II

 

 

 

 

 

 

 

Per Liam Armstrong, via Imbonati non era un luogo familiare. Né era abituato a spostarsi con i mezzi pubblici. Ma preferiva non farsi accompagnare a casa di Han dall’autista del consolato, né voleva mettersi alla guida con le strade piene di neve, dopo una notte insonne.

La metropolitana era semivuota, alle dieci e mezza del mattino la ressa dei pendolari era finita da un pezzo. Liam Armstrong passò buona parte del viaggio a guardare sullo schermo del telefono il messaggio che Han gli aveva inviato: «Quando vuoi, dove vuoi. Fino alle undici sono a casa». Avrebbe voluto andarci prima, ma sua moglie gli aveva chiesto di accompagnarla all’obitorio per l’ultimo saluto a Kellan. Una sofferenza supplementare che si sarebbe volentieri risparmiato, ma a cui ovviamente non aveva potuto sottrarsi. Armstrong e la moglie avevano preso un taxi, una volta arrivati all’obitorio avevano chiesto al tassista di aspettare fuori. Per tutto il tragitto, da casa all’obitorio e ritorno, Liam e la moglie non avevano aperto bocca. Si erano tenuti per mano, ascoltando un vecchio disco dei Clash, usando una cuffietta auricolare ciascuno. Il tassista invece sembrava avere voglia di fare conversazione e Liam doveva riconoscere che era anche bravo a trovare argomenti: l’ultimo scandalo di corruzione in Regione, l’immigrazione che non se ne può più, la tempesta di neve Gerba che non voleva saperne di lasciare in pace Milano. Forse anche per questo, per evitare tassisti chiacchieroni, Liam Armstrong aveva scelto la metropolitana per andare da Han. E così si trovava su un vagone mezzo vuoto della linea Tre, vestito con un giaccone di pelle con l’interno in pelo, ascoltando in santa pace i Clash, con entrambe le cuffiette nelle orecchie e senza tassisti chiacchieroni a guastare la festa.

Sceso a piazzale Maciachini, individuò una pasticceria e comprò dei marrons glacés. Sapeva che Han ne andava pazzo, in ogni stagione. Lungo il marciapiedi innevato schivò i camerieri cinesi, che si davano da fare con la pala in vista dell’apertura di pranzo, e i camerieri sudamericani che fumavano per far passare il tempo in attesa dell’apertura.

Il portone era aperto. Liam proseguì fino al secondo cortile, come gli aveva detto di fare Han. Si accostò alla grande vetrata del loft e bussò tre volte, leggero. Han aprì e lo invitò a entrare. Il vassoio di marrons glacés fu posato sul tavolo, dove erano già pronte due tazze con dentro diffusori di metallo pieni di tè verde del Langdong. Accese il bollitore e si mise a sedere al tavolo, dopo avere chiesto a Liam Armstrong di fare lo stesso.

Armstrong gli raccontò brevemente di essere stato all’obitorio. Gli disse che in un giorno appena, il corpo di Kellan era completamente cambiato, invecchiato, svuotato. Era come se fosse stato più morto rispetto al giorno prima. Gli raccontò anche di come sua moglie fosse svenuta e avesse dovuto portarla a braccia fino al taxi. E di come il tassista, che pure aveva assistito alla scena, non avesse resistito a parlare per tutto il viaggio di ritorno di mezzi spazzaneve e tangenti pagate per l’acquisto di protesi dentarie.

«Forse voleva tiravi su il morale», disse Han.

«Forse era un coglione.»

«I tassisti sono uguali in tutto il mondo.»

«Qui a Milano mi sembrano ancora più uguali che altrove», replicò Armstrong.

«Si vede che non hai conosciuto i tassisti di Hanoi», concluse Han. E gli riferì una storia che era quasi sicuro di non avergli mai raccontato, nemmeno ai tempi di Saigon.

«Una volta da ragazzo ho visto un tassista investire una vecchia che stava portando da qualche parte delle galline spiumate. Le aveva pulite per bene, togliendo le interiora e tutto il resto. Le teneva in una grossa cesta che si era caricata in spalla. Il tassista le era andato addosso mentre lei attraversava la strada. Non le aveva fatto male, ma l’aveva colpita abbastanza forte da farla cadere a terra, con le galline e tutto il resto. Un bel po’ di gente si era fermata a vedere, sperando nella rissa, o che la vecchia morisse, o comunque di avere qualcosa da raccontare a casa. Fatto sta che la cesta si era rovesciata e le galline morte erano sparse in strada. Non era certo una strada asfaltata, per cui diciamo che le galline si erano impanate con la sabbia e la terra. A vederle sembravano pronte per finire in padella. Io ero a spasso con mia madre. Appena abbiamo visto la vecchia cadere, la mamma mi ha subito ordinato di aiutarla a rialzarsi. Ma si è rialzata da sola. Allora mia madre mi ha dato uno schiaffo secco secco e mi ha detto di aiutarla a tirare su le galline. Io non volevo certo prendere altri schiaffi, allora ho cominciato a darmi da fare per aiutare la signora a tirare su le galline morte e metterle nella cesta. A un certo punto, mentre io e la vecchia ci davamo da fare con le galline impanate, il tassista ha suonato il clacson e ci ha urlato che dovevamo sbrigarci. Ha anche aggiunto che lui non aveva tempo da perdere, che quelle galline erano solo delle galline di merda e che la vecchia avrebbe dovuto stare più attenta mentre attraversava. Anzi, per la precisione le ha detto che era una vecchia rinsecchita, che poi era esattamente quello che era, quindi almeno da quel punto di vista il tassista ci aveva visto giusto. Io in quel momento avevo in mano una gallina. Non so cosa mi sia successo, ma è come se il mio corpo avesse cominciato a muoversi da solo. Mi dicevo di non farlo, ma la mano, quella che stringeva la gallina, viaggiava per conto suo. Evidentemente ero parecchio arrabbiato. Così, senza volerlo, ho aperto la portiera del taxi, ho tirato fuori l’uomo dall’abitacolo e ho cominciato a colpirlo con la gallina. La usavo come frusta, come fosse uno straccio bagnato. Lo colpivo in faccia e colpo dopo colpo diventava sempre più rosso. Un po’ per i graffi lasciati dal becco, che è come un punteruolo, un po’ perché il sangue di gallina spruzzava qui e là e gli colorava tutta la sua bella faccia da tassista. E anche la sua camicia azzurra da tassista. Forse era rosso anche perché suonava umiliante l’essere preso a gallinate in centro ad Hanoi da un ragazzino di tredici anni. La vecchia nel frattempo si era spostata sul marciapiedi per godersi la scena. Ci guardava e applaudiva. Anche tutti gli altri guardavano e applaudivano. Forse applaudì anche mia madre. A lei comunque sarebbe bastato che io avessi raccolto le galline per terra e le avessi messe nella cesta, tutto lì.»

Han di solito non faceva racconti così lunghi. Anzi non raccontava quasi niente, in generale. Ma Armstrong, nella condizione in cui era, non ci fece troppo caso. Se è per questo, non si accorse nemmeno che Han mentre parlava aveva avviato una specie di computer senza carcassa, collegato con dei cavi a un grande monitor e a quello che sembrava un disco rigido. E infatti era il disco del portatile di Kellan.

 

Han sollevò il bollitore elettrico dalla base e versò l’acqua calda nelle tazze.

Sapeva che non sarebbe stato facile dire a Liam Armstrong quello che aveva da dirgli. Ma decise che non valeva più la pena aspettare.

«Liam, ho passato tutta la notte a studiare il registro di sistema del computer di Kellan. Oltre alle solite ricerche che fanno i ragazzi su Internet, ho visto che frequentava chat di incontri per omosessuali. Soprattutto negli ultimi mesi. Si chiama cruising. In pratica ci si scrive e ci si dà appuntamento in posti poco frequentati. Molti usano nomi di fantasia. Ci sono tanti forum, gruppi e siti veri e propri. Con ogni probabilità, la sera in cui è morto, Kellan era andato a quella che nei siti di cruising viene chiamata “la buca”. Mi sono informato, è un piccolo parco, vicino alla Triennale. Da sempre è un luogo di incontro per omosessuali.»

Armstrong abbassò gli occhi sulla tazza di tè che aveva davanti. Per un po’ non pensò a niente. Poi, d’un colpo avvertì un flusso inarrestabile di pensieri.

Non poteva essere. Non era vero. Kellan aveva una ragazza e la amava. La vedeva quasi ogni giorno. L’aveva vista anche il pomeriggio del suo ultimo giorno da vivo. Lui e lei facevano quello che fanno tutti i ragazzi della loro età. Quando si chiudevano in camera per ore, e succedeva spesso, nessuno credeva che stessero davvero studiando. Prima di lei, Kellan aveva avuto altre ragazze.

Kellan non era gay, non lo era mai stato.

Liam pensò che se Kellan fosse stato gay gliene avrebbe parlato. Lui e Kellan si dicevano tutto. O almeno, tutte le cose importanti. Da bambino gli aveva insegnato ad andare in skateboard, a surfare, ad accendere un barbecue, a trattare bene le donne, a non inventare scuse per giustificare i propri errori, a non avere paura delle persone ma a non fidarsi troppo di chi non si chiamava Armstrong di cognome e non viveva nella loro casa.

Eppure.

Eppure, qualcosa gli diceva che nella storia che Han gli aveva raccontato non c’era nulla di strano. Era una sensazione impalpabile, un sibilo di cui ti accorgi solo dopo che il tuo cane ha cominciato ad agitarsi senza motivo. Liam realizzò che ascoltare il racconto di Han era stato come trovare un oggetto nel posto più ovvio, dopo averlo cercato ovunque.

 

Quando Liam Armstrong alzò di nuovo lo sguardo dalla tazza, Han ricominciò a parlare. «Ho stampato alcune ricerche fatte da Kellan su Internet. Considera che aveva cancellato la cronologia in modalità sicura, quindi non voleva che nessuno sapesse di quel suo interesse.» Dopo avere pronunciato la frase, Han si pentì di avere scelto parole tanto stupide. Quel suo interesse. Pensò che essere gay non è un interesse o un hobby. Ma ormai lo aveva detto. E Liam in quel momento aveva problemi più seri rispetto alle parole giuste per dire che a suo figlio piacevano gli uomini.

«Negli ultimi mesi, Kellan ha fatto ricerche su diversi appuntamenti di cruising. Uno in un locale in zona Porta Venezia, uno in una specie di palestra vicino alla fermata dalla metropolitana Romolo, un altro ancora al parcheggio di Pagano. Poi, quello della buca davanti alla Triennale», proseguì Han. «Nelle varie chat usava soprattutto il nome Fabio, ma aveva altre identità, tutte fasulle. Ho stampato anche le conversazioni che sono riuscito a recuperare. Ti dico già che non c’è nulla di troppo forte. A leggerle senza sapere da dove sono state prese, potrebbero essere i dialoghi fra un gruppo di amici che si mettono d’accordo su dove incontrarsi per andare a giocare a calcio.»

 

Liam lasciò cadere la probabilità, anzi la certezza che suo figlio frequentasse chat di incontri gay. Pensò invece a come le informazioni che Han aveva trovato potessero essere utili all’indagine sulla morte di Kellan. Han lo precedette. «Credo che dovresti consegnare al più presto il computer alla polizia. Per le indagini, le prime ore sono le più importanti. È davvero così e lo sai benissimo.»

Liam, senza aprire bocca, prese i fogli che Han aveva posato sul tavolo, quelli con le trascrizioni delle chat. Li arrotolò e li infilò nella tasca interna del giaccone di pelle, che aveva appeso allo schienale della sedia. «Ho bisogno di un po’ di tempo per decidere. Ne parlerò prima con mia moglie. Forse alla fine deciderò che è meglio se le indagini le fai tu, appoggiandoti ai ragazzi che abbiamo usato per il lavoro sulle moschee.»

Han sgranò gli occhi, e Liam continuò.

«Nemmeno io mi fido della gente che usiamo adesso. Ma in qualche modo dovremo fare. Dammi due ore.» Han annuì e bevve un sorso di tè. Non era già più caldo come avrebbe dovuto essere. Liam fece lo stesso, poi si alzò in piedi. Indossò il giaccone, stando attento a non far cadere di tasca il rotolo di fogli con le trascrizioni delle chat, e si avvicinò alla porta a vetri da cui era entrato. Han gli disse di prendere anche il computer di Kellan, tanto lui quel che doveva fare lo aveva fatto. Armstrong prese la custodia in neoprene nero con dentro il portatile e la mise nello zaino.

«Ti chiamo un taxi?» chiese Han.

«Ok. Vedi se hai una gallina spennata in freezer da prestarmi, che non si sa mai», rispose Armstrong. Han sorrise.

«Liam, dimmi cosa fare e io lo faccio.»

«Vorrei che tu parlassi con Giada, la ragazza di Kellan», rispose il console.

«La polizia la ha già sentita?»

«La stanno sentendo adesso in Questura. Io e mia moglie le abbiamo già parlato. La sera in cui è morto, Kellan le aveva raccontato che sarebbe uscito con i suoi soliti amici. Prima, nel pomeriggio, lui e lei erano stati a casa nostra, in camera di Kellan, a progettare un weekend in montagna. Anche lei è appassionata di snowboard e volevano andare un paio di giorni a sciare. Almeno così lei ci ha raccontato.»

«Confermo», disse Han. Nel computer aveva trovato le ricerche fatte da Kellan il giorno precedente. Volevano andare sopra al Colle del Sestrière, dove sembra ci fossero metri di neve fresca, come ovunque sulle Alpi.

«A te e a Carlotta, Kellan non aveva detto nulla su cosa avrebbe fatto la sera?»

«La sera in cui è stato ucciso?»

«Sì, quella sera.»

Armstrong giunse le mani e guardò da qualche parte per terra.

«La verità è che ultimamente non capitava spesso che Kellan mi dicesse cosa faceva la sera. Né che mi dicesse cosa faceva in generale. Entrava, salutava, si chiudeva in camera sua, usciva.»

Han pensò che rispetto al rapporto che aveva lui con i suoi figli, la situazione che aveva descritto Liam somigliava alla famiglia delle pubblicità dei biscotti.

«Quando posso vedere la ragazza di Kellan?»

«Ti pregherei di incontrarla a casa nostra, dove penso si senta più tranquilla. Dammi solo il tempo di parlare con Carlotta. Voglio dirle quello che hai scoperto guardando nel computer.»

Han annuì. Poi aggiunse: «Per potere vedere i dati nel telefono di Kellan ci vorrà un po’ più tempo. Spero di riuscire a dirti qualcosa domani».

 

Per la prima volta dalla morte di Kellan, camminando sulla neve sporca, Liam Armstrong scoppiò a piangere. Le lacrime gli solcarono le guance magre, come tutto il resto nel suo corpo. Il respiro gli rimase incastrato da qualche parte fra i polmoni e il cuore, fino a farsi lamento e poi gorgo. Una condizione nuova, ingovernabile, che non conosceva. Avrebbe voluto che sua madre fosse stata ancora viva. Avrebbe voluto chiamarla, chiederle cosa fare, sfogarsi con lei. Ma sua madre non c’era più da tanto tempo. E non c’era nessuno sulla faccia della terra che avrebbe potuto aiutarlo.

Tirò fuori di tasca il cellulare, si schiarì la voce e chiamò sua moglie, che aveva registrato in rubrica con il nome Amore, in italiano, come fossero, lei e lui, due ragazzini in perenne viaggio di nozze. Lei rispose al primo squillo. «Carlotta, non sapevamo nulla di lui. Kellan, non sapevamo chi fosse, non abbiamo capito niente», disse, e ricominciò a singhiozzare.