un nonsapere, un semplice congetturare, un’opinione senza verità. Ben diversamente vanno le cose se per “sapere” si intende la verità stessa nella sua assolutezza e incontrovertibilità. Vediamo.
b) L’agir male è non sapere. – Socrate incomincia a stabilire che le cose che dan piacere non sono male in quanto dan piacere, ma in quanto sono seguite da dolore e infelicità: se non ci fossero queste conseguenze negative, il bene coinciderebbe col piacere. E viceversa. Le azioni buone, ma dolorose, non sono buone in quanto dolorose, ma in quanto sono seguite dalla felicità, dal benessere, dal piacere. Quindi il bene è piacere e il male è dolore (e si assumano i due termini “piacere” e “dolore” nel senso più ampio): diciamo infatti che un’azione piacevole è male appunto perché è seguita da un male che è maggiore del piacere prodotto da quell’azione; e che un’azione dolorosa è bene perché è seguita da un piacere maggiore del dolore prima provato.
Ciò posto, che cosa significa affermare che un uomo, vinto dal piacere, fa il male pur sapendo che è male? Ormai questa affermazione si presenta come un assurdo, perché essa viene a sostenere ciò che gli uomini non fanno mai e non possono mai fare: essa infatti viene a dire che un uomo, per godere beni minori, decide di sopportare mali maggiori (giacché il piacere, da cui l’uomo è vinto, è detto “male” proprio perché è un piacere minore dei dolori che da esso seguiranno). Ma nessuno, quello che fa, lo fa per subire il maggior dolore, bensì per godere il maggior piacere. Chi dunque fa il male, lo fa perché non sa che il piacere da lui goduto sarà seguito da un maggior dolore: non lo sa veramente, incontrovertibilmente, non possiede la verità del bene e del male, ma soltanto congetture più o meno radicate in lui. Se sapesse veramente in che misura ciò che egli può fare è bene e in che misura è male, allora, avendo come davanti a sé tutto il piacere e tutto il dolore che sono legati a ciò che sta per fare, non farebbe mai il male.
c) La “salvezza”. – Questo “saper veramente” la misura del bene e del male di ciò che facciamo, è appunto quella verità che Socrate dice di non possedere ancora e di andar quindi ricercando. Quando la si trovasse, essa sarebbe la potenza e la forza dominatrice nella vita dell’uomo – l’unica e autentica “virtù” – perché ogni altra forza che pretendesse guidare le nostre azioni non potrebbe essere da ultimo che arrecatrice del maggior dolore.
Raggiungere la verità significa quindi raggiungere “la salvezza della vita”, secondo l’espressione socratica. Con Socrate la filosofia ribadisce nel modo più esplicito il rapporto essenziale tra la verità e la vita.
d) Il “demone”. – Sapendo di non possedere la verità e di ignorare quindi che cosa sia il bene e il male, Socrate si lasciava guidare nella sua vita – così egli afferma – da un “demone”, ossia da una voce divina che lo tratteneva dal compiere certe azioni. In effetti è, questa, la voce della fede, secondo cui è necessario si regoli chi non possiede la verità: altrimenti (se cioè non esistesse un criterio in base al quale decidersi in un senso o nell’altro) non potremmo più vivere.
Il contenuto di questa fede socratica è attinto soprattutto da quei primi filosofi, di cui Socrate pur avvertiva la grandezza: un governo divino del mondo da cui l’uomo deve lasciarsi guidare. Per Socrate questo governo si esprime nelle stesse leggi della sua città (per non violare le quali egli rifiuta la proposta di fuggire dal carcere, fattagli dall’amico Critone). In questa fede è quindi presente anche l’accettazione della società in cui Socrate vive: di quella stessa società alla quale egli non può tuttavia riconoscere un valore di verità.
Per sapere che cosa è il bene si deve conoscere (cfr. § 5, b) quanto piacere e dolore futuri siano connessi, rispettivamente, al dolore e al piacere presenti. Tuttavia, tra il presente e il futuro c’è differenza: il presente è l’esperienza sensibile, che in quanto manifesta, non può venire negata; il futuro è invece l’incerto. In questo modo, Aristippo mette in rilievo come il “concetto” sia pur sempre concetto di oggetti sensibili e come quindi si debba continuare ad attribuire all’esperienza sensibile quel carattere di criterio di verità che già Protagora le aveva riconosciuto. Ne consegue, per Aristippo e per gli altri filosofi della scuola di Cirene (V-IV sec. a.C.; cfr. Nbb 1), che il bene coincide col piacere presente, ossia col piacere sicuro che l’esperienza sensibile ci offre e come quindi la vita umana debba essere regolata in modo tale che l’uomo divenga il padrone del proprio piacere, l’artefice della propria felicità, mediante l’abbandono di ogni illusorio inseguimento di un maggior piacere futuro.
Ma l’uomo può divenire per davvero l’artefice della propria felicità solo se si rende indipendente da tutto quanto, dal punto di vista della società, è ritenuto un bene: ricchezze, fama, rispettabilità, potere politico, piacere dei sensi, divertimenti, comodità. Tutte queste sono convenzioni sociali e Diogene, che vive in una botte, intende realizzare il rifiuto più radicale della società in cui vive.
Tuttavia questo rifiuto non consiste nel proposito di trasformare la società (come invece avviene in Platone), ma nel tentativo – che poi sarà particolarmente sviluppato dagli stoici – di vivere, al di fuori della società, una vita naturale e autosufficiente.
Per altra via, questo tentativo viene ripreso da una terza scuola socratica, a Mégara (cfr. Nbb 1). Contrariamente ad Aristippo, che pone come verità l’esperienza, i megarici pongono come verità la ragione parmenidea, affermante la realtà dell’Uno e l’irrealtà del molteplice.
All’interno della problematica socratica si ripresenta così il grande conflitto tra l’istanza dell’esperienza e quella della ragione. Ma mentre Platone introduce gli elementi fondamentali della conciliazione di tale conflitto, queste scuole socratiche insistono ancora nella valorizzazione astratta di uno dei due termini antitetici. I megarici identificano appunto il bene all’Essere uno, e il male al non-essere. L’autosufficienza dell’uomo, che gli garantisce il possesso del bene, è così il riferimento dell’uomo all’Uno, e la società (come aspetto emergente del molteplice) viene rifiutata perché è non-essere.
1. La vicenda biografica di Socrate è strettamente legata a quella filosofica. Nacque ad Atene, figlio di uno scultore (Sofronisco) e di una levatrice (Fenarete). Non scrisse nulla, ritenendo la ricerca filosofica possibile solo in presenza di un dialogo vivente tra gli interlocutori. (Ciò, tra le altre cose, rende non semplice il compito di ricostruire il suo pensiero, per il quale è necessario appoggiarsi, mettendole a confronto, alle testimonianze, spesso tra loro divergenti, di Platone, Aristotele, Senofonte, Aristofane e altri.) Socrate fu, pare, inizialmente scultore come il padre; fu poi soldato nel corso della guerra del Peloponneso e pritano nel Consiglio dei cinquecento (e fu, nell’esercizio della sua carica, l’unico ad opporsi al giudizio sommario degli strateghi vincitori alle Arginuse, che erano stati accusati di non aver salvato naufraghi e feriti dopo la battaglia). Dal punto di vista filosofico, pare accertato che in un primo tempo Socrate seguisse le tesi dei filosofi della phýsis, passando poi – certamente sotto l’influsso della sofistica – a quel pensiero e a quel metodo di indagine che ci sono stati tramandati dalle pagine platoniche e senofontee. Il suo insegnamento, spregiudicato e tagliente, dovette apparire pericoloso agli occhi degli Ateniesi conservatori, che lo accusarono di corrompere i giovani e di non credere agli dèi della patria (399 a.C.). Fu processato e condannato a morte: nel corso del processo, Socrate sostenne in modo appassionato le sue opinioni, senza cedimenti e senza scendere a compromessi (il resoconto della sua autodifesa ci è stato tramandato da Platone, in uno degli scritti suoi più belli: l’Apologia di Socrate). Rifiutò di fuggire dalla prigione nella quale era rinchiuso (persuaso che alle Leggi della città, per quanto ingiuste potessero essere, fosse dovuta obbedienza), e attese con serenità la morte, discutendo di filosofia con alcuni discepoli (nel Critone e nel Fedone, Platone ci ha lasciato appunto la testimonianza viva di queste vicende).
Dopo la morte di Socrate, i suoi discepoli diedero vita a scuole di pensiero diverse, in polemica tra loro circa l’interpretazione più corretta del pensiero del maestro. Oltre all’Accademia, fondata da Platone (cfr. cap. IX, Nbb 1), devono essere qui ricordate la scuola cinica, fondata da Antistene nel IV sec. a.C. e durata fino al IV sec. d.C. (la scuola deriva il suo nome dalla parola kúon, che in greco significa “cane”: nel ginnasio Cinosarge – cioè del “cane agile” – Antistene aveva fondato infatti la sua scuola; ma il nome fa riferimento anche alla vita randagia che i cinici praticavano, come risulta chiaro dalla figura di Diogene di Sinope, che è probabilmente la più significativa della scuola); quella megarica di Euclide (fondata a Megara e sviluppatasi anche in età ellenistica), quella cirenaica di Aristippo (fondata a Cirene, la scuola non ebbe molta fortuna, e in età ellenistica declinò rapidamente, soppiantata da quella epicurea).
Un punto di riferimento indispensabile per la ricostruzione della filosofia socratica è il volume Socrate. Tutte le testimonianze da Aristofane e Senofonte ai Padri cristiani, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1986; da esso sono escluse le testimonianze platoniche (stante che in tutta l’opera di Platone la presenza di Socrate, sia essa esplicita o implicita, è costante), per le quali si farà riferimento a una delle edizioni delle opere di Platone indicate nella nota 1 del capitolo successivo.
I testi dei socratici minori sono raccolti nella fondamentale opera di G. Giannantoni, Socraticorum Reliquiae, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1983 sgg., 4 voll. Sulle scuole socratiche minori cfr.: AA.VV., Scuole Socratiche minori e filosofia ellenistica, a cura di G. Giannantoni, Il Mulino, Bologna 1977.
Su Socrate: H. Maier, Socrate. La sua opera e il suo posto nella storia [1913], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1978; A. Taylor, Socrate [1933], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1969; A. Banfi, Socrate [1943], Mondadori, Milano 1984 (rist., ivi, 1990); W.K.C. Guthrie, Socrate [1969], tr. it., Il Mulino, Bologna 1986; F. Adorno, Introduzione a Socrate [1970], Laterza, Roma-Bari 19885 (con ampia bibliografia critica); G. Giannantoni, Che cosa ha veramente detto Socrate, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971 (particolarmente attento alla vicenda biografica); M. Montuori, Socrate. Fisiologia di un mito, Sansoni, Firenze 1974; F. Sarri, Socrate e la genesi dell’idea occidentale di anima, Abete, Roma 1975, 2 voll.; I.F. Stone, Il processo a Socrate [1988], tr. it., Rizzoli, Milano 1990; M. Pancaldi-M. Trombino (a cura di), L’“Apologia di Socrate” di Platone e il problema della giustizia nel mondo greco, Paravia, Torino 1991.