IX

 

 

 

 

 

 

 

Mezzanotte e mezza. Questo diceva l’orologio incassato nel cruscotto della Maserati. Steno parcheggiò nel posteggio della Triennale, il museo del design di Milano. Si trova sopra a una collinetta artificiale. L’Old Fashion sta proprio lì sotto, all’inizio di Parco Sempione. Per questo da sempre i clienti della discoteca parcheggiano di fronte alla Triennale, che tanto la notte è chiusa. E così fece Steno quella sera. Visto che davanti alla Triennale non c’era Alberto a vigilare sulla Maserati, era meglio pagare per evitare sorprese a pneumatici e carrozzeria. Steno lasciò tre euro al posteggiatore abusivo indiano. Guardandolo armeggiare con banconote e bigliettini, Steno pensò due cose. La prima: la pettorina arancione non lo faceva somigliare a un parcheggiatore in regola, come avrebbe voluto. Sembrava solo un parcheggiatore indiano abusivo con una pettorina arancione. La seconda, più importante: era lo stesso parcheggiatore a cui aveva lasciato la macchina la sera prima.

Steno scese dalla Maserati e così fece Sabine, che durante il tragitto fra l’albergo e l’Old Fashion aveva quasi fatto in tempo ad addormentarsi.

«Tu eri qui anche ieri sera», disse Steno al parcheggiatore. Lui non rispose.

Steno tirò fuori dalla tasca il telefono e cercò in Rete la foto di una Lada Niva passo lungo nera. «Hai visto questa macchina?» gli chiese.

«Ieri?» domandò l’indiano, ciondolando leggermente la testa, come fanno gli indiani. «Sì. Era parcheggiata laggiù, all’inizio del ponte.»

«Mai vista. Né ieri né un altro giorno», tagliò corto l’indiano, che con l’italiano se la cavava bene.

«Qui vicino ci sono altri parcheggi?» domandò Steno.

«Non a pagamento. Ci sono i parcheggi per gli incontri, ma non sono parcheggi ufficiali. Li usano i maschi che cercano altri maschi. Si mettono dove trovano posto, anche lontano da qui. A volte mettono le macchine una vicina all’altra e poi fanno quello che devono fare. Oppure usano dei furgoncini», ribatté l’indiano. Sabine sorrise. «Parli dei gay che vanno giù alla buca?» gli chiese.

«Esatto, quelli della buca», confermò l’indiano, ciondolando il capo con maggior vigore.

 

Steno e Sabine salutarono il parcheggiatore, dopo avergli lasciato la mancia extra in cui sperava, e si allontanarono a piedi. Arrivarono al baracchino dei panini, all’ingresso del parco. Le ragazzine, con stivali alti e piumino, facevano il carico di Cuba libre prima di andare a ballare. Gli studenti fumavano sotto gli alberi. Uomini sopra i cinquanta, vestiti come fossero a Cortina negli anni Ottanta, facevano il carico di whisky e fumavano appoggiati a una Range Rover. Steno provò a parlare anzitutto con i ragazzi che fumavano sotto gli alberi. Nessuno aveva visto la Lada Niva passo lungo. Idem le ragazzine che facevano il pieno di Cuba libre. Nemmeno i cinquantenni arrivati dagli anni Ottanta in Range Rover avevano visto il fuoristrada. Ma erano d’accordo nel dire che era una gran macchina. E che mezzi come quello non ne facevano più. E che i comunisti certe cose le sapevano fare, fra cui appunto i fuoristrada. E soprattutto che le ragazze russe sanno fare un sacco di altre cose, comunismo o non comunismo.

 

Steno e Sabine si incamminarono lungo il sentiero che si snoda fra gli alberi, verso il ponte sulla ferrovia, lasciandosi alle spalle il baracchino dei panini, la Triennale e la discoteca Old Fashion. Il ponte sulla ferrovia porta alle Gemelle, le uniche curve simmetriche di Milano. Ma Steno e Sabine non giunsero fino alle curve, si fermarono prima. All’inizio del ponte, Steno indicò un camioncino di lamiera bianca, pieno di ruggine e adesivi. Aveva le ruote a terra. Il disegno sbiadito di una fetta di anguria copriva quasi per intero la fiancata. Era parcheggiato proprio dove la strada comincia a salire. «Ieri sera il fuoristrada nero era lì, di fianco al baracchino chiuso. Lo hai visto anche tu?»

«Non saprei», rispose Sabine.

Che domande sono? Nessuno si ricorda di una macchina nera parcheggiata al buio, pensò Sabine.

Donne, pensò Steno.

«Quando siamo usciti dalla discoteca, quella macchina non c’era più mi sembra. Ok, non ero molto in forma, può essere che mi sia sfuggita. Ma ho buone ragioni per pensare che non ci fosse più. Noi siamo usciti verso le cinque e quella macchina più di un’ora prima è stata inquadrata dalle telecamere vicino all’ospedale Fatebenefratelli, a quasi tre chilometri da qui. A meno che ieri sera non ci fossero in giro per Milano due Lada Niva passo lungo nere, ma mi sembra davvero improbabile.»

Sabine guardò Steno perplessa. Anzi, lo guardò come se fosse un perfetto idiota.

«E mi hai portato qui a mezzanotte per fare fotografie a una jeep russa che non c’è più da ieri sera?» domandò.

«Voglio capire di chi è il fuoristrada. E se necessario fare un po’ di foto da usare sul giornale.» Steno aveva deciso di fidarsi di lei. Le raccontò la storia dall’inizio: il cadavere del figlio del console americano, le telecamere, la Lada Niva passo lungo, le targhe che non si vedevano chiaramente nel filmato. Concluse: «Se riusciamo a capire di chi è quella macchina, forse sapremo chi ha ucciso Kellan Armstrong».

 

Sabine camminò fino al centro del ponte e si appoggiò alla ringhiera. Accese una sigaretta e fissò i binari delle ferrovie Nord, deserti e innevati. Steno la raggiunse e la imitò in tutto. Accese una sigaretta, appoggiò i gomiti alla ringhiera, fissò i binari.

«Tu lo sai vero che cosa succede ogni notte qua sotto?» domandò Sabine.

«Qui, sui binari?» domandò Steno.

«No, non sui binari. Di fianco ai binari, là sotto, nella buca. Nel parchetto che abbiamo appena superato tra la ferrovia e la Triennale. Un tempo i milanesi la chiamavano la fossa. La buca dei froci di cui parlava il parcheggiatore.»

Steno non aveva idea di cosa succedesse ogni notte nella buca dei froci. A parte il fatto che con ogni probabilità era frequentata da gay, visto il nome. Ma non voleva fare la figura del gringo che non conosce le regole del posto, quindi evitò di fare troppe domande. Si limitò a fumare e non dire niente. Sabine, che come tutti i milanesi per questa cosa ha una specie di radar, percepì l’imbarazzo del forestiero e decise di andarci giù pesante. «Va bene che sei di Como, o di dove hai detto che sei. E probabilmente dalle tue parti i gay sono costretti a imballarsi di Viagra e andare con le donne. Ma fai il giornalista, dovresti sapere cosa succede ogni notte in questa buca. Tutti sanno cosa succede in questa cazzo di buca.»

 

Steno pensò che non gli piacevano le donne che dicono parolacce. E ammise finalmente che no, non aveva idea di cosa succedesse nella buca, né di notte né di giorno. Era quello che voleva Sabine, che di colpo diventò gentile.

«Be’, devi sapere che a differenza di Como, Milano è grande. E nelle città grandi ci sono un sacco di gay che arrivano da tutte le parti, forse anche da Como», attaccò la ragazza, con tono professorale. «Alcuni sono pigri e se ne stanno a casa con il loro fidanzato a mangiare gelato sul divano davanti alla Tv. Altri sono come me e te, e vanno in discoteca a cercare qualcuno con cui passare la notte. Altri ancora fanno due passi nella buca, e inculano o si fanno inculare più o meno da chi capita dietro ai cespugli, gratis o a pagamento.»

Steno notò il gusto con cui Sabine pronunciava il verbo «incularsi», nelle sue declinazioni. Lei notò che lo aveva notato, e attaccò con la filippica che aveva in mente da quando avevano cominciato a parlare della buca.

«Sia ben chiaro che non ho niente contro i gay. Anche se devo dire che lavorare nella moda ti mette alla prova.»

«Se si fosse trattato di etero, avresti detto scopare. Invece, visto che nella buca ci vanno i gay, dici incularsi. E peraltro lo dici di continuo», disse Steno e sapeva che le stava facendo un favore. Sabine, riconoscente, non sprecò l’occasione.

«Fermi tutti. Dipende. Se un ragazzo e una ragazza fanno le cose come le insegnano sui libri di educazione sessuale alle medie, dico scopare. Non ci piove. Ma se lui fa il furbo e lei non ha niente in contrario, per me si dice inculare. L’omofobia non c’entra. È chiamare le cose con il loro nome.»

Steno assunse un’espressione da uomo di mondo, cosa che peraltro era veramente, secondo i criteri correnti. Spense la sigaretta, fissò ancora per un attimo i binari, poi si voltò verso Sabine.

«Dici che lo fanno anche in dicembre, con un metro di neve per terra?» le domandò.

«Di incularsi dietro agli alberi nella buca? Può darsi. O magari si ingegnano in qualche altro modo», rispose lei. «Certo, in dicembre con ogni probabilità gli tocca usare l’antigelo.»

Steno ringraziò Sabine con una sorta di inchino di fronte all’autorevolezza delle fonti. E pensò che poteva essere una buona idea fare due passi là sotto, per capire se qualcuno la sera prima avesse visto la Lada Niva passo lungo.

Raggiunsero il margine della buca. Vista da sopra, sembrava esattamente quello che era: un lungo fossato, stretto tra la ferrovia e il viale che attraversa il parco. Né dalla strada, né tantomeno dai binari, era possibile vedere cosa succedesse là sotto. Sui due bordi del fossato c’erano alberi e cespugli quasi completamente ricoperti dalla neve, che attutivano la luce dei lampioni. Quindi la buca era buia come una galleria senza luci.

 

Sabine aspettò all’imboccatura del sentierino che portava nella buca e accese l’ennesima sigaretta della serata. Intanto, cominciò a preparare la macchina fotografica, in modo da poter scattare qualche immagine dall’alto. «Scendi solo tu», disse a Steno, «una donna lì sotto dà nell’occhio come un estintore sul tavolo della prima colazione. Io cerco un punto da cui scattare qualche foto, se può servire.» Steno le disse che era d’accordo. Superò il filare degli alberi, dove il sentierino cominciava a scendere. Oltre gli alberi, era tanto buio che nemmeno la neve sembrava poi così bianca. In compenso lo strato era spesso. Anche nei punti più battuti, le scarpe sprofondavano. In alto, ai due lati del fossato, gli alberi nascondevano la strada come la ferrovia. Steno pensò che avrebbe dovuto fare attenzione a non inciampare in qualche radice o altro.

Allontanandosi dal ponte, giunse sul fondo della buca. Sentì una vocina stridula venire dall’oscurità. Forse da dietro ai cespugli, senz’altro dal lato della ferrovia. «Ciao.» Steno scrutò nel vuoto, ma non c’era nessuno. «Ciao, serve qualcosa?» disse di nuovo la vocina. Questa volta, assieme alla vocina arrivò anche un uomo basso, con addosso una specie di cerata scura. Nonostante avesse un cappuccio, si capiva che in testa aveva ben pochi capelli. Alle mani portava guanti di lana bianchi. Per quel poco che riusciva a vedere, Steno notò che l’uomo strizzava gli occhi dietro a un pesante paio di occhiali con le lenti tonde e la montatura nera.

«Oggi, per ora, qui ci sono solo io», disse l’uomo con la cerata scura e gli occhiali tondi.

«Solo tu?» rispose Steno spiazzato, un po’ per fare conversazione e un po’ perché non sapeva cosa dire.

«Ok, forse potrebbero esserci i soliti ragazzi nel furgone dopo il ponte ma sono quasi tutti marchette a pagamento. Io ho la macchina qua sopra. Se vuoi possiamo metterci un po’ tranquilli», aggiunse l’uomo con la cerata.

Steno gli spiegò di essere un giornalista e gli raccontò quella che gli sembrava una storia verosimile. Gli disse che la sera prima aveva parcheggiato di fianco a un grosso fuoristrada scuro. E che, quando era tornato a prendere la macchina, il fuoristrada non c’era più. In compenso, il suo paraurti era ammaccato, si era rotto un faro e anche il cofano non se la passava tanto bene. Quindi aveva buone ragioni di pensare che l’uomo con il fuoristrada uscendo dal parcheggio fosse andato contro la sua auto. Ora lo stava cercando per chiedergli i danni.

Steno mostrò all’uomo con la cerata la solita foto della Lada Niva passo lungo. Illuminato dalla luce dello schermo del telefono, il viso era lucido e rugoso. Ma tutto sommato, per essere uno che salta fuori dai cespugli cercando di portarti in macchina, aveva un’aria rassicurante. Steno considerò che poteva avere quasi cinquant’anni.

«Io ieri sera qui non c’ero, ero a ballare da un’altra parte», disse l’uomo con la cerata, «ma questo fuoristrada lo riconosco. È la macchina del torinese. È uno che viene qui alla buca abbastanza spesso. Arriva da Torino, non so molto altro. È un bell’uomo, distinto, perbene. Anche troppo. Se fossero tutti come lui, qui nella buca, nessuno andrebbe più con gente come me.»

«Sarà anche distinto e perbene, ma dovrebbe stare attento a come parcheggia.»

«Su questo posso essere d’accordo con te.»

«Sai come trovarlo?»

«Sinceramente non ne ho idea. Prova con la motorizzazione civile. Oppure, se proprio ci tieni a farti mettere a posto la macchina, vai a Torino e chiedi un po’ in giro nei bar frequentati da gay. Torino è grande, ma non come Milano.»

Steno ringraziò. L’uomo con la cerata lo salutò, poi scomparve nel boschetto da cui era sbucato poco prima. Steno continuò a camminare lungo il fossato, allontanandosi sempre più dal ponte, ma più avanti sentì di nuovo la vocina stridula provenire dall’oscurità dietro gli alberi.

«Hai detto che la macchina l’hai trovata rotta ieri sera, giusto?» disse l’uomo con la cerata.

«Giusto», rispose Steno prudente. Ovviamente, nessuno gli aveva rotto la macchina la sera prima. Per giustificare il fatto che stava facendo ricerche sul fuoristrada nero, si era inventato quella storia, tutto qui. E non era nemmeno una grande storia, adesso che ci pensava bene. Ma a volte capita di avere fortuna. Ed evidentemente, era una di quelle volte.

«Be’, allora dev’essere stata proprio una serata di merda», gli disse l’uomo con la cerata, che nel frattempo si era portato in mezzo al fossato. Steno si era abituato all’oscurità. E anche da lontano riusciva a distinguerne chiaramente la sagoma nera sul fondo più chiaro della neve. «Pare che qui nella buca ieri sera sia successo un bel casino», disse l’uomo con la cerata. «Non che sia una novità, ma sembra che si siano menati. Almeno così dicevano oggi pomeriggio alcuni ragazzi in chat. Sai, una delle chat che usiamo per incontrarci. Magari può essere che i danni alla tua macchina c’entrino qualcosa, non saprei. Può essere che si siano picchiati qui nella buca, e che poi qualcuno scappando in macchina sia andato a sbattere contro la tua. Ma non saprei, come ti dicevo, io non c’ero. Oppure può darsi che qualcuno si sia divertito a prendere a mazzate il tuo paraurti, anche se mi pare meno probabile.»

«Molto meno probabile», disse Steno.

«Infatti. Comunque, se vuoi saperne di più, prova ad andare a parlare con i ragazzi nei furgoni. Le marchette. Te l’ho detto, di solito stanno dopo il ponte, sotto alle Gemelle. Scendi la curva a sinistra, prendi via Leopardi e dovresti trovarli al primo incrocio. Di solito hanno un furgone bianco. Da qualche mese si vede in giro anche un vecchio furgone blu, ma non penso sia loro.»

«Il torinese, il proprietario del fuoristrada, frequenta le chat di incontri di cui parlavi?»

«Non penso lo faccia con il suo vero nome. Senz’altro, come tutti, avrà un profilo che usa per tenersi informato sulle serate, ma non saprei come trovarlo.»

Steno si avvicinò all’uomo con la cerata, lo ringraziò e gli lasciò un biglietto da visita. Gli spiegò di essere un giornalista e aggiunse: «Se scopri qualcosa di più sulla rissa di ieri sera, dimmelo. Potrebbe saltarne fuori un articolo». Riprese a camminare fino alla fine della buca, dove il fossato si ricongiunge con la strada e con la luce dei lampioni. Percorse a ritroso l’identico tragitto che aveva fatto venendo, stando sul fondo della buca. Doppiava per gioco le impronte che aveva lasciato all’andata, cercando di mettere i piedi nei buchi scavati nella neve. Arrivato al ponte, salì il sentierino e tornò al punto in cui aveva lasciato Sabine. La ragazza era ancora lì ad aspettarlo, esattamente nella stessa posizione.

«Ne hai trovati? Erano fra gli alberi», gli disse lei.

«Detta così sembra che tu stia parlando di funghi», rispose Steno. E le raccontò dell’uomo con la cerata, del fatto che la sera prima forse c’era stata una rissa e del fatto che da qualche parte oltre al ponte ci sarebbe dovuto essere un furgone bianco, usato come stanza d’albergo da alcuni ragazzi che si prostituivano. Sabine ascoltava e intanto si stringeva nel piumino.

Sul ponte, dopo qualche minuto di tregua, aveva ricominciato a tirare un vento gelido. Lo stesso vento che da giorni sferzava Milano e portava in città neve lontana. Quella stessa sera, imboccati dal solito meteorologo poeta, i telegiornali avevano battezzato la tempesta Gerda, come la bambina protagonista della Regina delle nevi di Hans Christian Andersen. Il conduttore in studio aveva spiegato che «proveniva dalle regioni siberiane e non si sarebbe placata per almeno una settimana».

Steno e Sabine si diressero oltre il ponte, scesero la curva a sinistra delle Gemelle e camminarono nel buio fino al giardinetto indicato dall’uomo con la cerata.

Non c’era nessun furgone, nessuna marchetta, niente di niente.