VI

 

 

 

 

 

 

 

Sabine aveva preso gusto a stare nella camera 301 dell’Albergo Villa Garibaldi. Le piaceva la sensazione della moquette sotto i piedi nudi. Le piaceva la luce morbida e calda delle abat-jour sui comodini. E le piaceva vedere Steno all’opera, silenzioso e pacato alla tastiera, così diverso dai giornalisti di moda con cui le capitava di lavorare. Lei si sentiva parte della faccenda. E lo era davvero, avendo scattato le fotografie che sarebbero state stampate l’indomani sulla «Notte».

Sabine, mentre Steno era dagli Armstrong, aveva fatto un salto a casa sua per recuperare la piastra per i capelli. Aveva camminato per quasi tre chilometri fra cumuli di neve candida e distese di gelida poltiglia sporca. Così ora, mentre Steno finiva di scrivere i suoi articoli, lei portava silenziosamente a termine il lavoro che aveva cominciato la sera prima, e che aveva dovuto interrompere per andare a scattare foto alla buca. Guardandola, mente lisciava ciocca per ciocca davanti allo specchio, Steno pensò due cose. Anzitutto, che Sabine con le mani ci sapeva fare. E poi che era una ragazza sicura di sé. A nessuna donna piace mostrare agli uomini la fatica che fa per essere bella. È come per un mago svelare i propri trucchi.

Il sole, come sempre a Milano in inverno, era sceso molto presto. Fuori dalla finestra della stanza, la neve aveva ricominciato a scendere fitta, dopo qualche ora di relativa tregua. Cadeva in grossi fiocchi. Anzi, sembravano, e forse lo erano veramente, grappoli radunati durante la caduta da chissà quale effetto fisico. Steno di tanto in tanto guardava il cellulare aspettandosi una chiamata del Capo, visto che era davvero molto tardi e ancora non era riuscito a consegnare. Ma la chiamata non arrivò. Il Capo, come tutti i bravi giornalisti, si innervosiva quando poteva permetterselo, ma nelle situazioni di vera emergenza trovava la calma.

Steno chiuse il pezzo principale, con la ricostruzione della dinamica dell’omicidio, e lo inviò per mail. Alla pagina sugli orari dell’omicidio stava già lavorando da più di mezz’ora Adele, la collega fidanzata con il redattore di «Cani e Caccia», a cui Steno aveva inviato in forma di appunti tutte le informazioni necessarie. Restava ancora un’ultima verifica da fare. Andare dalla Tajani e chiederle del nuovo interrogatorio agli amici di Kellan, di cui gli aveva parlato il questore. Baciò Sabine su una guancia, raccolse il cappotto dalla poltrona, e uscì.

 

«Scimmia?»

«Steno, devi darmi il numero del tizio con la cerata.»

«Ti giuro che non ce l’ho», e frenò a un semaforo rosso.

Una squadra di uomini in pettorina rossa spalava la neve sui Bastioni di Porta Venezia. Il capo era probabilmente italiano e dava ordini tenendo le mani in tasca. Tutti gli altri erano neri, e ci davano dentro con la pala. Una squadra americana di pallacanestro, più o meno, con l’allenatore che spiega gli schemi di gioco.

«Una telecamera di sicurezza in viale Alemagna, vicino alla Triennale, ha ripreso un uomo con una mantella scura addosso. Attraversa la strada, a un orario compatibile con quello dell’omicidio di Kellan. Parte dal parcheggio dell’Old Fashion, taglia per il largo le due carreggiate, poi scompare fra gli alberi che portano alla buca. Subito dopo attraversano altre persone, con passo tranquillo. Prima un uomo. Poi due ragazze, quindi un altro uomo. Non sembrano insieme. E non si capisce dove stiano andando. Non so dire se anche loro si infilino fra gli alberi giù nella buca o se abbiano solo parcheggiato da quelle parti», disse Scimmia.

«Dici che è lui?» disse Steno.

«Esatto. Io dico che il tuo amico Ottobre lunedì sera ha ammazzato Kellan Armstrong. Poi martedì è tornato alla buca per recuperare qualcosa che aveva perso, per cancellare le prove. E lì tu lo hai incontrato.»

«Ci ho pensato anch’io, Scimmia. Può essere. Ma davvero non mi sembra il tipo. A parte l’altezza e la mantella, come fai a dire che è lui? Si vede in faccia? Ha gli occhiali?» domandò Steno.

«A parte che, a differenza tua, io non lo ho mai visto in faccia il tuo amico con la cerata. Quindi non lo riconoscerei. Comunque no, nel filmato non si vede. E la qualità dell’immagine è quella che è. Però ti ripeto, abbiamo un uomo in mantella che si avvicina alla buca appena prima dell’omicidio di Kellan. Non dico che sia per forza il tizio che hai conosciuto. Ma dico che vorrei farci due chiacchiere, questo è sicuro. E in ogni caso sì, penso sia lui. Lunedì ammazza Kellan. Martedì torna sul luogo del delitto per sistemare le cose. Mercoledì ti chiede di parlare, per capire cosa sai dell’indagine e se ci sono sospettati. Per questo, quando vi siete visti, non voleva parlare per strada o in un bar. Temeva che tu ti fossi portato dietro la polizia e aveva paura di essere arrestato. Ha accettato di parlarti in macchina, perché lì tutto sommato ti poteva controllare. Magari era armato, e nel caso noi fossimo arrivati ti avrebbe minacciato. Ok, sono tutte congetture, lo ammetto. Ma il filmato della telecamera in viale Alemagna cambia le cose. Finalmente abbiamo qualcosa di concreto su cui lavorare. E magari anche da portare al processo. Ma per arrivare al processo, dobbiamo prenderlo. E per prenderlo, dobbiamo sapere chi è e dove si trova.»

Bravo Scimmia, tuo padre sarebbe fiero di te, pensò Steno.

«Ma di che telecamera si tratta? Perché non l’avete guardata prima?» chiese Steno.

«È una vecchia telecamera fissa del Comune, montata su un palo della luce. Pensavamo non fosse nemmeno più attiva. O che non fosse più in grado di conservare le immagini, visto che da anni non rimanda più a nessun monitor. Invece era tutto registrato. Ci abbiamo messo un bel po’ a tirare fuori il filmato. Da quando all’incrocio c’è la nuova telecamera mobile, quella vecchia non la controlla più nessuno e nemmeno avevamo più i codici di accesso. Ho insistito io perché fosse controllata e sono contento di averlo fatto», spiegò Scimmia.

Steno desiderò davvero poter aiutare l’amico, ma non gli venne in mente nessun modo per raggiungere l’uomo in cerata.

«Scimmia, se il tizio mi cerca ancora, giuro che trovo il modo di mettervi in contatto. Te lo prometto. È tutto quello che posso fare.»

Scimmia era convinto che Steno in realtà potesse fare molto di più. Ad esempio, trovargli al volo il numero di telefono del principale indiziato per l’omicidio di Kellan Armstrong. O forse non ne era convinto, semplicemente ci sperava e aveva troppa fiducia nelle capacità di Steno.

«Mi raccomando, nessun accenno al filmato negli articoli di domani. Se c’è anche solo la minima possibilità che l’uomo in mantella non sia ancora scappato, non voglio bruciarla», disse Scimmia.

«Tranquillo, ho già mandato tutti i pezzi in redazione», lo rassicurò Steno.

I due amici si salutarono. Nel momento di riattaccare, Steno notò che anche in piazza Cinque Giornate la squadra al lavoro era composta da un bianco che parla e dei neri che spalano.

 

Steno si fermò proprio di fronte al passo carrabile del Palazzo di Giustizia. Guardò attraverso il parabrezza verso il cancello d’ingresso. Da giorni, praticamente dall’inizio della grande nevicata, il posteggio interno era pressoché deserto. Anche i più pigri fra i giudici e i cancellieri avevano rinunciato all’auto, per paura di incidenti o temendo di restare impantanati. Fra i pubblici ministeri, l’unica che si ostinava a spostarsi ogni mattina con mezzi propri era la Tajani, nonostante abitasse molto vicino. E infatti la sua Panda rossa era in cortile, solitaria, con le catene montate, in mezzo a una spianata di neve. Era posteggiata di fianco a un furgone blindato della polizia penitenziaria, fermo lì da chissà quanto, quasi invisibile sotto la neve. Con ogni probabilità la pm era ancora nella sua stanza. Steno parcheggiò la Maserati di fronte a una libreria di testi giuridici, e a gesti, chiese al libraio se poteva dare un occhio alla macchina.

Uscendo dall’ascensore centrale, al quinto piano, Steno riconobbe, per quanto dessero le spalle, Marco e Willy. A capo chino, ciondolavano lungo il corridoio vuoto, come lo sono spesso i corridoi della Procura al pomeriggio. Alcuni passi più indietro, li seguivano due uomini in abito grigio. Avevano tutta l’aria di essere avvocati. Aspettò che i quattro si fossero allontanati e bussò alla porta della Tajani, che rispose da dentro con una sorta di ringhio.

«Cosa c’è ancora?»

Steno abbassò la maniglia ed entrò. La pm si aspettava di trovarsi di nuovo di fronte i due amici di Kellan e i loro avvocati, tornati indietro per chissà quale ragione.

«Posso entrare?»

«Lo hai già fatto», abbaiò la Tajani. Aveva addosso una giacca a scacchi bianca e nera, optical fuori tempo.

«Come se la sono cavata?» domandò Steno, senza giri di parole.

«Male.»

«Sostengono di essersi trovati lì per caso, mentre quel violento di Kellan menava i gay?»

«Più o meno.»

«E del bigliettino, lei cosa pensa?»

La pm ruotò la testa di lato, come se si aspettasse che la stampante laser potesse suggerirle una buona risposta. Poi sbuffò e tornò a fissare la parete di fronte.

«Penso che sia un biglietto che non ho ancora visto. Me ne hanno parlato, so cosa c’è scritto. Sarà acquisito e valutato, come tutto quello che può aiutarci a trovare l’assassino di Kellan Armstrong. O a ricostruire le cose per come sono andate.»

«Lei ci crede?» domandò Steno.

«Credo a cosa?»

«Alla storia che raccontano la famiglia Armstrong e la Questura. Kellan che perde il portatile e il telefono in camera sua. La polizia che non li trova. Il pc che salta fuori dopo un giorno intero dalla morte, trovato dai genitori. Poi il miracolo del cellulare. E ora la ricomparsa del biglietto. Un po’ troppo, non crede?»

La Tajani scosse leggermente la testa e fece un grugnito. Si stava schiarendo la voce o voleva intimidirlo?

«Quindi, cosa vuoi dire?» domandò la Tajani.

«Che non è vero.»

«Che non è vero cosa?»

Domanda retorica. Steno la riconobbe. C’era qualcosa della maestra nella Tajani. Dunque Steno non replicò e si dispose ad ascoltare come un bravo studente.

«Vedi Steno Molteni, perché tu ti chiami Steno Molteni, giusto?»

«Giusto.»

«Quanti anni hai? Pochi. Ventisei hai detto?»

Steno annuì.

«Bene. Tu hai ventisei anni, io più di trenta», disse la Tajani, e sorrise. La pelle del collo, cascante, la faceva somigliare a un qualche tipo sconosciuto di dinosauro o di grossa lucertola.

«Dall’alto dei miei trent’anni passati, ti dico che probabilmente mi sono occupata di qualche omicidio in più rispetto a te. In questa vicenda Kellan Armstrong è la vittima. E tutte le vittime nei procedimenti per omicidio hanno una cosa in comune. Sono morti. Kellan Armstrong non fa eccezione.»

La Tajani si alzò, incrociò le braccia sul petto, si mosse verso la finestra e si appoggiò, pesante, alla parete.

«Come racconta lo studente di Warwick, che per ora è l’unico vero testimone che abbiamo, lunedì notte Kellan non ha picchiato nessuno. Su questo direi che non ci sono dubbi. Se per di più, come fa pensare il biglietto, salta fuori che davvero Kellan era nella buca per frenare i suoi amici, sarà più difficile per chi lo ha ucciso sostenere nel processo la legittima difesa. Perché è questo che sosterrà l’assassino, quando lo prenderemo. Che Kellan era un violento e andava fermato. Che Kellan faceva paura, con in testa il passamontagna e in mano il manganello. E che per questo lo ha dovuto colpire.»

La Tajani si allontanò dal muro, e appoggiò il sedere al mobiletto della stampante.

«Quando poi porteremo a processo i due amici di Kellan per le aggressioni ai gay degli scorsi mesi, loro cercheranno di sostenere che era tutta colpa di Kellan. Diranno che era lui il capo degli Spazzini. Che era solo lui a picchiare. In pratica, ripeteranno tutte le scemenze che mi sono venuti a raccontare poco fa.»

La pm cercò di aprire una bottiglietta d’acqua, ma il tappo era tenace. Steno allungò una mano, offrendo il proprio aiuto, ma lei preferì mettere la bottiglietta chiusa in un cassetto.

«Kellan Armstrong era un santo?» domandò la Tajani. «Non lo so, e nemmeno mi interessa. A me interessano i reati. Qui ne vedo almeno due. Un omicidio e una serie di aggressioni. Io mi occupo dell’omicidio. I responsabili dei reati si individuano nelle indagini, ma si condannano nei processi. E a processo ci vanno i vivi. Kellan, come ti dicevo, è morto. Io faccio il pubblico ministero, non l’acchiappafantasmi, quindi Kellan mi interessa come vittima. Aggiungi che ai morti, nei procedimenti penali, i vivi tendono ad addossare parecchie responsabilità. È il contrario del detto “se ne vanno sempre i migliori’’. Nei processi penali, se muori di colpo diventi un assassino, un violento, un estorsore, l’ideatore di ogni tipo di piano criminale. Quel biglietto, per quel che può valere, è l’unico modo che ha Kellan Armstrong di rispondere alle accuse che gli saranno rivolte da persone vive, che cercano di nascondere le proprie responsabilità. Dai suoi amici, chiamiamoli così, come anche dal suo assassino, se e quando lo troveremo. Tutta gente che merita di essere punita per quello che ha fatto. Mi chiedi se il biglietto è autentico? La madre di Kellan dice di averlo trovato nei jeans, e lo ritiene autentico. Suo padre anche. E pure il questore. Il questore ne ha parlato con il procuratore, a quanto so. E puoi scommettere che quel biglietto è autentico anche per il procuratore, se lo conosco bene. Tu mi chiedi se io ci credo? Certo che ci credo, fino a prova contraria. E sai in cosa credo ancora di più? Nel fatto che voglio sapere il nome e il cognome dell’uomo con la mantella scura e il volto coperto che ha ucciso Kellan Armstrong lunedì notte. Voglio portarlo di fronte a un giudice e voglio che il giudice lo condanni per omicidio.»

La Tajani riaprì il cassetto, riafferrò con determinazione la bottiglietta d’acqua, e fece forza sul tappo fino a quando finalmente si aprì. Bevve soddisfatta.

«Ora però basta», disse la pm. «È tardi, usciamo da questa stanza, ho fame. Vado da mia figlia e dalla mia nipotina di quattro anni. Ieri sera al telefono la piccola mi ha chiamato sederona e ho dovuto fare finta di offendermi, perché così mi ha detto di fare mia figlia. Oggi però le porto un regalo. Mi piace quella bambina, ha carattere. Tu, invece, porta fuori a cena quella bella ragazza che ieri hai lasciato tutta la sera al freddo sul ponte, a farci fotografie mentre noi spalavamo nella buca.»

Steno abbozzò un sorriso e ritenne che la pm Tajani gli aveva appena dato un ottimo consiglio.

Appena fuori prese il cellulare e digitò sintetico: «Cena fuori?»

La Tajani raggiunse l’ascensore centrale, diretta al parcheggio. Non ebbe nemmeno bisogno di schiacciare il tasto, visto che la cabina stava già salendo. La Tajani se ne stupì, vista l’ora e il deserto a Palazzo in un giovedì sera d’inverno. Quando le porte dell’ascensore si aprirono, la pm si trovò di fronte a una ragazzina mora, snella, con pantaloni neri attillati e una giacca di pelle verde, ancora più stretta. Maria Cristina Tajani ebbe un pensiero tutt’altro che protettivo, e che poco si addiceva a un’anziana signora come lei. La prima impressione che ebbe della ragazza fu di trovarsi di fronte a una creatura sexy e pericolosa. Ne fu attratta e spaventata. Ma fu un attimo soltanto.

«Buonasera, sa dove posso trovare la dottoressa Tajani?» domandò la ragazza.

«Ce l’hai davanti», rispose la Tajani.

«Sono Giada, la ragazza di Kellan Armstrong. Scusi per l’ora. Ho dovuto insistere, giù con gli uomini della sicurezza. Non volevano farmi entrare.»

La Tajani la squadrò di nuovo da capo a piedi, senza simpatia.

«Da lunedì ho già parlato due volte con la polizia. Ma c’è una cosa che finora non ho detto a nessuno. E sono qui per parlarne direttamente con lei. È un dettaglio, ma non voglio tenerlo per me», disse la ragazza.

«Sono un po’ di fretta. Vuoi tornare domani mattina? Dalle otto in poi mi trovi nella mia stanza.»

La ragazza sorrise di nuovo, dolce e leggera. Ma alla Tajani quel sorriso non piacque. Vi colse la nota di marcio che si nasconde sotto certi profumi dolciastri.

«Non serve che io torni domani, devo dirle solo una piccola cosa.»

«Vai», la incitò la Tajani.

La ragazza abbassò lo sguardo a terra.

«Qualche giorno fa, penso fosse venerdì, Kellan mi disse che aveva paura dei suoi amici. Mi disse che temeva il loro giudizio. Pensava che lo considerassero un debole. Mi disse anche che Marco e Willy erano violenti. Io gli chiesi cosa intendesse per violenti. Gli chiesi se avessero fatto qualcosa di male a qualcuno. Lui non mi rispose. Mi disse che era un argomento di cui non voleva parlare.»

La Tajani esplorò il volto della ragazza, cercando di cogliere ogni minima variazione, ogni alterazione significativa.

«Vede, i poliziotti con cui ho parlato questa mattina mi hanno detto che Kellan nei mesi scorsi sarebbe stato presente ad almeno altre due di queste spedizioni punitive contro i gay. Io penso che anche in quelle occasioni fosse lì per fermare Marco e Willy. E penso anche che, se non è riuscito a farlo, è soltanto perché aveva paura di loro. Se solo Kellan si fosse fatto valere! Se solo li avesse fermati prima.» La ragazza scoppiò a piangere. La Tajani per la prima volta dall’inizio dell’incontro, vide Giada per quello che era. Una sedicenne a cui hanno ucciso il ragazzo. Provò pena. Pensò al vestito da Principessa dei Ghiacci che aveva nella borsa, e che poco dopo avrebbe consegnato alla nipotina. Pensò a sua figlia, quando piangeva per amore nella cameretta della loro vecchia casa a Bari, negli anni in cui essere figlia della pm Tajani significava vivere sotto scorta. Di fronte a quella ragazza in lacrime, immobile di fronte a un freddo ascensore del Palazzo di Giustizia deserto, la pm cercò di tornare ai suoi sedici anni. Ma non funzionò, era passato davvero troppo tempo.

«Dai, vieni da me domani mattina e facciamo due chiacchiere con calma», disse la Tajani a Giada e, con il dorso della mano, osò una sorta di carezza. Giada annuì e con voce debole ringraziò. Scesero insieme in ascensore. In silenzio, l’una al fianco dell’altra, camminarono per i lunghi corridoi che portavano all’unica uscita aperta a quell’ora. Arrivati alla porta si strinsero la mano, poi la Tajani virò brusca verso il cortile, dove aveva lasciato la Panda rossa con le catene montate.

Una volta in strada, Giada digitò sul cellulare: «Fatto».

E Han le rispose: «Bene».