I
Sabine fu destata da un rumore, leggero ma ripetuto, abbastanza netto da sovrastare i pensieri confusi del sonno che se ne va. All’inizio si convinse che era pioggia, che batteva su una lamiera o sulle tapparelle abbassate. Il ticchettio era sincopato e irregolare e poi faceva troppo freddo. E la neve non fa rumore. Solo a quel punto del ragionamento, Sabine capì di essere davvero sveglia. Aprì gli occhi e vide Steno seduto alla scrivania in fondo alla stanza, nella penombra, di fronte al computer portatile aperto. Il ticchettio era originato dal battere delle dita sulla tastiera. Evidentemente, Steno stava scrivendo.
«Buongiorno», disse Sabine e si stiracchiò contro la spalliera del letto.
«È tanto che scrivi?»
«Un po’. Mi sono svegliato presto. Anzi prestissimo, rispetto al mio solito. Ora sono quasi le dieci.»
Sabine avrebbe voluto ordinare la colazione in camera.
«Dai, mi preparo e scendo a fare colazione», gli disse.
«Ok. Se non è finita, c’è una torta di mele buonissima. Devi sbrigarti, che alle dieci in punto il signor Barzini fa sbaraccare tutto.»
«Vado subito», disse Sabine, scendendo dal letto con un balzo, terrorizzata dall’idea che la torta di mele potesse finire. O che, peggio ancora, il signor Barzini avesse già fatto sparecchiare i tavoli della colazione.
«Prima di scendere, dimmi una cosa», chiese Steno.
«Spara», rispose Sabine, infilandosi le calze.
«Secondo te si può definire Kellan Armstrong un milanese d’adozione?»
«No», rispose secca Sabine.
«Perché?»
«Perché nessuno è milanese d’adozione.»
«Be’ dai, uno che è nato in California ma ha fatto le scuole a Milano, è milanese.»
«Allora scrivi che è milanese. Oppure che è un nuovo milanese, o qualcosa del genere. Questa cosa dei milanesi d’adozione non l’ho mai sopportata. L’adozione è un atto di volontà. Io mi chiamo Sabine Castoldi. Sono una Castoldi d’adozione. Sai perché? Perché mia madre e mio padre, che di cognome fanno appunto Castoldi, volevano adottare un bambino, sono andati in Eritrea, hanno fatto richiesta all’orfanotrofio di Asmara, hanno aspettato un anno, mi sono venuti a prendere, hanno sbrigato tutte le pratiche in Italia e hanno spiegato ai miei fratelli che presto sarebbe arrivata una sorellina, che non aveva gli occhi azzurri come loro. Capito? I Castoldi mi hanno adottata, ci si sono messi d’impegno, quindi io sono una Castoldi d’adozione. Milano invece non ha fatto un bel niente per portarsi a casa Kellan Armstrong, né suo padre, né te che sei di Como, né tutti quelli che si definiscono milanesi d’adozione. La storia è diversa: la città era qui, stava bene con se stessa e voi siete arrivati perché ci volevate venire, punto. Siete i benvenuti, per carità. E se uno si sente milanese, per me è milanese. È il bello di questa metropoli. Per essere considerato fiorentino, servono una dozzina di generazioni di avi. Lo stesso vale per Venezia o Palermo. Milano è diversa, non richiede il pedigree ai suoi abitanti.»
Steno si sarebbe accontentato di una risposta più breve. Ma doveva ammettere che Sabine era convincente. Per una volta, evitò persino di ricordarle che lui era di Bellagio, non di Como. Si limitò a risponderle «Ok», poi digitò «Kellan, che ha studiato a Milano» dove prima aveva scritto «Kellan, milanese d’adozione».
Il ritratto della vittima era il pezzo più difficile fra quelli che doveva scrivere, visto che del ragazzo non sapeva praticamente nulla, se non il poco che aveva ricavato dalle carte della Questura, dai social network, e da un paio di frasi della pm Tajani. Il risultato è che aveva molte informazioni su lui da morto – la descrizione delle ferite, l’ora del decesso e tutto il resto – ma quasi nessuna sul ragazzo da vivo. In compenso, in meno di due ore aveva già chiuso il pezzo su Liam Armstrong, il cui curriculum era pubblicato in rete. E anche l’approfondimento su come e dove si incontravano i gay in cerca di avventura. Finito il ritratto di Kellan, avrebbe messo di nuovo mano al servizio su come fosse possibile che la polizia non avesse dato comunicazione per tre giorni della morte del ragazzo. Lo aveva chiuso, ma voleva evitare di scrivere fesserie.
«A che punto sei?» domandò Sabine.
«Sto facendo un ritratto di Kellan. Mi mancano solo il pezzo di apertura, in cui racconto la dinamica dell’omicidio, e il timing. Per quelli voglio prima risentire il mio amico poliziotto.»
«Scimmia?» chiese Sabine.
«Esatto, Raffaele Cinà detto Scimmia, il mio migliore amico.»
«Ieri notte, mentre fotografavo giù alla buca, l’ho spiato un bel po’ attraverso il teleobiettivo. Non è male. Certo, non è esattamente un bel ragazzo, però si muove bene, sembra sicuro di sé. Diciamo che me lo farei.» Steno guardò Sabine, che dopo essersi messa le calze e una canottiera era tornata a letto, vinta dalla pigrizia. Stava lì, appoggiata con sublime leggerezza alle lenzuola bianche e profumate. Aveva i capelli per metà lisci e per metà ancora ricci. La sera prima non aveva finito di stirarli con la piastra. Qualunque ragazza al mondo conciata così sarebbe sembrata una deficiente. Sabine era invece elegante. Sembrava pronta per posare per il calendario Pirelli.
Steno la guardò bene. Poi si immaginò che nel letto con lei ci fosse Scimmia, visto che lei aveva appena detto che se lo sarebbe fatto volentieri. Immaginò Sabine, creatura filiforme, fra le braccia curve e pelose del suo migliore amico. Ancor prima che gelosia, provò un senso di repulsione. Eppure Steno doveva ammettere che Scimmia aveva successo con le ragazze, da sempre. Un ascendente che diventava attrazione fatale quando le ragazze erano olandesi, svedesi e nordiche in generale. In campeggio la tenda di Scimmia finiva sempre per ospitare una o più bionde, a rotazione. Ma Sabine non era bionda per niente, e comunque a Steno la cosa non andava giù.
«Prova a farti Scimmia e giuro che ti butto via la piastra per i capelli», le disse.
Lei si toccò la testa, dal lato ancora riccio.
«Cazzo è vero, che palle. Devo ancora piastrarmi», disse. Poi si alzò dal letto, si infilò in un vestitino di lana beige, strinse in vita una grossa cintura di pelle marrone e mise in testa una fascia nera per nascondere i capelli mezzi lisci e mezzi no.
«Vado a vedere se c’è ancora torta, anche se non ci spero», disse Sabine, camminando verso la porta.
Dopo che Sabine fu uscita dalla stanza, Steno scrisse un messaggio a Scimmia. «Posso chiamarti?»
«Non ora. Sono in Procura. Entro fra poco dalla Tajani. Abbiamo un vero testimone finalmente. A dopo.»