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Steno era immerso fino alla punta del naso. Aveva gonfiato le guance d’aria e stava lì immobile, sott’acqua, con gli occhi chiusi. Quando sentì suonare il telefono, uscì dalla vasca da bagno, si avvolse nell’accappatoio, si asciugò l’orecchio destro e rispose. Era il signor Barzini.

«Steno c’è qui il poliziotto tuo amico. Il figlio del carabiniere Cinà.»

«Grazie signor Barzini, potrebbe dire al mio amico di salire in camera per favore?»

Il signor Barzini girò la domanda a Scimmia.

«Lui dice se puoi scendere tu», disse poi a Steno.

«No, non scendo. Gli dica per favore che sono nella vasca da bagno, ho preso abbastanza freddo oggi, ne ho bisogno. Lui mi conosce, capirà. Gli lascio la porta della stanza aperta.»

«Come vuoi, Steno.»

Da lì a poco, Scimmia bussò alla porta del bagno.

«Steno, esci dalla vasca, devi portarmi a Torino», disse Scimmia. Aveva il fiatone. E come il giorno precedente, era vestito in borghese. Vale a dire che aveva addosso un maglione verde con un ricamo rosso, sopra a un paio di pantaloni di velluto marrone.

«Oh bravo Scimmia, che mi ascolti. Guarda che bello che sei senza divisa. Ed è già il secondo giorno di fila. Così sembri un vero sbirro della Mobile». In realtà sembrava un albero di Natale addobbato, con tanto di tronco.

Scimmia si appoggiò al lavandino e spiegò a Steno che era riuscito a parlare al cellulare con la Tajani, di ritorno dal parrucchiere. La pm aveva detto un sacco di parolacce, poi gli aveva urlato di non perdere più tempo e di correre a Torino per sentire cosa aveva da raccontare il proprietario della Lada Niva con cui il corpo di Kellan era stato portato fino all’ospedale. Ma il sovrintendente Minniti, il suo superiore, stava parlando con il console americano e sua moglie, che si erano presentati in Questura con il computer del figlio. «E quindi?» chiese Steno.

«Quindi sono solo. E ti volevo chiedere se ti va di accompagnarmi a Torino.»

«Non puoi prendere una macchina della polizia e andarci per i fatti tuoi?»

«Steno, se andiamo con la tua ci mettiamo la metà del tempo, ti prego.»

«Se è per questo, in treno fai ancora più veloce.»

«È vero. Ma il tizio abita in collina, lontano dalla stazione. Treni, taxi, meteo. Tutto contro di me.»

Steno versò altro bagnoschiuma nella vasca e aprì l’acqua calda al massimo, di modo che si formasse nuova schiuma. E non che non ce ne fosse poca. Se ne formò così tanta che cominciò a strabordare. Con un rapido gesto del piede, l’agente scelto Cinà Raffaele detto Scimmia avvicinò il tappetino alla vasca per evitare il disastro.

«Steno, la verità è che se ci sei tu mi sento più sicuro. Sei esperto di macchine, sei stato nella buca ieri sera, hai parlato con il tizio con la cerata che ti ha raccontato la storia del torinese. Hai anche talento per le indagini. Mettici che sei il mio migliore amico. Se ci fosse stato Minniti sarei andato con lui, ma il fatto che non possa venire per me è un’occasione. So che è strano portarsi un giornalista a sentire un testimone. E probabilmente se lo scoprono in Questura mi fanno il culo. Ma ho deciso che vale la pena rischiare. Per me questo caso è troppo importante. Se trovo chi ha ammazzato Kellan Armstrong, scommetto che mi perdoneranno tutti i piccoli strappi alla regola.»

«Portarsi i giornalisti a casa dei testimoni non è un piccolo strappo alla regola», disse Steno, giocando a far saltare il flacone dello shampoo sulle onde formate dalla schiuma, come fosse un gommone.

«Il piano è questo», disse Scimmia. «Andiamo insieme dal tizio, io gli faccio vedere il distintivo e ti presento solo col nome di battesimo. Le domande le faccio io e verbalizzo io. Ovviamente nel verbale tu non comparirai in nessun modo. Non penso ci siano problemi. Il tizio al momento non è indagato, quindi non dovrebbe esserci di mezzo nessun avvocato a fare storie.»

Steno immerse la testa nell’acqua bollente. Emerse dopo qualche secondo e fece un respiro profondo, come dopo una lunga apnea. Si asciugò gli occhi con la mano. «Si può fare. Devi solo lasciarmi chiamare il mio capo. Devo dirgli che faccio tardi. Non penso la prenderà benissimo.»

 

Mezz’ora dopo, la Maserati Ghibli sfrecciava lungo l’autostrada quasi deserta. I radiogiornali non facevano che ripetere da giorni che «a causa delle forti nevicate, si sconsiglia di mettersi in viaggio in auto, se non in caso di necessità». La società che gestisce le autostrade aveva dichiarato il codice rosso di allerta. Vale a dire, velocità ridotta, distanze di sicurezza aumentate, il rischio di trovare spazzaneve e spargisale in carreggiata a tutte le ore. E posti di blocco, per verificare che le auto avessero gomme adeguate o catene da neve montate. A Scimmia sembrava che ogni tanto, quando Steno accelerava, le ruote posteriori perdevano aderenza sull’asfalto. E Steno adorava quel perdere aderenza delle ruote posteriori. Ma se ne stava a labbra cucite per non preoccupare Scimmia. Lo stereo pompava un disco di Sugar Daddy and The Cereal Killers. Fuori dal finestrino, le uscite scappavano via una dopo l’altra. Novara, Santhià, Chivasso. E a mano a mano che la destinazione si avvicinava, Steno premeva di più sull’acceleratore.

«Fino a quando non finiscono i lavori, gli autovelox non funzionano», dichiarò. Ma Scimmia non rispose nulla, visto che si era addormentato. Gli succedeva sempre durante i viaggi in macchina.

Steno lo svegliò solo una volta arrivati al casello, per chiedergli come arrivare a casa del proprietario della Lada Niva. Scimmia bofonchiò l’indirizzo, e Steno lo inserì nel navigatore del telefono, e ricominciò a dormire.

 

La casa si trovava a mezza collina, sulla salita che porta alla Basilica di Superga. Dalla strada era invisibile, nascosta da una siepe alta più di due metri e da un grosso cancello di legno scuro. Steno accostò e spense il motore. Scimmia, che già alle prime curve si era svegliato quasi del tutto, scese dalla macchina facendo attenzione a non scivolare sulla neve. Non ce n’era tanta come a Milano, ma era comunque una quantità sufficiente a farti finire per terra. Sul citofono c’era un pulsante soltanto e nessuna indicazione scritta. Scimmia schiacciò il bottone e il cancello si aprì automaticamente, con tanto di luce gialla lampeggiante. Steno lo interpretò come un invito a entrare con l’auto e fece segno a Scimmia di salire a bordo.

«Cosa dirà quando ci vedrà arrivare in Maserati?» domandò Scimmia.

«Dirà che abbiamo una bella macchina», rispose Steno. Tradotto: non lascio volentieri la Ghibli in strada se non c’è Alberto a vigilare.

 

La villa si sviluppava in ampiezza: un solo piano, molte vetrate, molto spazio orizzontale. Una rampa di pietra scendeva a un box quadruplo, già aperto. Parcheggiata in fondo a sinistra, sotto un telo, c’era una piccola auto sportiva, una Lotus, e accanto due posti vuoti. Uno dei due era destinato alla Lada Niva? Fu a quel punto che induzioni e deduzioni procedevano all’unisono.

In fondo al garage erano ammassate sedie sdraio, bobine di canna da giardinaggio arrotolata, un triciclo blu da bambino, una piscinetta gonfiabile sgonfia, una biciclettina mountain bike.

Dietro alla Lotus si aprì una porta di ferro e ne uscì Sandro Salini, l’uomo a cui era intestata la Lada Niva. Scimmia gli mostrò subito il tesserino. Il torinese verificò che il nome dell’agente fosse quello che gli era stato comunicato per telefono dalla Questura. Era tutto ok.

«Non sapevo che la polizia girasse in Maserati», disse Salini, «chissà che faccia farebbe mio figlio a vedere una macchina così. Ha solo sei anni ma va già matto per le auto sportive.»

Steno e Scimmia si lanciarono uno sguardo d’intesa.

«Il bambino non è qui, è a scuola», disse Salini, con tono rassicurante. «E mia moglie è in ospedale dove lavora. In casa ci siamo solo noi tre, possiamo parlare tranquilli.»

 

Ottobre, il tizio con la cerata, aveva ragione. Sandro Salini era un bell’uomo. Magro e atletico. Aveva occhi color ghiaccio, la giacca dello stesso colore dell’abito, aperta su una camicia azzurra. Non fosse stato per i capelli sale e pepe, avrebbe dimostrato meno dei suoi quarantotto anni. Nonostante si trovasse in una situazione non facile, sembrava a suo agio. Invitò Steno e Scimmia a entrare in una specie di taverna nel piano interrato, a cui si accedeva direttamente dal garage. Non c’erano vere e proprie finestre, solo una presa d’aria aperta alla sommità di una parete, appena sotto il soffitto. Le luci erano basse e calde. Per terra era stesa una pelle di vacca pezzata. Era vera, o almeno sembrava. Il divano, anche quello di pelle, era scuro, come tutto il resto lì dentro, e alle pareti teste di animali: un cinghiale, un cervo, uno stambecco, la sensazione che quegli occhi neri di vetro, senza espressione, lo fissassero. Sotto le teste imbalsamate era appeso un quadro, che sembrava raffigurare una parete di ghiaccio o la fibra di un qualche minerale.

«È l’ingrandimento dell’ala di una mosca», spiegò Salini, di fronte allo sguardo incuriosito di Scimmia.

«Bello», commentò Scimmia ma non era così convinto.

«Non vi faccio perdere tempo», disse Salini, «la macchina non mi è stata rubata a Novara, come ho denunciato. Anzi, a Novara lunedì non ci sono proprio stato. La macchina mi è stata rubata a Milano, poco dopo le tre del mattino di ieri.»

«In pratica, lunedì notte», notò Scimmia.

«Esatto, lunedì notte. Quello che vi dico adesso vorrei che mia moglie, i miei colleghi e soprattutto mio figlio non lo venissero a sapere mai. So che forse non sarà così. Il vostro superiore al telefono mi ha detto che la mia macchina con ogni probabilità è stata usata per trasportare il cadavere di un ragazzo. Quindi immagino che prima o poi ci sarà un processo e si verrà a sapere tutto.»

Il torinese era partito bene, sarebbe stato un peccato interromperlo. Salini spiegò che gli capitava abbastanza spesso di andare a Milano o in altre città per incontri di cruising. Disse che quando si trattava di scopare non guardava in faccia a nessuno. Le saune svizzere da mille franchi andavano bene come i parcheggi dei camion sulla statale Paullese. «Noi uomini siamo tutti un po’ così, al di là dei gusti.» Disse anche che in occasione di quelle trasferte notturne raccontava alla moglie di essere via per lavoro, in città di volta in volta diverse, e di doversi fermare a dormire fuori. A Novara il suo studio di commercialista aveva parecchi clienti, e così era nata quella bugia. La stessa cosa la raccontava in ufficio, dove era il capo. Anzi di più: era il titolare di uno dei più importanti studi di commercialista di Torino. «Non vorrei che si venisse a sapere cosa ero andato a fare a Milano quella notte. I giornali vanno matti per i particolari morbosi delle vicende», disse Salini. Steno immaginò che faccia avrebbe fatto il torinese se avesse scoperto che era un giornalista.

«Dottor Salini, sarò onesto, non possiamo garantirle nulla. Come diceva lei, forse prima o poi ci sarà un processo. A essere sincero, come poliziotto spero che ci sia più prima che poi», gli spiegò Scimmia. E aggiunse: «È molto probabile, se non sicuro, che la storia verrà resa nota per intero, particolari compresi, con o senza il suo aiuto. Quindi tanto vale che ce la racconti lei adesso, piuttosto che costringerci a scoprirla da soli. O peggio, potrebbe scoprirla qualche nostro collega meno riservato e più chiacchierone di noi, di quelli a cui piace parlare con la stampa».

Salini colse il senso dell’offerta di Scimmia, se così la si poteva definire, e cominciò a raccontare.

«Io ero appena arrivato sopra alla buca. Avevo parcheggiato la macchina ed ero lì che camminavo al buio, fra gli alberi, cercando un ragazzo con cui ero già stato qualche settimana prima. È rumeno, avrà al massimo venticinque anni. Lo fa per soldi, ma è gentile, mi era piaciuto. Assieme ad alcuni amici tiene parcheggiato vicino alla buca un furgone bianco. Lo usano come camera d’albergo, diciamo. A un certo punto, mentre sto camminando, sento un rumore. Come se qualcuno stesse prendendo a mazzate un tronco d’albero. Poi, delle urla. Niente di nuovo, capita spesso che in queste situazioni scoppino liti, quindi non mi preoccupo. Ma poi le urla aumentarono. Io d’istinto, per evitare casini, mi allontano dagli alberi e ritorno verso l’imbocco della buca, vicino al ponte della ferrovia, dove avevo lasciato la macchina. Ma proprio mentre sto per tornare in strada, vedo un tizio incappucciato che trascina qualcosa per terra. All’inizio mi sembra un sacco. Poi capisco che è un uomo. Ogni tanto fa dei piccoli movimenti scoordinati. Come degli scatti, tipo quelli che fanno gli animali investiti per strada. Perde sangue. Anche con la poca luce che c’è lì sotto, riesco a vedere la scia. Dove è stato trascinato, la neve è macchiata di rosso. Io rimango impietrito. Il tizio incappucciato si accorge di me. Appoggia per terra il corpo e mi si avvicina lentamente. Capisco che non è uno che se la spassava fra i cespugli. Mi dice che sa che ho un fuoristrada, e che lo ha visto posteggiato proprio lì sopra alla buca. Mi dice di dargli le chiavi, se non voglio fare la fine del ragazzo che si trova per terra. Parla con voce pacata, è senz’altro italiano. Mi dice che se provo a denunciarlo mi viene a cercare a casa a Torino. Il messaggio è chiaro. Sa dove vivo. Io comincio a tremare, cerco le chiavi e quando le trovo gliele consegno. Lui le prende, le mette in tasca e ricomincia a trascinare il corpo in direzione del ponte, dove avevo parcheggiato.»

«Lei sarebbe in grado di riconoscere l’uomo incappucciato?» chiese Scimmia.

«No. Aveva il volto coperto, il cappuccio della mantella in testa e gli occhi in ombra. Pensandoci dopo, mi sono convinto che quella voce l’avevo già sentita da qualche parte, ma non saprei dire dove. Forse è solo una suggestione.»

Scimmia ebbe buon gioco a sottolineare: «Se sapeva che lei è di Torino, deve trattarsi per forza di qualcuno che la conosce».

«Ci ho pensato anch’io e questo mi toglie il sonno, insieme a tutto il resto. Però è anche vero che sulla targa della mia auto c’è il bollino con l’indicazione della provincia. E di fianco, un grosso adesivo “Off Road Torino”. Se mi hanno visto scendere dall’auto quando sono arrivato, è possibile che abbiano fatto due più due. Oppure l’accento.»

Steno pensò che effettivamente il commercialista aveva il più forte accento torinese che avesse mai sentito. Non c’era vocale che si aprisse o si chiudesse se non con puntualità sabauda. Notò peraltro che la sua calma iniziale era nel frattempo andata a farsi benedire. Gli sudavano le mani e lo strato lucido sui palmi era evidente. Si versò dell’acqua in un bicchiere e lo portò alla bocca. Ancora le mani, il suo punto debole: tremavano.

«Voi sapete chi è il ragazzo morto?» chiese Salini.

«Si chiamava Kellan Armstrong, cittadino statunitense. Aveva diciannove anni», rispose Scimmia. Il torinese cominciò a mugugnare. Un lamento nervoso, esagerato. Scimmia gli mostrò una foto di Kellan. Salini la guardò per qualche secondo. Disse di essere quasi sicuro di non averlo mai visto. «Troppo carino, me lo ricorderei.»

Poi pensò attentamente a quello che stava per dire e infine lo disse, lapidario.

«Credo di sapere chi può avere ucciso Kellan.»

Si alzò in piedi, asciugò i palmi nelle mani sui calzoni e prese a fare avanti e indietro per la stanza, come un attore che ripete la parte.

«Non so il nome, questo no. Ma penso di potervi aiutare a ricostruire il contesto, diciamo. Quella che sto per darvi è ciò che si chiama una dritta.»

Una dritta era esattamente quello di cui c’era bisogno.

«Da qualche tempo a Milano c’è un gruppo di bastardi che si fanno chiamare “Spazzini”. Sostengono di portare pulizia in città. Arrivano di notte nei luoghi dove ci incontriamo. Si nascondono, saltano fuori con in testa cappucci e passamontagna e puniscono chi trovano appartato.»

«Lei li aveva mai incontrati questi Spazzini, prima dell’altra sera?» chiese Scimmia.

«No per fortuna. Mai incontrati. Però ci sono andato vicino. Una volta, sarà stato almeno un paio di mesi fa, forse a inizio ottobre o anche prima, sono andato a una serata di cruising in zona Famagosta, sempre a Milano. Sono arrivato verso l’una di notte e in bagno stavano medicando un ragazzo sudamericano che era stato colpito in faccia con un manganello. Piangeva. Aveva un occhio viola e gonfio, il labbro spaccato. Il sangue gli colava anche dal naso, gli imbrattava la camicia. Era così malmesso che sembrava finto.»

«Dice che erano stati gli Spazzini?»

«È lì che li ho sentiti nominare per la prima volta. Mentre altri ragazzi gli sciacquavano la faccia, aspettando l’ambulanza, il ragazzo sudamericano continuava a ripeterlo.»

«A ripetere cosa?»

«Che erano stati gli Spazzini. Ripeteva che lo avevano raggiunto mentre stava con uno in macchina, di fronte al locale. Passamontagna e cappucci calati in testa. Quando sono arrivati gli Spazzini, il sudamericano e il suo amico erano in macchina con le braghe abbassate. L’amico del sudamericano era un sessantenne: gli hanno sputato addosso, gli hanno dato un paio di calci. Poi uno di loro ha tirato fuori di tasca un manganello telescopico e si sono accaniti sul sudamericano. “Se ti chiedono come ti sei fatto male”, gli han detto, “devi dire che hai incontrato gli Spazzini che stavano facendo il giro di pulizia.”»

«Che figli di puttana», osservò Steno.

«Oh, finalmente parli anche tu. Pensavo fossi muto», rispose il torinese.

«Magari», disse Scimmia.

«Diciamo che sono riservato», ribatté Steno.

«Nessuna denuncia?» domandò Scimmia.

«Ovviamente», disse Salini. E bevve tutta l’acqua. Poi aprì un mobile bar a forma di botte, prese una bottiglia di vetro lavorato e si versò un liquore scuro.

«Volete?»

«No grazie», disse Scimmia.

«Cos’è?» domandò Steno.

«Whisky.»

Scimmia squadrò Steno severamente.

«No grazie», disse allora Steno. Un whisky lo avrebbe bevuto volentieri. Anche due o tre. Fino a quel punto la chiacchierata con il torinese stava andando bene e voleva evitare di incasinare tutto. Salini svuotò in un sorso il bicchiere, poi ricominciò a parlare. Il tono era un po’ lamentoso.

«Sapevo che a Milano non dovevo più andarci. Lo sapevo che era pericoloso. Ma vi dico la verità, l’idea che ci fossero in giro questi pazzi omofobi mi faceva salire l’adrenalina. Mi dava ancora più gusto. Lo so che è assurdo, ma è così. Oltre al fatto di fare sesso con sconosciuti e di vivere una doppia vita, ci si metteva anche il rischio della violenza. Mi sentivo come in un film. Ma a conti fatti non era un bel film.»

«Non è ancora finito», disse Scimmia.

«Ha ragione», disse Salini, «finirà che nel processo verrà fuori tutta la storia e mia moglie se ne andrà con mio figlio. Anzi me ne dovrò andare io.»

«Se prima non mette a posto un paio di cose, può anche finire molto peggio di così», disse Scimmia. E consigliò al torinese di rivedere al più presto la sua denuncia, quella in cui sosteneva che la Lada Niva gli era stata rubata a Novara. Steno annuì. Rispetto alla regola che si erano dati con Scimmia, cioè che Steno sarebbe stato zitto tutto il tempo, aveva anche già parlato abbastanza. Aveva detto che gli Spazzini erano dei figli di puttana e aveva chiesto cosa ci fosse nella bottiglia. Poteva bastare così. Quando capì che l’incontro volgeva al termine, si limitò a stringere la mano al torinese e a dirgli «Mi raccomando», un’indicazione generica che va bene sempre, con tutti.

 

Salini accompagnò Steno e Scimmia alla Maserati e si fermò per un minuto buono a guardare ammirato la carrozzeria nera, macchiata qui e là dagli spruzzi di quel misto di neve e fango che i milanesi chiamano piciopacio. Evidentemente, suo figlio di sei anni la passione per le auto l’aveva ereditata. «Davvero, com’è possibile che vi mandino in giro con un’auto simile?» domandò.

«È mia, privata. Quando ho servizi distanti, ne approfitto per farle fare un giretto», disse Steno.

«Capita anche ai poliziotti di essere ricchi di famiglia», aggiunse Scimmia. Non era mai stato molto bravo a raccontare bugie, ma con la pratica stava migliorando.

«Gran macchina», concluse Salini.

«Anche la Lada Niva è una gran macchina», disse Steno.

«Altro livello, ma sì. Era una gran macchina anche quella. Chissà che fine ha fatto.»

A Scimmia venne in mente che effettivamente l’auto usata per lasciare Kellan Armstrong in ospedale non era ancora stata trovata. Partendo da lì, cominciò a pensare a tutti i punti di domanda ancora aperti nell’inchiesta. E non erano pochi.

«Secondo l’idea che si è fatto di questi Spazzini, è realistico che prima pestino a sangue un ragazzo e poi rubino una macchina per portarlo in ospedale?» domandò Scimmia.

Salini non diede subito una risposta, si appoggiò con una mano al tetto della Ghibli e sembrò prendere fiato.

«Le ripeto, io per fortuna non li conosco. Però ci sta. Magari si sono accorti di esserci andati giù un po’ troppo pesanti con quel Kellan, hanno avuto paura che tirasse le cuoia e hanno deciso di mollarlo in ospedale. I poliziotti siete voi, non io. Ma immagino che sia meglio beccarsi un’accusa per lesioni, piuttosto che essere incriminati per omicidio volontario.»

«Aggravato», precisò Scimmia, in tono più sbirresco del solito.

Il torinese, che ne sapeva parecchio di dichiarazioni dei redditi ma molto meno di aggravanti, non replicò. Disse invece: «Fate buon viaggio. E mi raccomando, se potete evitare di distruggermi la vita ve ne sarò grato».

 

La Maserati si arrampicò su per il vialetto di accesso ai box e tornò in strada. Le siepi che proteggevano la villa di Salini sparirono piano piano dagli specchietti retrovisori. Appena arrivati sul lungo Po, a Steno suonò il telefono. Capo cell. Decise di giocare d’anticipo. «Hai ragione Capo», disse, «fra un’ora e mezza sono in redazione. Scusa davvero. Arrivo.»

Mise giù il telefono e allacciò la cintura di sicurezza. «Scimmia, ora ci tocca andare un po’ spediti.»

Scimmia, che aveva già sentito pronunciare quella frase da Steno Molteni, deglutì e rispose: «Oh cazzo».